Nautilus n. 37 - luglio 2024

Viaggiare con la letteratura

Intervista a Giulio Ferroni

(a cura di Monica Pierulivo)

La tematica del viaggio come pellegrinaggio verso la conoscenza di sé e del mondo, è molto ricorrente nella letteratura, unisce il reale con il fantastico, il presente con il passato.
L’ultimo libro di Giulio Ferroni, l’Italia di Dante. Viaggio nel Paese della Commedia, edito da “La Nave di Teseo”, uscito nel 2019, è un viaggio dell’autore attraverso i luoghi citati dal grande poeta nella Divina Commedia, un viaggio reale e simbolico allo stesso tempo nel quale si scopre e si valorizza una parte ampia del nostro paese, mettendone in evidenza le diversità, la ricchezza e la bellezza.
Il libro si è aggiudicato il premio Viareggio-Rèpaci 2020 per la saggistica e il Premio letterario internazionale Mondello.

L’Italia di Dante è un’opera rilevante, di 1300 pagine, un viaggio fisico e intellettuale nell’Italia e nella provincia che parte da Napoli, dove si trova la tomba di Virgilio, per attraversare in lungo e in largo il nostro paese. Come è nata questa opera?
 
Il libro è nato prima della pandemia che ne ha sacrificato l’immediata diffusione, non potendo fare in quel periodo molte presentazioni pubbliche. È stato promosso soprattutto dal 2021, in coincidenza con la ricorrenza dei 700 anni dalla morte di Dante.
Ho voluto fare un lavoro basato su tre passioni: Dante, l’Italia e il viaggio. C’era stato anche uno studioso che nella seconda metà dell’Ottocento aveva attraversato l’Italia sulle orme di Dante, il tedesco Alfred Bassermann. Ma, differenza di Bassermann, che cercava di capire se in ogni luogo nominati nella Commedia Dante c’era veramente stato, io però ho voluto fare un lavoro diverso, cercando la traccia di Dante nell’Italia di oggi, evidenziandone anche i cambiamenti intervenuti nel tempo; un percorso attraverso la storia, la cultura, l’arte che vuol restituirci la vera conoscenza e l’autenticità dei luoghi. Un invito all’approfondimento. 
Viaggiare culturalmente significa infatti confrontare il passato con il presente, cosa che in un paese come il nostro dovrebbe essere fatto sempre.
Oggi purtroppo sempre più spesso chi visita le città e i luoghi non fa altro che cercare tutte le abitudini e le piacevolezze che già vive a casa sua, mentre invece il viaggio è soprattutto scoperta, anche di luoghi meno visitati e meno conosciuti, anche attraverso la loro storia, le trasformazioni che i luoghi geografici e le città hanno subito. Per fare questo ci viene in aiuto la storia ma anche la letteratura, con scrittori anche lontani nel tempo come Dante, che ci consentono di rivivere l’esperienza già fatta in quegli stessi luoghi in passato e di rapportarla alla realtà attuale. In ogni luogo c’è una sostanza vitale e storica, sono state vissute tante fatiche, sofferenze, esperienze belle e brutte. Avere questa consapevolezza è fondamentale per comprendere in profondità una città, un ambito geografico, un paesaggio. 
Ho voluto fare quindi un libro sull’Italia di oggi ma specchiata nell’Italia di Dante. 

Nautilus n. 37 - luglio 2024

Viaggi spaziali

Intervista a Emanuele Menietti

(a cura di Monica Pierulivo)

Viaggiare nello spazio ha sempre rappresentato una frontiera nella storia dell’uomo, dal punto di vista fisico e dell’immaginario. Esattamente 55 anni fa, il 20 luglio del 1969, l’Italia era davanti alla televisione per la mondovisione del primo sbarco sulla Luna di un essere umano. Dopo questo risultato non siamo più riusciti a tornare sul suolo lunare e la percezione è che oggi sembri più difficile farlo rispetto a quell’epoca.
È proprio così?
 
Quando siamo andati sulla Luna la prima volta tra la fine degli anni ‘60 e anni ‘70 eravamo in un contesto molto diverso, di Guerra Fredda, di competizione molto serrata tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e questo spingeva a uno sviluppo molto forte, anche per ragioni di propaganda, nel settore dello sviluppo tecnologico e scientifico, che poteva essere utilizzato anche in contesti di guerra.
Una motivazione che stimolava le attività di ricerca anche nel settore missilistico perché alla fine un razzo spaziale è un grosso missile e queste tecnologie avevano anche delle ricadute belliche.  C’era la necessità di avere a disposizione dei missili intercontinentali che potessero trasportare le testate atomiche da una parte all’altra del mondo in pochi minuti, nel caso in cui una delle superpotenze attaccasse l’altra.
In quel momento dimostrare di poter raggiungere per primi un corpo celeste diverso dal nostro aveva un impatto molto forte dal punto di vista dell’immagine e della propaganda.
 
Adesso la situazione è cambiata anche se negli ultimi anni, con la guerra in Ucraina stiamo assistendo a una nuova polarizzazione che, oltre a Russia e Stati Uniti, vede anche un altro concorrente da non sottovalutare: la Cina. I programmi delle esplorazioni spaziali della Cina per la Luna sono molto avanzati; i Cinesi sono già riusciti a compiere diverse missioni lunari con il loro programma Chang’e ha previsto l’arrivo sulla Luna di diversi lander a alcuni rover, cioè robottini che possono muoversi sulla superficie lunare. Si tratta in ogni caso di missioni senza equipaggio, ma tutte preparate con l’obiettivo di poterci tornare con degli astronauti.

Per quanto riguarda l’Occidente, quello che stiamo cercando di fare adesso è il passo successivo rispetto a quello degli anni ‘60 e ‘70, cioè realizzare una piccola stazione orbitale intorno alla Luna, il cui nome è Gateway  e che era inesistente al tempo delle missioni con l’Apollo, finalizzata a consentire agli astronauti di andare e venire dal nostro satellite molto più facilmente. All’epoca per andare sulla Luna veniva usato un razzo gigantesco utilizzabile solo una volta, che poi andava ricostruito.
Invece adesso l’obiettivo è passare a sistemi che siano quasi completamente riutilizzabili. Non è una sfida da poco e coinvolge anche Elon Musk con la sua Starship, una gigantesca navicella spaziale che i tecnici di SpaceX (Space Exploration Technologies Corporation) stanno sperimentando dal Texas.

Nautilus n. 36 - giugno 2024

Il progetto DumBO a Bologna

Da scalo ferroviario a spazio creativo in “transizione” 

Intervista ad Andrea Giotti, Amministratore delegato di Open Event S.r.l.

(a cura di Benedetta Celati)

Vincitore del premio nazionale “Amministrazione, Cittadini, Imprese” 2022 di Italiadecide, associazione di ricerca per la qualità delle politiche pubbliche; gemellato con il creative hub The Cable Factory di Helsinki, grazie al progetto europeo Twin Hubs. Membro di oltre 10 reti e network regionali, nazionali e internazionali tra cui European Creative Hubs Network, European Network of Cultural Centres, European Creative Business Network, Clust-ER Cultura e Creatività, Lo Stato dei Luoghi, DumBO, acronimo di “Distretto urbano multifunzionale di Bologna”, è un progetto di rigenerazione a scopi socioculturali di un’area di circa 40mila metri quadrati, un tempo adibita a scalo ferroviario di smistamento merci e oggi restituita all’uso da parte della città e dei suoi abitanti.
 
L’iniziativa ha una natura imprenditoriale ma anche una forte vocazione alla contaminazione creativa di attività di tipo economico, associativo, istituzionale e civico.
Ne parlo con Andrea Giotti, amministratore delegato di Open Event S.r.l., società che si occupa, dal 2019, del recupero e della gestione di questo spazio. 
Andrea, ingegnere di formazione, ha esperienza nel campo dell’organizzazione aziendale e dello sviluppo delle PMI, oltre che della comunicazione e organizzazione di eventi, grazie al lavoro svolto con l’agenzia Eventeria, che, insieme a Open Group, forma al 50% Open Event S.r.l.
 
Temporaneità e polifunzionalità sono le due caratteristiche principali di questo progetto.
Temporaneo è infatti, almeno inizialmente, il riuso a fini culturali e aggregativi proposto per l’area, quando, nel 2019, viene creata Open Event S.r.l. per rispondere all’invito ad offrire pubblicato da FS Sistemi Urbani S.r.l.– società partecipata al 100% da Ferrovie dello Stato Italiane, la cui mission consiste nella valorizzazione delle aree non più funzionali all’esercizio ferroviario – per la locazione transitoria di alcuni immobili all’interno dell’ ex scalo ferroviario di Bologna Ravone, collocato nel quartiere Porto-Saragozza (a Nord-Ovest del centro storico di Bologna), tra il canale Navile e i Prati di Caprara.
 
AG: Lo spazio era inutilizzato da diversi anni (la dismissione risale infatti al 2010). Con l’invito ad offrire, FS Sistemi Urbani S.r.l. mirava a trovare un gestore, sottraendo così l’area al degrado, nelle more di un progetto di medio e lungo termine per la riqualificazione degli immobili (riqualificazione da intendersi in senso ampio quindi implicante anche abbattimenti e ricostruzioni degli edifici).

 

1.         Ad oggi sono ben sette i progetti di recupero e trasformazione di vecchi siti industriali sul territorio di Prato. Cosa significa investire in termini economici e sociali nell’archeologia industriale?

Sette? Aspetti, mi faccia fare un conto mentale: Officina Giovani presso gli Ex Macelli, la CCIAA Prato-Pistoia presso vecchio opificio, ovviamente il Polo Campolmi presso l’omonima Cimatoria – la fabbrica più grande dentro le mura trecentesche del centro storico – che oggi ospita Biblioteca Lazzerini e Museo del Tessuto, PrismaLab ovvero un centro polifunzionale con sale studio ma anche tutti i servizi bibliotecari presso una ex Filatura nell’area del Macrolotto Zero, l’area a più alta densità migratoria di persone provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese, infine – ma i primi in ordine temporale – i due teatri Fabbricone e Fabbrichino.
Prato è anchor point della Rete ERIH – European Route of Industrial Heritage e da alcuni anni ha sviluppato un progetto di Turismo Industriale denominato TIPO. Tipo ha recentemente vinto un bando europeo (European Innovative Action – EUIA) da 5 milioni di euro sul turismo industriale e il Comune di Prato è capofila.
Fatta questa premessa, le rispondo subito: l’archeologia industriale è la nostra prima strada per stare dentro la Convenzione di Faro, ovvero per rendere presente e futuro il ruolo del nostro Patrimonio di riferimento (Heritage rende meglio) nel nome di quella che Becattini, teorico dei distretti industriali, definiva la Coscienza dei Luoghi.

2.         Il Museo del Tessuto, simbolo della tradizione di uno dei distretti tessili più importanti d’Europa, sorge nell’ampio complesso industriale dell’ex Cimatoria Campolmi: come è nata l’idea di creare una moderna area museale all’interno di questo sito e a quali complessità è andato incontro in fase di realizzazione?

L’idea è nata in seguito alla chiusura della Cimatoria. La fabbrica più grande dentro il centro storico, set e protagonista al tempo stesso del cult-movie Madonna che silenzio c’è stasera con il nostro Francesco Nuti.
Si sono saldate due necessità: il Comune aveva già – tra le altre biblioteche pubbliche – una grande biblioteca in centro, a due passi dalla Campolmi, ma per lunghi decenni ha dovuto corrispondere un affitto.
Il Museo del Tessuto - nato all’interno dello storico istituto tecnico industriale Tullio Buzzi, transitato anche per il piano terra del Museo Civico di Palazzo Pretorio – a sua volta aveva la necessità di un luogo che desse la possibilità, non solo di esporre il già considerevole patrimonio collezionato, ma anche di organizzare attività espositive e didattiche.
Da queste due direttrici nasce un investimento da circa 30 milioni di euro, in buonissima parte di fondi europei. È la bellezza di questa operazione: pensare che i cittadini italiani, francesi, portoghesi, tedeschi ecc.… hanno contribuito alla più importante operazione di rigenerazione urbana della nostra città e del nostro distretto. 


Il MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz è un’esperienza molto interessante e particolare di museo, fondato dall’antropologo Giorgio de Finis più di dieci anni fa. Un “museo abitato” in cui le opere d’arte sono destinate all’uso quotidiano dei residenti.
Qual è la storia di questa struttura?

Il 27 marzo del 2009 un gruppo composto da lavoratori precari, disoccupati, sfrattati, migranti, persone senza fissa dimora e da qualche studente occupa la ex fabbrica di salumi Fiorucci a Tor Sapienza insieme ai Blocchi Precari Metropolitani, movimento di lotta per il diritto all’abitare. Privi di alternative, occupano per avere un tetto sopra la testa, consapevoli dei rischi di violare la legge, di andare incontro a sanzioni, di affrontare la perenne minaccia di uno sgombero coatto.
L’occupazione assume il nome di Metropoliz mutuato dal titolo del film di Fritz Lang, Metropolis, con la “z” diZorro, al posto della “s” in riferimento a colui che combatte contro le ingiustizie e per i diritti dei più deboli. Come Zorro, sono dell’idea di andarsi a prendere i diritti se questi non vengono riconosciuti.
Di lì a pochi mesi, Metropoliz diventerà la prima occupazione di stampo abitativo dei Rom. Per quel che so, prima di allora nessun Rom aveva mai occupato una struttura per abitarla, né si era mai unito ad altre etnie diverse dalla propria.
Metropoliz diventa così un’esperienza multiculturale inedita che ha come ambizione quella di dimostrare alla città di essere un esempio di integrazione, recupero, autogestione e sperimentazione di un nuovo modello di convivenza urbana.

Come si passa dall’occupazione all’arte?

Di mezzo c’è un viaggio sulla Luna, documentato, fin dalla sua genesi, nel film Space Metropoliz, regia di Giorgio de Finis e Fabrizio Boni.
Agli abitanti è stato proposto un viaggio sulla Luna. Andare sulla Luna voleva dire giocare con l’immaginazione e la fantasia, troppo spesso soffocate dai problemi del vivere quotidiano; significava provare a ritagliarsi uno spazio in cui dare voce ai sogni ma anche considerare il nostro unico satellite naturale come un foglio bianco su cui riscrivere le regole del vivere insieme.
La Luna è inoltre il più grande spazio pubblico rimasto, dove è vietata la proprietà privata e bandito l’uso delle armi.
Con il rientro del razzo sulla Terra, Giorgio de Finis, antropologo e curatore indipendente, direttore artistico del Museo delle Periferie comincia a creare un museo partendo dalla collezione di opere realizzate nel corso del cantiere cinematografico e d’arte Space Metropoliz. Invita altri artisti a contribuire a sanare, ristrutturare e a proteggere la città meticcia con le loro opere. Così nasce il MAAM, il Museo dell’Altro e dell’altrove di Metropoliz_città meticcia, dove l’Altro sta per la città meticcia e l’Altrove è la Luna. Siamo nell’aprile del 2012.
Il museo nasce per gioco e diventa dispositivo “situazionista” e “relazionale”. Nel corso degli anni, grazie alle opere donate da centinaia di artisti, l’ex salumificio si dota di una pelle preziosa in grado di proteggerlo dalla minaccia dello sgombero. Diventa uno spazio vivo in continua trasformazione. È un museo sgarrupato e caleidoscopico allo stesso tempo: contaminato, attraversato, meticcio. Distribuito tra chi al suo interno ci vive e chi lo vive il sabato, unico giorno della settimana di apertura al pubblico (alle 11 è prevista una visita guidata che ho il piacere di condurre).

1.     Cosa significa studiare oggi, in un’epoca di grandi complessità ma anche di grandi semplificazioni?

Analizzando innanzitutto il concetto di “studio” e le sue radici etimologiche, sappiamo che deriva dal latino studium, studere: aspirare a qualcosa, applicarsi attivamente con desiderio, amore e passione, focalizzando l’azione non tanto sulla fatica dell’apprendimento quanto su una disposizione d’animo favorevole nei confronti di qualcosa o di qualcuno.
Dai latini a ChatGPT la complessità e la semplificazione hanno rappresentato una “antinomia pedagogica” che, insieme a molte altre, ha attraversato il mondo dell’educazione e della formazione.
Nella storia del pensiero pedagogico, le antinomie – già presenti nello strumentalismo deweyano di Democrazia e educazione[1] – si sono spesso presentate come problemi le cui risoluzioni non sempre hanno significato la reciproca esclusione dei due concetti. Nella pedagogia si rilevano così antinomie formali (come scienza-filosofia, teoria-prassi, ecc.), pratico-teoriche (ad esempio autorità-libertà, cultura-professione, ecc.), pratico-educative (individualizzazione-socializzazione, rapporto maestro-scolaro, ecc.)[2].
Con lo stesso approccio, abbiamo bisogno oggi di analizzare la complessità e la semplificazione anche relativamente alle potenzialità formative dello studio, per riconoscere le rispettive specificità ma al tempo stesso tutte le loro reciproche connessioni. Di fronte alle attuali sfide della complessità e alle fitte interconnessioni sistemiche che spesso rendono difficile distinguere le singole parti dal tutto, assistiamo oggi ad una proliferazione di metodi per semplificare. Il bisogno di semplificare riguarda tutte le attività e investe tutti gli ambiti della vita sociale e politica, della medicina, della scienza, della tecnologia, della vita quotidiana. Tuttavia, paradossalmente, il risultato della ricerca frenetica della semplificazione non è altro che quello di produrre un aumento della complessità: ad esempio, quanto più l’utilizzo dei computer è semplice, tanto più i software saranno “pesanti”. Quindi, semplificare ha un prezzo.
Sulla base di queste premesse, il significato dello studio in epoca contemporanea non può che essere quello che sostiene la formazione di “teste ben fatte”[3] e non “ben piene”, menti aperte e critiche, il cui pensiero cum plexus (intrecciato) possa nutrirsi delle infinite interconnessioni derivanti da una molteplicità di saperi, di contesti, di esperienze, secondo il principio interpretativo della “semplessità”. La semplessità non è semplificare, ridurre, eliminare variabili e costruire un modello lineare ma richiede di selezionare, collegare e immaginare. In questo senso, la semplessità può essere espressa come l’eleganza delle soluzioni semplici che permettono di arrivare ad azioni più rapide, più efficaci seppur mantenendo il senso e accettando alcune necessarie deviazioni. In generale, assumere la semplessità come principio regolativo dello studio significa riuscire ad interpretare la relazione tra il particolare e l’universale, qualunque siano i metodi di studio, gli strumenti, i tempi, i risultati. 

Nautilus n. 35 - maggio 2024

L’esperienza della Scuola parentale di Ancona

Intervista a cura di Marco Giovagnoli

Che cos'è una scuola parentale?

Una scuola parentale è un nuovo modo di fare scuola, dove i genitori si assumono la responsabilità dell'educazione (nelsenso vero del termine), dei propri figli sia direttamente, che coadiuvati da professionisti. La filosofia di fondo di unascuola parentale è quella di non delegare l'educazione dei propri figli ma di prendersi la piena responsabilità del loro percorso di crescita sotto tutti i punti di vista. Non vi sono, ad ora, delle figure culturali di riferimento, anche se stiamo approfondendo diverse teorie e valutando quella più consona al nostro gruppo. Tra le varie esperienze esiste una rete, cisono contatti, collaborazioni e gemellaggi tra le varie scuole sia a livello locale che nazionale e tutto ciò è un arricchimento sia per i genitori, che per i ragazzi e gli educatori. Crediamo che il confronto e lo scambio continuo conaltre realtà produca tantissimi vantaggi.

Nautilus n. 34 - Aprile 2024

Contro la mitologia della guerra

Intervista a Domenico Gallo

(a cura di Monica Pierulivo)

Domenico Gallo, magistrato, giudice della Corte di Cassazione, eletto senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell’arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare del conflitto nella ex Jugoslavia.
Lo abbiamo intervistato nel corso di un’iniziativa promossa dal Circolo Costituente Terra Val di Cornia il 26 marzo scorso a Venturina Terme sul tema “Ripudiare la guerra. La terra è di tutti”.

-       Cosa vuol dire resistere alla guerra?
 
Vuol dire respingere la cultura della militarizzazione, che imperversa e impazza su tutti i principali organi d’informazione. Oggi ci troviamo di fronte a una sorta di uso totalitario dell’informazione e dei miti che legittimano la guerra. La prima vittima della guerra è la verità e quindi fare resistenza alla guerra vuol dire in primis mettere a fuoco le contraddizioni, i rischi e i costi inaccettabili generati dalla politica che legittima la guerra.
Occorre smascherare la mitologia del nemico, un punto di forza di tutte le narrazioni di guerra. Noi ci troviamo di fronte a una situazione in cui si cerca di capovolgere il senso comune dell’opinione pubblica che considera la guerra una disgrazia, per far accettare la guerra come una normale funzione della politica, alla quale dobbiamo rassegnarci e donare lacrime e sangue. Ma questo non è accettabile ed è molto rischioso.

-       È necessario quindi un cambiamento di prospettiva e un’informazione meno univoca?
 
Sì, le parole del Papa in questo senso hanno fatto scandalo perché hanno introdotto il principio di realtà, che è eversivo rispetto alla narrazione dominante e univoca.

-       La guerra Russo-Ucraina dura ormai da due anni e sembra essere iniziata quasi improvvisamente, da un giorno all’altro. In realtà le ragioni di questo conflitto vengono da lontano.
 
Sì, il conflitto è frutto di un lungo braccio di ferro e deriva dall’avvio del processo di estensione della Nato a est, con l’inclusione nel 2004 di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia nell’organizzazione. Questo è l’elemento fondamentale. La ragione della guerra è pertanto di tipo politico strategico. Dietro c’è il braccio di ferro tra Stati Uniti e Russia. Le questioni etniche della discriminazione, dell’elemento russofono sono secondarie e sono utilizzate da Putin per dare una patina patriottica all’operazione che sta facendo.  


Nautilus n. 33 - Marzo 2024

IL CIBO E I FALSI MITI 

Intervista a Dario Bressanini

(a cura di Monica Pierulivo)

Più un nemico da cui difendersi che uno dei grandi piaceri della vita. Il cibo oggi è oggetto di una disinformazione prodotta spesso dalla pubblicità, dal marketing e da studi e articoli allarmistici che di scientifico hanno ben poco. Non sempre le risposte da dare sono facili, ma è importante capire come fare per sfatare molti luoghi comuni.
Dario Bressanini, chimico e divulgatore scientifico, saggista e docente universitario presso l’Università dell’Insubria, nei suoi libri affronta questi temi, offrendo una serie di strumenti basati sul metodo scientifico per evitare di cadere nella trappola della disinformazione.


1.     Il tema della corretta informazione, soprattutto quando si parla di consumi alimentari ma non solo, è molto importante e sentito oggi, ed è stato da lei affrontato anche nel suo ultimo libro “Fa bene o fa male? “.  Oggi, infatti, vengono dette molte cose sui cibi, anche attraverso la pubblicità e il marketing, che molte volte non hanno alcun fondamento.
C’è bisogno di applicare un metodo scientifico per capire meglio ed essere informati correttamente ma cosa vuol dire applicare il metodo scientifico nella scelta dell’informazione?
 
Prima di tutto vorrei premettere che in questo caso io faccio un discorso generale per coloro che non hanno particolari problemi di salute, se si ha un problema di tipo medico, è necessario rivolgersi a uno specialista, che sia un nutrizionista o altro. 
Detto questo, noi siamo bombardati ogni giorno da informazioni su quello che mangiamo, con evidenti pressioni a mangiare alcuni cibi o ad evitarne altri.  Per capire meglio e per sapersi districare in questo mare magnum del mondo informativo, una delle cose da fare è applicare il principio dello scetticismo. Durante la mia giornata anch’io sono bombardato da informazioni e anch’io non ho il tempo di verificare tutte le informazioni che vengono date. Allora se non ci sono le fonti che posso ritenere affidabili, dobbiamo fare riferimento almeno uno studio scientifico fidato, perché se non ho la possibilità di verificare chi è l’autore di una determinata teoria, quale esperimento sia stato fatto a sostegno di questa, dove è stata pubblicata e quando, per me questa informazione non esiste. È un principio che qualcuno può ritenere estremo ma qualsiasi affermazione non supportata da fonti scientifiche è falsa a priori. 


Nautilus n. 32 - Febbraio 2024


Essere femminista oggi

Intervista a Jennifer Guerra

(a cura di Monica Pierulivo)

1.     Come ti sei avvicinata al femminismo?

Come tante donne e ragazze della mia età ho scoperto il femminismo su Internet, non avevo realtà femministe intorno a me, venivo dalla provincia di Brescia che non è propriamente l’avamposto della cultura e della politica progressista. In particolare l’ho scoperto grazie a un blog che si chiama “Soft revolution zine”, l’unico che in quel momento, parlo di una decina di anni fa, si occupava di femminismo per adolescenti ragazze con un linguaggio molto fresco e che parlava di cultura pop. Quello è stato il mio avvicinamento, poi probabilmente questa scoperta si è intrecciata col fatto che, vivendo in un contesto piuttosto chiuso e anche un po’ repressivo, sono rimasta affascinata dal messaggio di liberazione del femminismo.
 
2.     Parlando di femminismo oggi non si può non parlare di tutta una serie di diritti come maternità surrogata, diritti lgbtq+, aborto che è legato a una legge molto vecchia, la 194 sempre sotto attacco. In Italia qual è la situazione rispetto a questi diritti, siamo pronti a recepire tutto le istanze che provengono dalla società?
 
Secondo me c’è uno scollamento evidente tra paese reale e politica soprattutto sui temi dei diritti civili e questa è la ragione per la quale i giovani si distaccano dalla vita politica, quella istituzionale. Tra i giovani c’è infatti un astensionismo fortissimo ma anche una grande mobilitazione sui diritti civili. Questo tipo di diritti, insieme a quelli ambientali, sono quelli che sollecitano i giovani ad andare in piazza. Se da un lato ci sono norme che diamo per acquisite e che sono sotto attacco, come la legge 194 sull’aborto, molto resta ancora da fare e da legiferare per produrre un vero cambiamento di mentalità. Vorrei ricordare ad esempio il tema dell’adozione per le coppie gay, basato sul principio del matrimonio egualitario, un tema attualmente estraneo dal dibattito politico.


Anna Pramstrhaler si occupa attivamente di femminismo da quando ha sedici anni ed è la responsabile della Biblioteca Italiana delle Donne di Bologna.
La incontro un lunedì pomeriggio, in Via del Piombo, dove ha sede la biblioteca, e le chiedo di raccontarmi la storia di questo posto magico, e certamente unico, la più importante biblioteca specializzata in cultura femminile, studi di genere e femminismo d’Italia.
La biblioteca, che nel 2023 ha compiuto quarant’anni, è gestita, in convenzione con il Comune di Bologna, dall’associazione femminista di promozione sociale Orlando (che trae il nome dal titolo del romanzo di Virginia Woolf), impegnata, dall’inizio degli anni ’80, a diffondere i temi della cultura della differenza di generee della presenza pubblica femminile.
Per la sua collezione è riconosciuta come istituzione di riferimento in Italia e in Europa. Vi sono libri sulla storia del femminismo, testi letterari anche dell’Ottocento e del primo femminismo italiano e internazionale. Sono presenti poi molti fondi frutto di donazioni da parte di femministe ed esponenti della cultura. Ad oggi vi sonooltre 40.000 libri di tutte le materie e lingue legate alle donne e 700 titoli di periodici. In questo momento, per esempio, viene catalogato il fondo Rosi Braidotti.

Anna Pramstrahler mi spiega che oltre alle studiose e agli studiosi, la biblioteca è frequentata anche da utenti appassionate di letteratura e poesia di donne. Si tratta di lettrici che possono partecipare a gruppi di lettura o a laboratori.
La presenza di un luogo come questo nella città di Bologna non è casuale. Bologna è conosciuta per gli studi di genere e l'Università di Bologna è stata la prima ad ospitare, nel 1998, un corso d’insegnamento di Storia delle donne, a cura di Anna Rossi Doria, i cui libri e carte sono state donati, dalle figlie Silvia e Lisa Ginzburg, alla Biblioteca Italiana delle Donne e all’Archivio di Storia delle donne, nel luglio 2017. 
Nell’universo patriarcale, la conservazione e promozione dei documenti, la ricostruzione storiografica del femminismo italiano e locale sono mezzi di vera e propria azione politica, perché, come sottolinea Anna Pramstrahler, la conoscenza e la cultura svolgono un ruolo fondamentale per la trasformazione della realtà.

Nautilus n. 31 - Gennaio 2024

Il diritto fondamentale ad abitare

Intervista a Laura Grandi

(Segretaria SUNIA Toscana)

a cura di Monica Pierulivo

Il tema dell’emergenza abitativa è di grande attualità e, a livello nazionale, riguarda ormai milioni di persone che vivono in condizioni di precarietà e disagio. Le cause sono molteplici, legate alla scarsità di alloggi pubblici e sociali, alla speculazione immobiliare, alla gentrificazione delle città turistiche, alla crisi occupazionale e del reddito.
Anche in Toscana il fenomeno è in forte crescita come si evince anche dal 12° Rapporto sull’emergenza abitativa. La casa è sempre più inaccessibile per tante famiglie di lavoratori, pensionati, studenti fuori sede. I costi degli affitti hanno avuto un incremento del 15% nei capoluoghi di provincia arrivando a cifre di 800,00 euro per un bilocale.
Per far fronte a questa situazione, in Toscana si è costituita l’Alleanza per l’Abitare, un gruppo coeso tra soggetti diversi per portare avanti le questioni legate al diritto alla casa. Ne fanno parte per il momento Cgil, Cisl, Uil, Cospe, Oxfam, Diaconia valdese, Abitare solidale, Progetto arcobaleno, Associazione Ciao, Casae e agenzia sociale per la casa, Arci, coop. Sociolab, Federconsumatori Toscana, Cat, Tutori volontariato Toscana, Sunia, Sicet, Uniat, Unione inquilini, Legambiente Toscana, Caritas. 
Abbiamo parlato di questi temi con
Laura Grandi, segretaria Sunia Toscana, uno dei principali soggetti protagonisti in Toscana in questa battaglia per la difesa del diritto fondamentale a una casa dignitosa.
 
1.  Partiamo dal problema degli alberghi diffusi, una delle ragioni che contribuiscono all’impennata dei costi degli affitti e che disincentivano i contratti di lungo periodo. Cosa fare perché gli alloggi liberi non diventino alberghi diffusi soprattutto in una città come Firenze?
 Firenze è preda di questo canale preferenziale legato all’utilizzo degli affitti brevi a fini turistici, che fa sì che i condomìni diventino alberghi diffusi e che rende difficile anche la vita dei residenti stessi. 
Il fenomeno degli affitti brevi ha infatti provocato una diminuzione delle abitazioni che dovrebbero rientrare nel circuito virtuoso degli affitti residenziali, causando un aumento consistente del valore dei canoni n generale. Ma l’effetto domino è ancora peggiore: ormai questo fenomeno si è esteso non solo al centro storico o alla zona Unesco di Firenze ma a tutto il territorio comunale e ha avuto un effetto domino sull’intera area metropolitana colonizzando e facendo aumentare i prezzi anche in alcune aree che venivano definite fino a poco tempo fa “quartieri dormitorio”. Questo già prima della pandemia. L’effetto nuovo, dal 2022, è che tutta la Toscana sta diventando così. Lucca, Pisa, Siena, la Versilia le città capoluogo della Toscana stanno soffrendo di questo fenomeno


Abitare solidale è un progetto che nasce dall’idea di trasformare il problema abitativo in nuove opportunità per la costruzione di una comunità più coesa e solidale.
Un nuovo patto abitativo per una rinnovata centralità della casa intesa come infrastruttura sociale e uno strumento di dialogo tra lo spazio privato e quello pubblico delle relazioni.
Riportare la città a bene relazionale, luogo di vita e di rapporti tra spazi.
Gabriele Danesi, fondatore di Auser Abitare Solidale e presidente della aps Auser Laboratorio Casa, ci parla di come sono nati questi progetti e degli obiettivi futuri per dare risposte concrete a chi rimane fuori dal mercato abitativo, rafforzando legami e relazioni.

-       Come nasce l’associazione Auser Abitare solidale e qual è il vostro metodo di lavoro?
Siamo associazione di volontariato, di battaglia, di frontiera, di quella tipologia che deve affrontare tutti i giorni situazioni estremamente complesse. Quindi un’associazione con un’anima pioneristica, fatta di persone che condividono lo stesso obiettivo, la stessa visione delle cose, non identica, perché non siamo una setta, e quindi anche divergente in alcuni casi, ma con un pensiero condiviso sul tema dell’inclusione e dell’abitare urbano in un contesto antropizzato.
Auser abitare solidale” è nata nel 2007 proponendo progetti di coabitazione che sono stati i primi in Europa. Coabitazione concepita in maniera diversa; in altri contesti italiani e anche europei viene proposto l’abbinamento tra anziani e studenti universitari, noi invece nasciamo per occuparci di anziani e abbiamo potuto verificare, partecipando anche alle attività del Cesvot, che il tema dell’abitare era già emerso da tempo come un problema da attenzionare, anche se all’epoca non era così drammatico come ora.  All’epoca la questione riguardava principalmente alcuni soggetti fragili, immigrati, donne vittime di violenza, tossici o ex detenuti. 
In realtà c’era anche un altro problema, quello degli anziani che vivono in case sovradimensionate rispetto ai propri progetti di vita, case che non vogliono abbandonare, perché sono  luoghi dove ancora risuonano gli affetti, i legami che hanno caratterizzato la loro vita; quindi l’idea è stata quella di mantenere gli anziani a casa loro senza sradicarli, cercando di dare una risposta abitativa alle persone in difficoltà da questo punto di vista e proponendo pertanto delle coabitazioni.
È stata, come dicevo prima, un’iniziativa pioneristica ed è andata bene tant’è che nel 2014 abbiamo costituito formalmente l’associazione. 


L’emergenza climatica, le guerre per la scarsità di risorse, le violazioni dei diritti umani o le migrazioni forzate sono esempi di veri e propri “crimini di sistema” – impossibili da ricondurre penalmente a singoli colpevoli – che potrebbero logorare la società stessa a tal punto da portarla al collasso.
Nonostante questo, i maggiori attori dell’economia mondiale proseguono le proprie attività evitando di prendere decisioni necessarie ad affrontare lo scenario preoccupante che ci troviamo davanti.
Per questo, nel febbraio del 2020 è nato ufficialmente a Roma il primo movimento di opinione volto a redigere una Costituzione globale della Terra, quale ultima risposta praticabile alle crisi altrettanto globali che ci minacciano. In occasione dell’assemblea inaugurale, il movimento ha assegnato a Luigi Ferrajoli, professore emerito di Filosofia del diritto presso l’Università degli Studi Roma Tre, l’incarico di presentare il progetto costituente e di stendere una bozza della nuova Carta, punto di partenza per ogni riflessione o ipotesi di modifica future. Viene così pubblicato da Ferrajoli, nel 2022, il libro “Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio” (Feltrinelli, collana “Campi del Sapere”), sintesi teorica delle proposte del movimento che si accompagna, in parallelo, al sito web www.costituenteterra.it.

1.     Che cos’è la Costituzione per la Terra e quali sono i suoi contenuti fondamentali?
Il progetto consiste nella volontà di espandere il costituzionalismo a livello globale. Noi abbiamo sperimentato le singole Costituzioni, che pongono i limiti, i vincoli dei poteri pubblici ma anche dei poteri selvaggi del mercato interno agli stati nazionali. La globalizzazione ha prodotto un mutamento della geografia dei poteri; i poteri che contano sono ormai fuori dei confini statali. In un mondo di 8 miliardi di persone, con un’economia che governa la politica e uno sviluppo industriale ecologicamente insostenibile, è assolutamente impossibile che l’umanità possa sopravvivere per più di qualche secolo, difficile fare previsioni precise in merito, perché stiamo distruggendo le reali condizioni di vita sul pianeta. 


Come affrontare la sfida di lasciare un messaggio culturale utile a coloro che verranno dopo la fine del nostro futuro? Come possiamo contribuire alla creazione di nuovi mondi dalle rovine del nostro?
Il nuovo saggio di Federico Campagna, (
Cultura profetica. Messaggi per i mondi a venire, traduzione Francesco Strocchi. Postfazione Franco Bifo Berardi Edizioni Tlon, Planetari Big, Roma 2023), filosofo italiano residente a Londra, si interroga su tutto questo invitando  ad allargare lo sguardo e il pensiero su possibili riscritture di quello che chiamiamo mondo.

1.     “Cultura profetica” è un saggio che cerca di ripensare il presente alla luce di chi verrà dopo di noi, partendo dal presupposto che la realtà non sia data, come un elemento naturale e oggettivo condiviso, ma che ognuno viva mondi diversi, secondo diverse coordinate culturali. Per fare questo, nel libro si parte dal concetto di worlding, cioè la capacità umana di “fare mondo”. Possiamo approfondire questo concetto?
Tutto quello che noi sappiamo della realtà esteriore avviene nel teatro interiore delle sensazioni e delle idee, del pensiero, della cognizione. Questo significa che, da un lato, non abbiamo una conoscenza oggettiva della realtà, non al di fuori della nostra griglia di percezione, la conosciamo soltanto all’interno. Qui è importante capire quale sia il livello di accuratezza nella percezione della realtà da parte di ognuno di noi, quanto della realtà esterna riusciamo a cogliere.
Una safe bet, cioè una scommessa sicura, è dire che sarebbe molto improbabile che la realtà di per sé stessa sia emersa o sia stata creata per coincidere esattamente con i limiti specifici non solo della razza umana, ma della razza umana in quello specifico momento storico, con determinate caratteristiche biologiche di quel preciso momento storico ecc. Quindi la realtà per sé stessa è diversa da come la percepiamo e questo porta a delle conseguenze importanti.
Significa che quando noi ci guardiamo attorno e vediamo le cose, in realtà non le stiamo tanto vedendo, le stiamo costruendo mentalmente, immaginando sulla base dei nostri limiti biologici, che sono diversi per ognuno e nei diversi momenti in cui ci troviamo. Tutto questo ha a che fare anche con delle scelte necessarie. Quando ci guardiamo attorno e veniamo in contatto con queste informazioni, selezioniamo le informazioni e cataloghiamo. Alcune sono reali, altre no, alcune sono emozioni, altre hanno a che fare con un particolare oggetto. Questa costruzione del mondo intorno a noi è il worlding, il fatto che ci costruiamo la realtà che ci circonda, ognuno in maniera diversa, un processo creativo, l’atto creativo per eccellenza, che si basa anche sul tipo di educazione culturale che abbiamo ricevuto e che possediamo. 
Il fatto che ci siano animali, piante, umani non è un elemento della realtà, è un elemento culturale, un modo di strutturare le sensazioni interne, dare una certa forma al nostro spettacolo interiore.

Nautilus n. 29 - Novembre 2023

La quarta parte del mondo 

La mappa perduta che ha dato il nome all’America 

Intervista a Toby Lester 

a cura di Monica Pierulivo

 
Per millenni gli Europei hanno creduto che il mondo fosse composto da tre parti: Europa, Africa e Asia. Disegnavano i tre continenti in innumerevoli forme e dimensioni sulle loro mappe, senza sapere che esisteva una quarta parte del mondo. Uno spazio divenuto reale solo quando Martin Waldseemüller e Matthias Ringmann, due studiosi che lavoravano sulle montagne dell’Alsazia Lorena, nel 1507 stamparono la mappa di Waldseemüller.
Toby Lester, giornalista e scrittore statunitense, nel suo libro “La mappa perduta. Storia della carta che cambiò i confini del mondo”, edito da Rizzoli nel 2010, racconta la storia di questa mappa, una delle prime rappresentazioni del mondo che indicano l’esistenza di una terra inesplorata e di un altro oceano tra Europa e Asia e sulla quale è riportato per la prima volta il nome America.   
Per questi motivi, abbiamo cercato Toby Lester che vive negli Stati Uniti e che ci ha rilasciato questa intervista.
  
- Storicamente, quando si inizia a rappresentare lo spazio e in che modo? 

Esistono testimonianze di mappe locali su pietra. Non è del tutto chiaro cosa mostrassero, ma i Babilonesi lo facevano di sicuro. 

Un'importante funzione iniziale della cartografia era quella di registrare le proprie proprietà. Queste mappe erano uno strumento amministrativo; una volta che si iniziano ad avere città e risorse, si vuole sapere dove sono e chi le possiede. Non ci sono molte prove di mappatura del mondo prima dei Greci e dei Romani, anche se esiste una famosa mappa del mondo di Babilonia su pietra

Ci sono molte prove, invece, di persone che studiavano le stelle. Probabilmente è lì che è nata la scienza della mappatura e l'interesse per la mappatura: le persone guardavano sempre le stelle e per capire i movimenti delle stelle e dei pianeti dovevano capire dove si trovavano sulla terra. Quindi, a mio avviso, la prima mappatura è stata quasi certamente quella di chi cercava di capire i movimenti del cielo.
Ci sono lunghe tradizioni in molte culture antiche di persone che mappano il cielo. Le persone hanno imparato molto in questo modo e sono state poi in grado di applicare ciò che hanno imparato alla mappatura del mondo. Tolomeo ne è un buon esempio...


Nautilus n. 29 - Novembre 2023

Siamo figli delle stelle

Intervista a Sofia Randich

a cura di Monica Pierulivo

 

1.     L'Inaf osservatorio astronomico di Arcetri è una struttura di grande importanza in Italia e nel mondo. Come è strutturato e quali sono le principali attività?

L’Osservatorio Astrofisico di Arcetri a Firenze (https://www.arcetri.inaf.it/) è una delle 16 strutture di ricerca che fanno parte dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), l’Ente pubblico di ricerca di riferimento per lo studio dell’Universo. L’Osservatorio ha alle sue spalle una lunga storia che inizia nel 1869, anno della fondazione, durante il periodo di Firenze capitale.
La struttura, che attualmente conta circa 130 unità di personale, ha un comparto di ricerca scientifica e tecnologica, un comparto tecnico, ed un comparto amministrativo. Le principali attività si rivolgono alla ricerca nel campo dell’astrofisica e delle tecnologie per l’astrofisica; all’alta formazione, in collaborazione con le istituzioni universitarie; alla comunicazione e promozione dei risultati della ricerca e della conoscenza astronomica nelle scuole e verso il pubblico generico, anche in modo inclusivo; alla tutela e valorizzazione del patrimonio storico; al trasferimento tecnologico.

2.     Parlando di ricerca,  quali sono i filoni scientifici principali sui quali Arcetri sta lavorando?
Nato come Osservatorio stellare e poi solare, l’Osservatorio oggi svolge una grande varietà di ricerche sia di astrofisica di frontiera, sia relativi alle tecnologie di punta per l’astrofisica (ottiche adattive, strumentazione di piano focale, tecnologie radio, missioni spaziali). I filoni scientifici principali affrontati includono la formazione ed evoluzione delle galassie, dall’Universo primordiale a quello locale, alla stessa Via Lattea; i nuclei galattici attivi, buchi neri, materia oscura; l’astrofisica delle alte energie;  la formazione stellare nella nostra Galassia ed in galassie vicine;  i pianeti esterni al sistema solare, incluso lo studio delle loro atmosfere, e la formazione planetaria; il Sistema Solare e l’astrobiologia. Dal punto di vista tecnologico, l’Osservatorio è coinvolto con ruoli di rilievo e spesso di guida in molti dei grandi progetti futuri per strumentazione e telescopi da terra e dallo spazio, quali il Very Large Telescope, l’Extremely Large Telescope, lo Square Kilometer Array, la missione ARIEL dell’Agenzia Spaziale Europea. 

Nautilus n. 28 - Ottobre 2023

Ma dove vanno gli operai

Intervista a Alberto Prunetti

a cura di Monica Pierulivo

 
-Dal 31 marzo al 2 aprile si è tenuta, con un grande successo, la prima edizione in Italia del Festival di letteratura working class, organizzato dalle Edizioni Alegre al presidio (ex) Gkn di Campi Bisenzio. Alegre è stato il primo editore in Italia a inaugurare una collana dedicata alla working class affidata alla sua direzione. Cosa è la workng class oggi, cosa è cambiato da quando Bianciardi raccontava i minatori della Maremma e il lavoro nelle case editrici di Milano? 

È cambiata molto ma nonostante i tanti funerali che le hanno fatto, la bara era sempre vuota. La classe operaia è ancora fondamentale: senza di lei le nostre città sarebbero ricoperte di discariche a cielo aperto. Però, tanto più è pervasiva, tanto più è resa invisibile. E devono negarle il diritto a esistere per sfruttarla meglio. Tanto più oggi che è una classe che è diventata ancora più ricca e stratificata, con sempre più donne e  lavoratori e lavoratrici migranti.

-Parliamo delle scritture working class. Nel suo libro "Non è un pranzo di gala", fa una disamina molto interessante della storia dei contatti tra working class ed editoria. Negli anni 70 c’è un diffuso interesse nei confronti di questi autori, che si perde negli anni '80 e '90 nel momento in cui il concetto di “classe” comincia a venire meno. 

Oggi si può parlare di un ritorno alla letteratura sociale e del lavoro?
 Direi di sì. Da anni la realtà è tornata nella letteratura, dopo lustri di postmodernismo. Oltre alla realtà, è arrivato uno sguardo impegnato e progressista sulla realtà. Ma la letteratura working class vuole qualcosa in più: vuole che le persone cresciute nella classe lavoratrice si raccontino con le proprie parole, senza il filtro di intellettuali, megafoni, portavoce o altro. Per questo c'è ancora molto da fare ma di sicuro a partire dal 2019 in alcuni paesi ci sono opere di letteratura importante che segnano il passo. In Gran Bretagna sono innumerevoli, cito solo Douglas Stuart che vince il Booker Prize. In Francia c’è Joseph Ponthus con Alla linea, ma non dimenticherei il Nobel a Annie Ernaux, che pone la classe sociale al centro della sua opera. E qualcosa stiamo provando a fare anche in Italia. Non abbiamo i best seller ma abbiamo l'opera collettiva e solidale che ha creato, grazie al lavoro di tanti operai, il Festival di Letteratura Working Class.

Nautilus n. 27 - Settembre 2023

Sei esattamente chi ho sempre voluto tu diventassi

 

La storia di Alex, Mark e Silvia: una persona non binaria, una trans e una madre 

Intervista a Silvia Ranfagni 

a cura di Monica Pierulivo

 
Corpi Liberi è un podcast ideato e scritto da Silvia Ranfagni e Giovanni Piperno. Un racconto personalissimo che parte dal momento in cui Alba, figlia tredicenne di Silvia, comunica alla madre di essere trans e non binaria. Per Silvia è l’inizio di una nuova fase della vita, quella in cui prova a stare vicino a una figlia che chiede di essere chiamata al maschile con un nome diverso: Alex. Grazie al sostegno del SAIFIP, un servizio di un ospedale romano dedicato alla disforia di genere, Alex inizia il proprio percorso terapeutico mentre Silvia si pone sempre più domande: davvero conosce così poco suo figlio? A guidarla in questo viaggio una terza persona, Mark, un ragazzo di qualche anno più grande, la cui storia di transizione è fondamentale per aiutare Silvia a rispondere a tutte le domande che le frullano in testa. Nei sei episodi del podcast ripercorriamo il percorso di Mark e della sua famiglia grazie a delle toccanti interviste intergenerazionali. Alla storia di Mark, si alternano le riflessioni di Silvia, che, con grande coraggio e ironia, mette in pubblico i dubbi e le inquietudini che assalgono “noi persone del Mille” quando ci confrontiamo con tutta questa modernità.
Corpi Liberi rappresenta una testimonianza importante, per capire meglio noi stessi e il mondo che ci circonda e iniziare a farsi delle domande su quanto sia inutile difendere a spada tratta la presunta purezza di un mondo binario, con il solo risultato di generare indicibili sofferenze. 
 

  • "Corpi liberi" è una storia che affronta molti aspetti della vita, del diritto di ognuno a trovare la propria identità e della libertà di viverla "senza fare male a nessuno". È anche una storia di accoglienza per aiutare sua figlia Alba, poi Alex, a trovare appunto la sua identità, per uscire dal dolore e trovare il meglio di sé. Una storia vera che porta all'attenzione tutta una serie di temi cruciali della nostra società. Qual è il significato di questo podcast? 

 
Questo podcast è nato nel tentativo di mettere la mia difficoltà a servizio degli altri: mi sono ritrovata in una posizione di ponte tra due mondi, quello di “chi ha capito” e di “chi deve ancora capire” il cambiamento in atto. È un cambiamento che ha radici nel nostro passato, affonda nella nostra storia, eppure sembra incomprensibile. Volevo accompagnare per mano altri genitori in difficoltà o dare lo strumento ai ragazzi per comunicare con la generazione a cui appartengo. Questo lavoro vuole soprattutto seminare tolleranza, è l'apertura mentale quello a cui aspira...


Nautilus n. 25/26 - Luglio-Agosto 2023

Un piccolo grande mare

Intervista a David Abulafia

a cura di Monica Pierulivo


 Piombino è una piccola città al confine tra il mar Tirreno e il mar Ligure, che, nonostante le sue dimensioni, ha svolto un ruolo significativo per la storia del Mediterraneo soprattutto per la sua posizione strategica e per la vicinanza all’isola d’Elba. Questo a partire dall’antichità con Populonia, unica città etrusca costruita sul mare. Inoltre, se guardiamo al XV secolo, a Piombino è vissuta Simonetta Cattaneo, musa ispiratrice del Botticelli, che ha sposato Marco Vespucci, cugino di Amerigo, famoso navigatore. Un piccolo Stato in questo mare occidentale che è riuscito a sopravvivere per oltre 400 anni anche se sotto la protezione di diverse potenze straniere.
 In riferimento alle ricerche che ha svolto e che ha pubblicato su questa piccola Città Stato della Toscana, come può spiegare questo fenomeno?

Ho svolto diverse ricerche su Piombino alcuni anni fa da cui sono scaturiti articoli dedicati proprio a questi temi.Ero interessato ai documenti che erano stati pubblicati nel XIX secolo dal grande arabista siciliano Michele Amari e che riguardavano alcuni trattati tra Piombino e Tunisi tra il ‘300 e il ‘400; mi domandai quali potessero essere i rapporti diplomatici di una piccola città come Piombino con le altre potenze e misi in evidenza il tentativo da parte degli Appiani di trasformare questa città in una nuova Pisa, prima che Pisa fosse conquistata dai fiorentini.
 Il ruolo strategico di Piombino dipendeva in gran parte dalle possibilità di sfruttamento delle risorse locali come il ferro dell’Elba e non solo. La sua posizione era così ambita anche perché legata alle possibilità di controllo delle acque intorno all’isola d’Elba e lungo la costa Toscana, tra l’Italia e la Corsica. Quest’ultima fu, anche se per un breve periodo, un obiettivo importante. 

 Ma per fare questo, il piccolo Stato aveva bisogno di qualcuno che lo sostenesse, per questo intratteneva relazioni speciali con i Genovesi e soprattutto con i re di Napoli, in particolare con Alfonso d’Aragona che fu un protettore di questo piccolo Stato. Ho scritto molto sui re di Napoli e questo ha portato il mio interesse verso la storia del Mezzogiorno in questo periodo.
Il tema proposto è interessante e, come spesso si scopre, non è un fenomeno nuovo in quel contesto.
Populonia è stata l’unica città etrusca costruita sul mare, le altre città etrusche infatti si trovano più all’interno e non sono sulla costa. Già in questo periodo sono importanti le relazioni con le isole mediterranee, non solo con l’Elba ma in particolare con la Sardegna. A dimostrazione del fatto che le relazioni e i traffici che troviamo avviati nel XV secolo erano presenti già 2000 anni prima....

Nautilus n. 25/26 - Luglio-Agosto 2023

 

Sguardi: Mediterranei visti dai Sud 

Intervista a Gabriele Proglio 

a cura di Benedetta Celati 


Nel tuo lavoro di ricerca (mi riferisco in particolare al tuo libro Mediterraneo nero. Archivio, memorie, corpi, Manifestolibri, 2019), sviluppi una riflessione sul rapporto tra identità europea e Mediterraneo. Cosa ci raccontano le migrazioni in questo senso? È possibile costruire una diversa narrazione dei fenomeni migratori?

Occorre precisare che è una questione di sguardi e pratiche. Gli sguardi dell’Europa sul Mediterraneo hanno sempre cercato di imporre una geografia in cui l’Europa era il centro e il Mediterraneo un suo naturale sbocco a sud, di mappare i luoghi, le persone, le culture, i corpi. In questo senso, il Mediterraneo ha assunto diversi significati, con molteplici simbologie. In molte nazioni europee è stato inteso come soglia di connessione e al contempo di divisione con altri mondi, ma anche come “lago interno”: quale naturale prolungamento del potere dell’Europa fuori dai suoi confini. Col colonialismo francese ottocentesco, al Mediterraneo è stato attribuito il ruolo di spazio di connessione tra idee di modernità e l’oltremare, in cui, come nota Rachele Borghi, si realizzarono modelli di dominio che cercarono di coniugare ordine sociale e ordine urbano con differenti declinazioni in Algeria, Tunisia e Marocco. Col colonialismo italiano, prima quello liberale, nel caso della guerra del 1911 per la conquista della Libia, e in seguito col Fascismo, il Mediterraneo divenne l’approdo “naturale” della conquista italiana: “naturale”, tra virgolette, perché si recuperò appositamente la mitologia romana, e l’idea dell’ordine imposto dall’Impero Romano sul mare, per giustificare l’invasione delle province libiche prima sotto il controllo dell’Impero Ottomano.
In realtà, il Mediterraneo è ben altro. Le eredità coloniali concernono anche la costruzione di sguardi pubblici per interpretare fatti, situazioni, fenomeni politici e culturali; sguardi che, in modi molteplici, riproducono quel piano inclinato tra un Nord europeo e tanti Sud...

Nautilus n. 25/26 - Luglio-Agosto 2023

Diritti al cinema

Intervista a Luca Caprara 

co-direttore artistico di "Corto Dorico" Film Festival di Ancona
di Marco Giovagnoli

All’interno dell’esperienza di Corto Dorico voi avete avuto negli anni delle prospettive e degli approcci diversi, tra cui un occhio molto attento al Mediterraneo.

Si, è un indirizzo che abbiamo preso negli ultimi anni, complice anche una bella realtà che è nata, vale a dire la rete dei Festival adriatici che tocca più in generale anche il tema del Mediterraneo; sono alcuni importanti Festival che vanno da quello di Sulmona a Sud Festival a Molise Cinema, che si sono messi assieme proprio per raccontare l’area balcanica e mediterranea, e lo abbiamo fatto attraverso tutta una serie di attività. Da lì il Festival si è aperto al cercare di creare collaborazioni e partnership, con l’intento quindi anche a mostrare tutta una serie di contenuti, film, lungometraggi e corti provenienti da quell’area; per cui negli ultimi anni abbiamo aperto partnership con Festival provenienti dal Portogallo, dalla Spagna, il Tirana film festival – quindi Albania – e quest’anno toccheremo la Grecia, la Croazia. Stiamo cercando di proporre al pubblico e agli addetti ai lavori tutta una serie di cinematografie sia corte che lungometraggi provenienti da queste aree perché secondo noi sono aree che sia in termini di contenuti che di Autori stanno portando delle opere molto, molto interessanti.

Da questo punto di vista quali sono le aree che ritieni siano più attive, che producono di più materiale e che lavorano sui temi dell’incrocio, dell’inclusione, dello scambio mediterraneo?

Per quello che abbiamo potuto vedere noi, con queste prime attivazioni, sicuramente nell’area greca (a dispetto di quello che può succedere da un punto di vista istituzionale in Grecia) c’è una grande attenzione da parte degli Autori di corti ed anche di lungometraggi rispetto alla situazione nel Mediterraneo, con delle opere molto interessanti tant’è che proprio in questa edizione noi andremo a creare una partnership con il Drama International Film Festival di Drama, in Grecia, che ci fornirà dei contenuti molto interessanti in merito. Questo interesse lo abbiamo visto anche nel recente passato, con formule anche particolari – ad esempio mi viene in mente un film d’animazione che veniva dal Portogallo, o un lungometraggio spagnolo, un corto molto bello dell’anno scorso proveniente da Tirana: diciamo che la tematica di ciò che è adesso il Mediterraneo, di tutte le problematiche del Mediterraneo, non può non toccare la sensibilità degli Autori e quindi noi, andando a lavorare sulla sensibilità  di quelle aree, di quegli Autori, giocoforza andiamo a raccontare anche tutte quelle criticità...

Maurizio Pallante si occupa di sostenibilità ambientale ed è fondatore nel 2007 del “Movimento per la decrescita felice”. Nel suo ultimo libro, “L’imbroglio dello sviluppo sostenibile”, apre una riflessione su argomenti di grande attualità legati ai significati profondi di ogni parola e sulla necessità di un cambio culturale e antropologico sempre più necessario per garantire il futuro del pianeta e dell’umanità

Iniziamo dal concetto di sostenibilità ambientale, può spiegarne il significato?

È un concetto che mette in relazione la specie umana con la biosfera. La biosfera, attraverso la fotosintesi clorofilliana, produce annualmente una certa quantità di risorse rinnovabili.  Se l’umanità consuma più risorse rinnovabili di quelle che vengono rigenerate con la fotosintesi, il suo rapporto non è sostenibile. Attualmente, secondo i dati elaborati dal Footprint Institute, entro la fine di luglio vengono consumate tutte le risorse rinnovabili rigenerate dalla biosfera. Ma non tutti i popoli ne consumano la stessa quantità. In Italia l’Earth overshoot day cade nel mese di maggio, negli Usa a marzo, nel Qatar addirittura a febbraio e questo è molto significativo.
Per parlare di sostenibilità è dunque necessario che l’umanità diminuisca il consumo annuale delle risorse rinnovabili.
Un secondo aspetto è legato all’emissione delle risorse di scarto, in parte biodegradabili. Quelle non biodegradabili, che non possono essere assorbite dalla fotosintesi, si accumulano nel ciclo del'acqua, nell’aria, nei suoli, basti pensare alle masse di plastica che galleggiano in tutti gli oceani.
Prendiamo in considerazione le emissioni di anidride carbonica. La fotosintesi unisce anidride carbonica e acqua creando uno zucchero semplice, il glucosio, di cui si nutrono prima le piante, poi, attraverso le catene alimentari, tutti gli altri esseri viventi. Il prodotto di scarto della fotosintesi è l'ossigeno. L’umanità e tutti gli esseri viventi, con la respirazione assorbono ossigeno ed emettono anidride carbonica mentre la fotosintesi assorbe anidride carbonica ed emette ossigeno.
Si tratta di un rapporto molto delicato che si è mantenuto in equilibrio per 8000 secoli, e ha fatto si che nell’atmosfera si concentrassero tra le 170 e le 270 parti per milione di anidride carbonica.

 

1)    La deforestazione costituisce uno dei nove “limiti planetari”, termine usato per indicare i confini entro i quali noi esseri umani possiamo operare in sicurezza, senza nuocere agli equilibri del pianeta. Il suo libro si intitola "La resilienza del bosco": può spiegare perché le foreste sono così importanti per rendere il nostro pianeta più resiliente e quali sono i pericoli della deforestazione? 

 

Le foreste rendono resilienti sia il pianeta sia la specie umana. Nei confronti dell’uomo, anche se non ce ne rendiamo conto, le foreste forniscono dei benefici diretti. La nostra qualità di vita dipende dalla loro integrità.
Uno dei benefici più importanti è l’assorbimento di anidride carbonica: ne assorbono circa un terzo (il 29% delle emissioni climalteranti), attraverso la fotosintesi. Non è chiaramente tutto, ma si tratta di un contributo fondamentale per il contrasto al cambiamento climatico. Non esiste nient’altro al mondo, né di naturale né di tecnologico, che abbia tassi di assorbimento di CO2 tali. La fotosintesi è un’attività biologica e dipende, pertanto, dallo stato di salute della pianta: se c’è uno stress per la siccità o qualche disturbo, come un incendio o una tempesta di vento, così come nel caso di rimozione voluta, con la deforestazione, il riassorbimento rallenta o si ferma. Uno studio pubblicato nel 2021 è riuscito a mappare i flussi di anidride carbonica tra le foreste e l’atmosfera su tutto il pianeta, dimostrando che molte di esse hanno smesso di assorbirla o addirittura ne emettono a loro volta.
Nella parte sud dell’Amazzonia, infatti, questo si verifica per via della combinazione letale tra deforestazione e siccità (fenomeni che si rafforzano a vicenda). Sono più gli alberi che muoiono di quelli che crescono, e così la decomposizione e la combustione del legno producono anidride carbonica in atmosfera.
Gli alberi, tuttavia, non devono essere visti solo come strumenti di assorbimento della CO2. Le nostre case sono ricche di prodotti derivati dalla foresta: basti pensare agli oggetti di legno e di carta che possediamo, nonché ai cibi presenti nel nostro frigorifero (funghi, frutti di bosco o castagne per esempio).
Ma certamente anche l’acqua che esce dal rubinetto o che beviamo in bottiglia quasi sempre è passata attraverso il suolo di una foresta per essere depurata chimicamente e per esserci restituita in quantità costanti dalle sorgenti. Più di un miliardo di persone nel mondo deve la sua sicurezza idrica alla presenza di un bosco.
C’è poi da ricordare il contrasto al dissesto idrogeologico. Gli alberi in montagna possono fermare o rallentare le valanghe, in città assorbono le piogge intense (le città molto verdi hanno meno danni da deflusso superficiale da alluvione).
Sempre in città, un altro beneficio importante per l’adattamento è costituito dal rinfrescamento soprattutto nell’ondate di calore estive: l’albero rinfresca non solo con l’ombra ma anche attraverso l’evaporazione dell’acqua.
Una recente ricerca di Lancet dimostra che portando al 30% la copertura arborea delle città in Europa ci sarebbero 2500 morti in meno all’anno per ondate di calore estive

Nautilus n. 21 - Marzo  2023

Il governo delle acque 

Intervista a Francesco Vincenzi

(Presidente dell’Associazione Nazionale Consorzi Gestione Tutela Territorio ed Acque Irrigue)

Conoscere l’attività dei Consorzi di bonifica ed irrigazione del nostro Paese, significa comprendere le caratteristiche storiche, ambientali, paesaggistiche e agricole del territorio italiano, fortemente caratterizzato dall’opera dell’uomo per strappare terreni all’acqua e poterli coltivare, per difendersi dalle alluvioni e dai periodi di siccità, per utilizzare al meglio questa risorsa senza la quale non potremmo vivere.

L’acqua è una risorsa fondamentale e insostituibile, è vita, energia, nutrimento. Oggi la scarsità di acqua, effetto del cambiamento climatico, è probabilmente il problema più grande che dobbiamo affrontare. ANBI si occupa di gestire questa risorsa dal punto di vista dell’irrigazione, della sicurezza idraulica, della ricarica delle falde, con una struttura complessa e diffusa sui territori. Presidente, può parlarci brevemente della sua organizzazione?
 
L’ANBI coordina i Consorzi di bonifica e di irrigazione che sono presenti in tutte le Regioni d’Italia dalla Val d’Aosta alla Sicilia; in particolare ha il compito di guidare a livello nazionale e di fare delle proposte, sia legislative che di coordinamento.  I Consorzi di Bonifica, che sono materia concorrente Stato-Regioni, dipendono da leggi regionali.
All’interno di questo quadro normativo l’ANBI assolve alla funzione di gestione idraulica nei comprensori di bonifica, assicurando gli interventi di scolo e difesa idraulica, la regimazione dei corsi d'acqua naturali, allo stesso tempo si occupa della distribuzione delle acque collettive; rispetto a questo siamo gli unici soggetti deputati nel Paese a svolgere questo ruolo. In Europa, dove non esiste un soggetto come il nostro, rappresentiamo un modello virtuoso.
 
Cosa gestisce l’Associazione in termini di numeri?
 

Gestiamo i 220mila km del cosiddetto reticolo idraulico minore e siamo presenti in ogni Regione. In alcune regioni operiamo anche nel reticolo naturale; garantiamo la sicurezza dei territori sottesi al mare o comunque laddove ci sia bisogno di sollevare l’acqua, con circa 800 impianti idrovori.
Dobbiamo tenere presente infatti che il nostro paese è un paese in buona parte artificiale come la pianura Padana.
Poi gestiamo le casse d’espansione, le irrigazioni collettive, irrighiamo 3,5 milioni di ettari di territorio. 

Nautilus n. 21 - Marzo  2023


La cultura dell'acqua

Acquedotto pugliese tra progresso e mito

Intervista a Vito Palumbo

(Responsabile Comunicazione e Relazioni Esterne presso Acquedotto Pugliese SpA )

 
Da oltre cento anni l’Acquedotto Pugliese porta l’acqua nelle case degli abitanti della Regione e non solo. Una grande opera, un’impresa epocale che ha trasformato uomini e territorio.
Partiamo dalla storia di questa infrastruttura, dalla sua nascita in una terra caratterizzata dalla mancanza d’acqua

Da un punto di vista storico Acquedotto Pugliese è una realtà unica. Ha una particolarità, è uno dei più grandi acquedotti d’Europa, certamente il più complesso, ma senz’acqua. Questo perché la Puglia è una regione priva di corpi idrici superficiali, ovvero di fiumi e laghi, ed è costituita in gran parte di materia carsica. Pertanto quello che cade dal cielo non riesce a essere trattenuto nel suolo ma filtra direttamente nelle viscere. Per risolvere il problema dell’approvigionamento idrico c’è voluto quindi l’intervento dello Stato e questa rappresenta la seconda peculiarità di questa realtà: è infatti l’unico acquedotto che nasce per volontà dello Stato, una delle prime vere grandi opere infrastrutturali che il Regno d’Italia ha realizzato nel Meridione dopo l’Unità. All’epoca in cui è stato realizzato, nei primi decenni del secolo scorso, l’Acquedotto era considerato il più grande del mondo, tanto che solo il canale principale era lungo 250 km da Caposele in Irpinia fino a Villa Castelli nel brindisino, poi con tutte le diramazioni arrivava già a oltre 3000 km. Oggi l’estensione dell’Acquedotto è di oltre 20.000 km, trenta volte la lunghezza del Po, a cui si aggiungono altri 12.000 km di reti fognarie.
Fu realizzato con la tecnica dei Romani e quindi in maniera totalmente sostenibile, nel senso che non produceva C02, dal momento che l’acqua arrivava nei Comuni per caduta naturale, nonostante il dislivello minimo, dal punto di captazione delle acque a Caposele in Irpinia fino al Salento, fosse di soli 200 metri.
Tra l’altro un progetto considerato al tempo irrealizzabile, una sorta di eroica epopea. Per realizzarlo è stato necessario deviare un fiume, il Sele appunto, dirottando le sue acque che sfociavano originariamente nel Tirreno, verso la Puglia e quindi verso l’Adriatico Ma per farlo, abbiamo dovuto attraversare luoghi impervi di una difficoltà incredibile. È stata realizzata una galleria sotto il monte Paflagone, dove sorge il Sele, costruendo 13 km di galleria attraverso un monte argilloso, e questo più di 100 anni fa. Un’opera d’ingegneria epica e irripetibile, alla quale hanno lavorato contemporaneamente fino a 22mila operai e realizzata in soli 9 anni. Iniziata nel 1906, nel 1915 l’acqua arrivò a Bari. 

Nautilus n. 20 - febbraio 2023

 Clima
La scelta per il futuro

Intervista a Antonello Pasini


di Monica Pierulivo

Negli ultimi anni gli eventi catastrofici estremi sono diventati sempre più frequenti e dirompenti, e tutti sembrano avere come denominatore comune i cambiamenti climatici. Nel suo ultimo libro, “L’equazione dei disastri”,  sostiene che i cambiamenti climatici in atto dipendano in massima parte dall’azione dell’uomo. Ci può spiegare perché?

La responsabilità dell’azione umana è ormai assodata da questo punto di vista. Abbiamo innescato delle dinamiche naturali che stanno rispondendo alle nostre azioni. Lo dimostrano gli eventi sempre più frequenti come frane, esondazioni, allagamenti ecc., ma anche gli eventi non estremi come l’aumento della temperatura media globale, che è un fenomeno graduale, innescato dal fatto che bruciamo combustibili fossili, emettiamo gas serra come la Co2, eliminiamo gli assorbitori dell' anidride carbonica attraverso la deforestazione ad esempio.
C’è poi il problema dei campi coltivati e dell’agricoltura sostenibile; l’uso di fertilizzanti azotati per rendere più fertile il terreno è molto nocivo, l’azoto utilizzato viene rilasciato in parte nell’atmosfera come protossido di azoto che è un gas serra molto più potente della Co2.
Il global warming potential, cioè il potenziale di riscaldamento di una molecola di protossido di azoto è quasi 200 volte quello di una molecola di Co2 e questo è molto impattante dal punto di vista delle emissioni atmosferiche.
Teniamo presente che negli ultimi 100 anni la temperatura media globale della Terra è aumentata di 1,2 gradi e questo non era mai successo con questa rapidità.
Del riscaldamento globale ci accorgiamo noi scienziati perché abbiamo le statistiche, altrimenti nessuno di noi si accorgerebbe di questo, se non fosse per l’aumento degli eventi estremi. Questi li vediamo soprattutto nel Mediterraneo. L’Italia ad esempio si è riscaldata più di 2 gradi negli ultimi 100 anni. Il Mediterraneo è quello che noi chiamiamo un hot spot, un punto caldo. Il libro è incentrato in modo particolare sull’Italia e parla di come si è estremizzato il clima del Mediterraneo e dell’Italia.

L’equazione dei disastri di cui parla nel libro è un’analisi del rischio?

Sì, il rischio che un evento collegato al clima possa causare danni a persone e al contesto circostante, va messo in relazione alla vulnerabilità del territorio e all’esposizione di persone e manufatti, oltre che alla pericolosità dell’evento climatico...

Nautilus  n. 19 Gennaio 2023


I giganti silenziosi

Intervista a Tiziano Fratus

di Monica Pierulivo

Nel suo cercare fisico, poetico, filosofico e spirituale, ha elaborato un lavoro interiore di riavvicinamento e riscoperta del mondo naturale. Il bosco infatti rappresenta un mondo.

Non ho esattamente questo approccio, nel senso che mi considero semplicemente un artigiano, come mio padre che era un falegname. Ho iniziato intorno ai 20 anni a nutrire una curiosità nei confronti della scrittura e ho provato semplicemente a dedicarmi a questo. Nel corso del tempo mi sono poi avvicinato ai boschi, alla natura e agli alberi; le mie dinamiche personali mi hanno spinto in quella direzione e ho trovato una sorgente d’interesse e di nutrimento andando a cercare gli alberi, a frequentare i luoghi cosiddetti naturali, anche se il termine “naturale” può risultare ambiguo. Il mio interesse primario rimane la scrittura, passo la maggior parte del mio tempo a scrivere, sono usciti infatti tanti libri, forse troppi, ma questo è il mio percorso. La parola filosofo mi sembra impegnativa, fatico a riconoscermici.

Da dove nasce questo suo interesse?
 Fin da bambino sono stato curioso, perché mio padre aveva la falegnameria quindi il legno era presente nella nostra famiglia. Poi, come tanti figli di agricoltori e piccoli artigiani della Lombardia, i miei genitori hanno cercato di farmi studiare per guadagnare felle opportunità dal punto di vista lavorativo, le solite cose che hanno riguardato molti di noi. Io ho scelto la scrittura, per me più allettante rispetto ad altri mestieri, e ho cominciato a scrivere poesie e storie. Il periodo tra i 25 e i 30 anni, l’età in cui si deve decidere cosa fare della propria vita, è coinciso col momento in cui il rapporto con mio padre e la mia famiglia si è andato consumando definitivamente. Allora è come se gli alberi mi avessero un po’ chiamato.

Nautilus  n. 19 Gennaio 2023

Alberi di città

Intervista a Francesco Ferrini

di Monica Pierulivo

 
In riferimento alle sue pubblicazioni, tra cui l'ultima dal titolo "Alberi e gente nuova per il pianeta", gli alberi sono fondamentali per la qualità della vita, soprattutto negli ambienti urbani. L'albero è anche un simbolo, portatore di un messaggio nell'immaginario umano.  Nel titolo del suo libro si mettono in relazione gli alberi con una nuova umanità.  Ci può spiegare meglio questo connubio?
 
 Negli ultimi 50 anni la società umana ha sempre aumentato la velocità invece di frenare ogni tanto; mai siamo stati capaci di sollevare il piede dall’acceleratore, di diminuire il passo per non uscire di strada. Dovremmo invece ricercare la capacità di riappropriarci di qualche uso o abitudine del passato messa nel dimenticatoio, in quanto più lenta e proprio per questo sostenibile. La rotta futura che prenderà l’umanità ci porterà all’approdo invece che al naufragio solo se la gente tutta vorrà tornare a interfacciarsi con la Natura, comprendendone la meraviglia, la perfezione, amandola come accadeva in un tempo non troppo lontano, invece di continuare a straziarla. Tutto qui. Non perché ce lo impone qualcuno, ma soltanto perché lo riterremo fondamentale, in una sensibilità ritrovata. La gente nuova in cui confidiamo, riflette sulle proprie azioni, apprezza nella consapevolezza della biodiversità le infinite variegature che propone Madre Natura stessa, le protegge tutte. Ad oggi sembra invece che il Pianeta sia dominato e stravolto solo da una concezione maschile, quella che conosce un’unica capacità di relazionarsi, il dominio associato alla possessività.
 
 
Il verde delle nostre città può dare molti benefici in termini economici, ecologici e anche di salute per la popolazione urbana. Ci può riassumere quali sono i benefici delle piante?
Sono moltissimi e riassumibili nell’opportunità per massimizzare il ruolo della vegetazione nel migliorare l'effetto isola di calore, stoccare la CO2, abbattere la concentrazione d’inquinanti (specialmente le polveri sottili) ridurre la velocità del vento, proteggere gli edifici e, conseguentemente, ridurre il consumo di energia...



Nautilus  n. 17/18  Nov-Dic 2022

Relazione, inclusività, sostenibilità e benessere

Le funzioni dei nuovi musei 

Intervista a Maurizio Vanni


di
Monica Pierulivo


Ho avuto occasione di ascoltare Maurizio Vanni a ottobre scorso nell’ambito dell’Internet Festival di Pisa, durante un incontro dal titolo “Il museo diventa Phigital”.
La sua visione ampia e multidisciplinare unita a una grande competenza e passione lo portano a sostenere con forza l’importanza dei musei come luoghi relazionali, spazi di connessione, inclusivi e sostenibili. Tutto questo in sintonia con la nuova definizione di museo, ufficializzata a Praga nell’agosto 2022 dall’Assemblea Generale Straordinaria di ICOM -International Council of Museums, che avvicina l’istituzione museale alle persone rendendole parti attive dei territori e dalla Convenzione di Faro del 2005 sul  patrimonio culturale in relazione ai diritti umani e alla democrazia, ratificata dal Parlamento italiano nel 2020. 
 
Il museo non può più essere considerato solo un contenitore di beni culturali, ma un’istituzione che deve rispondere alle nuove esigenze di pubblici sempre più ampi e diversificati. La socializzazione, la relazione, il divertimento diventano strategie sempre più importanti per rendere più attrattivi i musei?

Certamente, queste sono considerazioni che faccio da molti anni. Le persone che si occupano di museologia, e lo fanno in maniera militante lavorando nel settore avendo a disposizione strutture per ricercare, innovare, sperimentare e dare risposte a esigenze di pubblici diversi, già anni fa hanno cominciato a ragionare in questi termini per creare un museo con le persone e per le persone, in altre parole un museo da vivere.
Il Lucca Museum, ora Lucca Center of Contemporary Art nasce nel 2007 e apre i battenti nel 2009 e prende vita proprio come living museum (era il nostro claim) con l’obiettivo di far diventare il museo un punto di orientamento socio-culturale per tutte le persone. Una definizione bella e attuale perché significa che non andiamo al museo solo per crescere culturalmente e artisticamente, ma per emanciparci “umanamente”, per divertirsi, per socializzare e, in generale, per stare bene...

 Nautilus  n. 17/18  Nov-Dic 2022

Dalle tradizioni locali alla contemporaneità

Intervista a Pietro Clemente


di Monica Pierulivo


Lei è presidente onorario di SIMBDEA, un’associazione che sta lavorando molto per la valorizzazione e la messa a sistema dei musei demoetnoantropologici. Quanti sono questi musei in Italia, quali sono le loro caratteristiche, e cosa è possibile fare e renderli vivi e farli diventare presidî culturali di riferimento?
 
Si fa spesso a gara per dire che i musei DEA sono di più di quelli d’arte e archeologia, e così è in effetti, ma con la creazione della rete nazionale da parte del ministero che si basa su musei accreditati dotati di varie caratteristiche di servizio pubblico, si vede che quelli DEA sono meno riconosciuti, mancano spesso di alcuni servizi. Sono più diffusi, ma spesso non hanno direttore, risorse, inventario e catalogazione.
Si parlava di circa 700 musei DEA qualche anno fa. Ma sono di più certamente perché alcuni sfuggono alla segnalazione e al web, altri si collocano in altre reti, ad esempio, la rete degli ecomusei (che è legata a leggi e finanziamenti regionali) o alla rete dei piccoli musei (una lobby di musei legati a finanziamenti ministeriali). Ma quella dei musei DEA non è una vera comunità perché prevalgono le esperienze locali, le collezioni individuali e non ci sono veri musei guida. Il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari è confluito nel MUCIV (Museo delle Civiltà), il Museo Etnografico delle Genti di Romagna di Sant’Arcangelo è stato museo guida sotto la direzione di Mario Turci, poi lui è andato in pensione, il museo è stato ristrutturato e ha perso ruolo; il Museo delle Genti Trentine non ha più un direttore DEA, la rete dei musei DEA senesi, cinque musei in rete, con al centro il Museo della mezzadria senese di Buonconvento, di recente realizzazione e di allestimento innovativo, è stata distrutta dalle scelte amministrative della Provincia. Come Museo guida è restato il Museo Internazionale delle Marionette di Palermo, legato anche al riconoscimento Unesco ICH (Intangible Cultural Heritage) dell’Opera dei pupi, con tanti premi europei e attività plurali, con un direttore, uno staff e una forte attività sul territorio...

 Nautilus  n. 16  Ottobre 2022

Demografia, giovani generazioni e scenari futuri

Intervista a Chiara Daniela Pronzato 

di Benedetta Celati 

La transizione demografica, nei Paesi europei e nelle altre economie avanzate, ha portato a un progressivo invecchiamento della popolazione, a fronte di un livello sempre più elevato di denatalità. Eppure, le generazioni future sono, oggi, le protagoniste indiscusse delle agende politiche nazionali, europee – emblematico è in tal senso il piano di ripresa “Next Generation Eu” – e internazionali. 

Gli studi demografici rivestono, dunque, un’importanza sempre più cruciale per la costruzione di politiche e interventi rivolti al futuro (“a prova di futuro” secondo il linguaggio delle Istituzioni europee). Come sottolinea la Professoressa Chiara Daniela Pronzato, che insegna Demografia, Economia e Statistica nell’Università di Torino «La diminuzione demografica in sé non costituisce un problema, quello che conta è la relazione tra le generazioni. Occorre soprattutto considerare il c.d. indice di dipendenza, indicatore con il quale si misura il rapporto tra la parte giovane della popolazione, che va ancora a scuola, quella anziana, che non può più partecipare alla produzione di beni e servizi e la parte “adulta”, che deve, invece, prendersi cura delle prime due. Tale indicatore, che calcola il numero degli individui in età non attiva ogni 100 in età attiva, ci mostra evidenze alquanto preoccupanti: se, nel 2021, per l’Italia erano 57 le persone di cui, ogni 100 adulti, era necessario prendersi cura, nelle prospettive future, il numero sale a 73 (di cui solo 29 sarebbero i giovani). Essere consapevoli di un simile scenario è essenziale per realizzare interventi di policy adeguati alle esigenze della società...


Nautilus  n. 16  Ottobre 2022

Generare cittadinanza

Intervista a Stefano Sarzi Sartori

di Monica Pierulivo

La cultura è la base da cui partire per produrre cambiamenti reali e innovativi.
In particolare, riferendosi a una società sempre più disgregata, emerge la necessità di ricostruire una cultura del legame. In tutto questo, due istituzioni principali come la scuola e la famiglia non sembrano rappresentare più dei riferimenti, la loro importanza si è affievolita, si sono rotte delle alleanze fondamentali. Cosa ne pensa?
Mi sono occupato dei temi della famiglia sin dall’inizio della mia attività, dalla fine degli anni ‘80 nell’ambito della rivista “la famiglia” (editrice La Scuola), una rivista con taglio scientifico divulgativo a diffusione nazionale. Attraverso questa esperienza ho cominciato a percepire la distanza che intercorre tra pensiero e realtà, anche attraverso la mia esperienza personale. Leggevo testi e articoli bellissimi ma poi, guardando al contesto personale e sociale, mi dicevo: è fondamentale che questi pensieri si trasformino in realtà, cioè in pratiche e cultura.
In Europa il modello organizzativo ricorrente della famiglia era quello orizzontale, aggregativo. Un modello che in alcuni paesi, come il Belgio, era diventato così forte da determinare realtà associative in grado di condizionare persino la scelta dei ministri per la famiglia. Tutto ciò grazie al fatto che, attraverso una rete vastissima di servizi organizzati dalle famiglie verso le famiglie, questa associazione (Ligue des familles) può aggregare un numero enorme di famiglie. Il modello italiano invece era e sostanzialmente è ancora diverso: aggrega le famiglie dove c’è la condivisione di una problematica particolare (per esempio le famiglie di diversamente abili), o una particolare appartenenza (religiosa o altro), altrimenti le rappresenta secondo un modello verticale o sindacale, avendo con ciò meno capacità aggregativa e dunque meno forza politica e anche trasformativa della realtà....


Nautilus  n. 16  Ottobre 2022

 Abitare la città

 Promuovere il cambiamento partendo dai bambini 

  Intervista a Federica Cicu


L’abitare implica la capacità di stare nei luoghi e nelle situazioni, di esplorarli, di soffermarsi su di essi con la presenza del corpo, delle idee, dei pensieri e delle emozioni. I bambini, attraverso l’esplorazione e la conoscenza degli spazi dei loro quartieri e delle loro città, riescono ad adattare lo spazio che li circonda alla misura del loro corpo e delle loro necessità, indubbiamente diverse da quelle di un adulto, vivendo in prima persona la gioia e la curiosità della creazione, della riappropriazione e condivisione del mondo, la conferma e la meraviglia di esserne parte e di prenderne cura.
Ne parliamo con Federica Cicu, coordinatrice del progetto Abitare la città, avviato nel 2021 a Milano coinvolgendo sette classi di due scuole primarie dell’Istituto “Antonio Scarpa” di via Clericetti e via Pini, zona Lambrate, e realizzato con il coinvolgimento di insegnanti, genitori e abitanti del quartiere.

Come è nato questo progetto e in quale contesto?
Io sono una psicomotricista in ambito terapeutico ed educativo e faccio parte dell’associazione culturale Caracol con la quale lavoro da anni promuovendo progetti con le scuole primarie e dell’infanzia nell’ambito della formazione.
Dopo la pandemia abbiamo sentito l’esigenza di avviare una grossa riflessione sul tema degli spazi, soprattutto di quelli esterni, per cercare di reagire anche al lungo periodo di segregazione e chiusura che avevamo vissuto e ritrovare un equilibrio in questo.
Nel novembre 2020, durante la fase pandemica, abbiamo quindi organizzato un convegno in collaborazione con il Movimento di Cooperazione Educativa e con l’Università Bicocca, al quale abbiamo invitato a partecipare Francesco Tonucci, fondatore del progetto internazionale “La Città delle bambine e dei bambini”, altri docenti universitari e non solo. ..



Oggi i rapporti tra generazioni sono spesso da ridefinire, reinventare. Pensiamo, ad esempio, al fenomeno dei figli unici: si perde il legame con fratelli e sorelle e quello con zii e cugini. L’assenza di altri bambini in famiglia modifica la relazione con gli adulti.
Un altro fenomeno importante è quello delle migrazioni. Le persone che a causa della migrazione vivono fuori dal proprio territorio geografico e culturale sono oltre cento milioni. Cento milioni.
Le migrazioni incidono fortemente sulla qualità e sulla tipologia di legami familiari. In Italia abbiamo circa 16.000 minorenni stranieri non accompagnati. Non sempre trovano altri parenti o comunità legate al paese di origine che offrono loro accoglienza e appartenenza. Anche nelle seconde generazioni di migranti assistiamo ad un sovvertimento di modalità e valori nei rapporti familiari.
Molte comunità si sforzano di mantenere la propria cultura. Questo permette di mantenere un’identità e un legame con il proprio luogo d’origine, diversamente da altre comunità che scelgono il percorso dell’assimilazione nel paese d’accoglienza...


 Nautilus  n. 15  Settembre 2022

In bici, in treno, a piedi 

tra i siti Unesco 

Il turismo lento a favore del riequilibrio dei territori 

 

Intervista a Andrea Rolando
(docente del Politecnico di Milano- dipartimento Architettura e Studi Urbani)
 


1.     Nei suoi progetti il turismo lento, che sta emergendo sempre più come modo di viaggiare e di conoscere, si configura come una vera e propria ragione di studio da applicare per lo sviluppo dei territori dal punto di vista urbanistico, economico e sociale. Condivide questa lettura?
Sì, l’idea è quella di considerare il turismo, lento e diffuso, come chiave di riequilibrio dei territori  cercando ricadute positive sui territori più marginali. Sostenibilità significa anche questo, la  possibilità di attraversare e conoscere i territori considerati minori e comunque meno collegati che ci sono tra i grandi centri più conosciuti.
Negli anni si è puntato molto sull’alta velocità ferroviaria, mettendo in connessione le grandi città e in modo da raggiungere in poco tempo Milano, Napoli, Firenze, Roma. Anche se il traffico ferroviario è più sostenibile rispetto al trasporto aereo, tutto questo ha sacrificato la linea litoranea, che oggi non esiste praticamente più. Per andare a Milano ormai non passiamo più da Genova ma utilizziamo prevalentemente la linea interna dell’Alta Velocità da Firenze-Bologna.
In questo senso si sono un po’ allontanati i territori intermedi tra le grandi città, per assurdo si sono allontanati i luoghi più vicini e si sono avvicinati invece quelli più lontani.
Ma l’Italia è piena di linee ferroviarie secondarie che meritano attenzione e possono servire a colmare questa situazione di disequilibrio territoriale...

Nautilus  n. 13/14  Luglio-Agosto 2022

Le nuove sfide del Sistema dei porti dell’Alto Tirreno 

Intervista a Luciano Guerrieri
(Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Settentrionale)

L’Autorità di sistema Portuale del Mar Tirreno Settentrionale (AdSP) si è costituita nel 2017, a seguito della riforma introdotta dal decreto legislativo n. 169/2016, disegnando una nuova geografia portuale. Comprende sei porti: Livorno, Piombino, Portoferraio, Rio Marina, Cavo e Capraia.
Alla base della riforma portuale, la necessità di fare sistema, coordinando nel miglior modo il livello istituzionale con le regolamentazioni europee e con il sistema produttivo e logistico nazionale e internazionale, ricercando lo sviluppo del locale nel globale e il giusto equilibrio tra innovazione e sostenibilità.

Cosa si prevede per i porti in tema di transizione ecologica?
Dopo la crisi pandemica che ha fortemente penalizzato le attività portuali nel corso degli ultimi due anni – spiega Luciano Guerrieri - dobbiamo dare la giusta importanza alla portualità in un nuovo processo di sviluppo economico territoriale che faccia leva sulle filiere e sulla capacità degli operatori e delle istituzioni di fare gioco di squadra. Dobbiamo mettere al centro della portualità le competenze professionali, il capitale umano per sostenere in modo adeguato le sfide che ci attendono. Tra queste c’è sicuramente la sfida ambientale. Per quanto ci riguarda, da questo punto di vista stiamo procedendo al rinnovo del parco navi che dovranno utilizzare nuovi combustibili per arrivare a una totale decarbonizzazione. Nel PNRR, che è sicuramente una occasione per riparare i danni causati dalla crisi e preparare il futuro alle giovani generazioni, ci sono 500 milioni di euro per favorire la transizione ad altri combustibili. Le due associazioni Confitarma e Assarmatori stanno procedendo su questa linea, con le necessarie gradualità. Il processo è partito e già oggi in porto le emissioni sono in diminuzione. 

Nautilus  n. 13/14  Luglio-Agosto 2022

Il porto di Piombino: spazi, luoghi e persone nel tempo

Intervista a Mauro Carrara

 Per ricostruire la storia del porto di Piombino e della Compagnia Portuali, realtà importanti del territorio, abbiamo raccolto la memoria di Mauro Carrara, dipendente della Compagnia Portuali per 36 anni, oltre che attento e appassionato conoscitore della realtà locale e dei suoi passaggi storici più importanti, quelli legati al passato più remoto e alla storia illustre del piccolo Stato di Piombino e quelli più recenti relativi alle grandi trasformazioni del ‘900.

Avevo 16 anni e 8 mesi ed era il maggio del ‘54 quando cominciai a lavorare al porto, in una delle due sezioni della Compagnia Portuale di Piombino. All’epoca la Compagnia Portuali, nata nel 1945,  era suddivisa infatti nella sezione Elba e in quella intitolata a Edo Micchi, lavoratore portuale morto sul lavoro, che trattava le merci industriali. 
Nel ‘67 il Governo concesse l’autonomia funzionale all’Italsider e i lavoratori portuali furono esclusi dai lavori al pontile e alla darsena. Quindi le due sezioni furono unificate. 
Fino al ’67 a sezione Elba si collocava se non al primo sicuramente al secondo posto per reddito a livello nazionale, ma anche dopo l’unificazione le attività fecero registrare livelli molto positivi in termini di traffici turistici e industriali. Mi occupavo di amministrazione ma anche dei dati statistici....
 

Il cambiamento del porto dagli anni ‘50 

Oggi il porto è molto cambiato, non lo riconosco più, è senz’anima e assomiglia a molti altri luoghi. In quegli anni era un vero e proprio microcosmo: c’erano le agenzie, la “pesa pubblica” di Elbano Guiggi  dove venivano pesate le merci da e per l’Elba, la dogana, il bar collocato al centro del porto. Dove ora inizia la diga si trovavano le agenzie marittime, i piloti, gli ormeggiatori, tutti vicini alla diga foranea. C’era un piccolo Navalcarp dove dei veri e propri maestri d’ascia costruivano le barche da pesca. Quando facevano il varo, davanti all’attuale Capitaneria, veniva organizzata una vera e propria cerimonia...

L'albergo diffuso è una tipologia di recente diffusione in Italia e in Europa, nata dall’idea di utilizzo a fini turistici delle case vuote ristrutturate coi fondi del post terremoto del Friuli (1976). Il modello di ospitalità “albergo diffuso” è stato messo a punto da Giancarlo Dall’Ara, docente di marketing turistico ed è stato riconosciuto in modo formale per la prima volta in Sardegna con una normativa specifica che risale al 1998.
La progressiva e costante diffusione dell’”albergo diffuso” è dovuta principalmente all’attenzione di una parte della domanda turistica ai contenuti di sostenibilità e rispetto dell’ambiente proposte da alcuni luoghi di soggiorno. È in questo contesto che va collocata la natura propria di tale tipologia ricettiva. La naturale collocazione, pertanto, dell’”albergo diffuso”, riferendosi ad un modello ampio ed elastico definibile come “paese albergo”, vede privilegiare i piccoli centri storici ed i borghi e nuclei di antica formazione o gli insediamenti rurali o montani, pur non escludendo la validità di soluzioni legate a singole presenze significative in contesti diversamente urbanizzati.

Ed è proprio con Giancarlo Dall’Ara che ne parliamo, presidente dell’ADI - Associazione nazionale Alberghi Diffusi, nata il 15 giugno 2006 in occasione del primo “Raduno Nazionale dei Gestori dell’Albergo Diffuso” tenutosi a Rimini e avente la finalità di promuovere e sostenere lo sviluppo degli alberghi diffusi in Italia, tutelandone l’immagine e la reputazione presso le istituzioni pubbliche, la stampa, il sistema intermediario e la domanda turistica.

Quale è la situazione dello sviluppo della formula degli Alberghi Diffusi in Italia?

Sono circa 150 le strutture ospitali che hanno tutti gli standard necessari per essere considerati alberghi diffusi. Inoltre vi sono almeno un altro centinaio di strutture che hanno ripreso alcuni degli standard dell'albergo diffuso. Dunque complessivamente parliamo di una realtà composta da 250 imprese ricettive.



Nautilus  n. 12 - giugno 2022

Parco, la scelta giusta

Intervista a Giampiero Sammuri

Presidente del Parco Nazione dell'Arcipelago Toscano e di Federparchi



Il Parco nazionale dell'Arcipelago Toscano, istituito oltre 25 anni fa, fu combattuto fortemente all'inizio da parte delle amministrazioni locali elbane e dei suoi residenti.  Adesso possiamo dire che non solo è accettato ma anche considerato un importante valore aggiunto, dal punto di vista ecologico e per l'economia turistica dell'Arcipelago. La scelta fatta nel 1996 fu pertanto una scelta vincente e a questo punto il Parco può rappresentare un modello positivo e anche un motore di sviluppo eco-turistico?
Come per tutte le aree protette vi è sempre una prima fase di resistenza da parte di settori delle comunità locali quando queste vengono istituite, specie se si tratta di parchi grandi, come anche nel nostro caso. Devo tuttavia sottolineare con grande soddisfazione che la popolazione dell’Elba ha rapidamente compreso l’importanza del parco come traino e motore di sviluppo per un turismo orientato sempre di più alla sostenibilità. Oggi, come nella maggior parte dei parchi nazionali, il solo fatto di potere esporre il “marchio” parco offre un valore aggiunto all’offerta turistica. Ovviamente questo comporta anche degli obblighi e, non a caso, la la Federparchi promuove in Italia la la Carta Europea del Turismo Sostenibile nelle aree protette, una certificazione di qualità, con vincoli e verifiche periodiche, che attesta il rispetto degli ecosistemi da parte  delle aziende turistiche che operano all’interno del territorio tutelato e che vi aderiscono. Il PNAT è fiero di essere stato fra i primi parchi ad averla ottenuta.

In base alla definizione adottata, nel 2005, dall’assemblea di AITR (Associazione italiana turismo responsabile), “Il turismo responsabile” è “il turismo attuato secondo principi di giustizia sociale ed economica e nel pieno rispetto dell’ambiente e delle culture” che “riconosce la centralità della comunità locale ospitante e il suo diritto ad essere protagonista nello sviluppo turistico sostenibile e socialmente responsabile del proprio territorio”. Esso “opera favorendo la positiva interazione tra industria del turismo, comunità locali e viaggiatori”. A tale definizione si ispira il lavoro che, dal 2009, anno di fondazione del progetto, viene svolto dalla rete IT.A.CÀ, primo e unico festival in Italia sul turismo responsabile, promosso dalle associazioni YODA, COSPE e NEXUS. Ne parlo con Sonia Bregoli, co-fondatrice e coordinatrice nazionale dell’iniziativa, che mi racconta come nasce l’idea di valorizzare il c.d. “viaggio dietro casa”, ossia, più che la meta, la scoperta che si fa lungo il percorso, coniugando il benessere dei viaggiatori con quello degli abitanti dei territori visitati.
“It a cà”, in dialetto bolognese, significa proprio “Sei a casa?”, espressione divenuta centrale al tempo del Covid-19, quando l’unico presidio contro la diffusione del virus, almeno in una fase iniziale, era rappresentato, appunto, dal rimanere nelle proprie abitazioni
Sonia mi spiega come, in questi anni, il festival, partendo da Bologna, si sia gradualmente evoluto, creando una rete composta, oggi, da più di 700 realtà


Nautilus  n. 11 - maggio 2022

 

Come cambia la 

partecipazione in Toscana

Intervista ad Andrea Zanetti 

(Autorità per la Partecipazione Regione Toscana)

La Toscana è stata la prima Regione in Italia a introdurre una legge sulla partecipazione. A che punto siamo oggi con il quadro legislativo e con le esperienze avviate in questi 15 anni?

La R. T. è stata decisamente all’avanguardia a livello nazionale con l’introduzione, già nel 2007, della prima legge che disciplina i processi partecipativi da parte dell’allora assessore regionale Agostino Fragai.
Negli ultimi anni questo elemento partecipativo si è un po’ diluito e altre Regioni, come la Puglia, l’Emilia Romagna ad esempio, si sono dotate di strumenti diversi sulla partecipazione guadagnando terreno.
Oggi, alla luce anche di quello che è successo negli anni, nella nostra Regione siamo davanti alla necessità di rivedere la legge attualmente in vigore (L.R. 46/2013) che è stata approvata dopo il primo periodo di sperimentazione.
C’è la necessità di armonizzare i diversi strumenti che sono stati approvati negli anni e che, pur occupandosi di temi specifici, hanno comunque a che fare con la partecipazione. Penso ad esempio alla legge sull’assistenza socio-sanitaria, a quella sulla pianificazione territoriale, legge n. 65/2014, che ha al suo interno strumenti definiti da seguire durante gli iter di discussione degli strumenti urbanistici; penso ai Contratti di Fiume, alla legge sui beni comuni che in Toscana è stata approvata nel 2020 e che è fortemente incentrata sul senso di comunità. Riconoscendo lo strumento dei patti di collaborazione, la legge sui beni comuni risponde infatti all’esigenza di dare un riconoscimento reciproco al rapporto tra cittadini e istituzioni e aiuta a generare politiche di prossimità.


Nautilus  n. 11 - maggio 2022

Progettare con i giovani

Intervista a Chiara Missikoff e Enrico Russo

(Sociolab cooperativa e impresa sociale)

 

Parliamo di partecipazione con due giovani della cooperativa Sociolab di Firenze: Enrico Russo, architetto ed esperto in pianificazione e urbanistica partecipata e Chiara Missikoff, facilitatrice e ricercatrice. 

Sociolab è un’impresa che dal 2006 opera sul territorio nazionale e internazionale occupandosi di ricerca e consulenza nei settori della partecipazione, di progettazione collaborativa, mediazione di conflitti, facilitazione e ricerca sociale. 

Enrico e Chiara provengono da due percorsi formativi diversi ma, ognuno per il proprio campo, si sono qualificati in pratiche partecipative, accompagnando persone, comunità e organizzazioni nella progettazione, trasformazione e gestione di spazi, servizi, beni comuni e modi di abitare, in modo da valorizzare la collaborazione come fattore di innovazione. 

Enrico, dopo la laurea e un Master in rigenerazione urbana e innovazione sociale allo IUAV di Venezia, ha iniziato un periodo di tirocinio con Sociolab che è stato molto proficuo e che lo ha avvicinato all’urbanistica partecipata. Chiara, laurea in Scienze politiche e un Master in Ricerca Sociale, si è invece sempre occupata di progetti sociali, di comunità e di tematiche relative all’inclusione. 

Attualmente stanno portando avanti il progetto di rigenerazione urbana “CLUE - Capraia e Limite Urban Expression” pensato per favorire il protagonismo giovanile con attività di coprogettazione e arte urbana. L’obiettivo è arrivare alla gestione condivisa dell’ex magazzino comunale coinvolgendo fin dall’inizio i giovani destinatari dello spazio nella definizione del suo uso, nella configurazione degli spazi e nell’identificazione delle modalità di gestione. 

Nautilus, n. 9 marzo 2022

La poesia della memoria

Intervista a Pupi Avati

di Fabio Canessa


La poetica della memoria e lo struggimento dei ricordi sono da sempre ricorrenti nel suo cinema.
Non solo nel mio cinema. È un tema fondamentale della grande letteratura e della poesia in genere. Pensi alla madeleine di Marcel Proust da cui inizia un capolavoro come “Alla ricerca del tempo perduto”. O alla poetica del Fanciullino di Giovanni Pascoli, il mio poeta preferito, anche per tragiche coincidenze familiari: mia madre da bambino mi leggeva “X agosto” e “La cavallina storna”, quasi profeticamente. Mio padre sarebbe morto in un incidente stradale proprio dove fu ucciso Ruggero Pascoli, il padre del poeta.

Ed è un tema fondamentale anche nel grande cinema.
Nei capolavori del cinema: soprattutto in “Otto e mezzo” di Federico Fellini e nel film più straordinario di Ingmar Bergman, “Il posto delle fragole”, un’opera sulla vecchiaia che non ha uguali

Nautilus, n. 9 marzo 2022

Storia locale e cittadinanza

A colloquio con Mauro Carrara

di Monica Pierulivo

Appassionato di storia da sempre, grande divulgatore della conoscenza del territorio e della sua città natale, Piombino, con una particolare attenzione ai giovani, Mauro Carrara da oltre sessant’anni svolge un’opera importante di promozione della memoria locale attraverso la quale molte generazioni hanno potuto apprezzare il valore della ricerca storica come fondamento di una crescita culturale diffusa e di una cittadinanza attiva e consapevole.

Come è nata la tua passione per la storia?
“Fin da ragazzo frequentavo la biblioteca quando questa era ancora in via Giuseppe Garibaldi a palazzo Maberini, intorno al 1946-48; mi piacevano i libri ed ero molto curioso anche se ero ancora un bambino, avevo circa 10 anni.
Negli anni ’50 la biblioteca fu trasferita nella sua sede storica in via Cavour vicino ai due licei. Fu lì che iniziai ad appassionarmi. Era molto frequentata dai ragazzi delle scuole che cercavano la storia di Piombino ma non c’erano ancora molte pubblicazioni su questi temi.
Il testo di riferimento era quello di Licurgo Cappelletti, un testo sicuramente non facile e poco adatto alla divulgazione nelle scuole. Iniziai allora a scrivere delle schede, in particolare sui monumenti, iniziai dal Castello e poi mi dedicai a tutti i luoghi storici e
artistici di Piombino. Cercavo di arricchire il poco sapere del mio territorio.  All’epoca a Piombino non c’era molto interesse per il proprio patrimonio culturale e mi sembrava molto importante stimolare una conoscenza e un'attenzione poco presenti.
In seguito, nel 1969, nacque il “Centro Piombinese di Studi Storici“, un’associazione che ha avuto un ruolo molto importante per la città e il territorio, fondata da Luciano De Gregorio e da Alfredo Massart...

Nautilus, n. 8 febbraio 2022


Le parole e la democrazia

Intervista a Luciano Canfora

di Fabio Canessa

 
Nella nostra società delle immagini, tra schermi di tv, pc e cellulari, social e piattaforme, qual è il destino della parola?
Quello di essere usata in modo falso, perché non corrisponde mai alla cosa. Colpa della banalità e dell’ignoranza sempre crescenti del ceto politico, del ceto giornalistico e dei loro accoliti. A partire dalla parola democrazia, che non corrisponde affatto alla realtà della nostra forma di governo.

Qual è l’origine, e dunque il vero significato, della parola “democrazia”?
È una parola greca che nasce polemicamente, come termine negativo, usata dagli oligarchici per denigrare uno stato nel quale politicamente prevale il “demo”, cioè i non ricchi, quelli che non possiedono la terra, considerati gentaglia. Lo dimostra bene Pseudo-Senofonte che, senza infingimenti, dichiara brutalmente questo.

Poi però la parola “democrazia” ha assunto una connotazione positiva.
Poi la parola “democrazia” si eclissa, tanto è vero che in latino non esiste. Tornerà fuori dopo molto tempo, con un’accezione positiva perché legata al senso di diritto elettorale e tutto quello che questo comporta.

Ancora oggi ha mantenuto un senso positivo.
Oggi è una parola del tutto priva di senso, perché i sistemi elettorali truccano già alla base l’esito delle votazioni, gli stati nazionali non contano più nulla e le decisioni avvengono tutte dall’alto, da lontano, per cui noi dobbiamo solo ubbidire alle direttive europee. Così chi dichiara di lottare per la democrazia dice una cosa che non ha senso. 



Nautilus, n. 6-7/dicembre 2021-gennaio 2022

Il mondo a tavola

Il Laboratorio di Antropologia del Cibo di Milano 

Intervista a Giulia Ubaldi


di Monica Pierulivo

Siamo nel cuore del Giambellino, un luogo aperto e multiculturale, quartiere storico del Cerutti Gino di Giorgio Gaber, dove le storie da raccontare sono molte, di tutti i tipi, positive e negative, ma comunque piene di colori e di tanta vita.
È qui che, appena tre mesi fa, è  nato il Lac (Laboratorio di Antropologia del Cibo),  ideato e realizzato da Giulia Ubaldi, antropologa laureatasi all’Università di Siena con una tesi sulla “politica del velo” che a un certo punto della sua vita e dopo diverse esperienze in giro per l’Italia, soprattutto al Sud, ha deciso di creare nel suo quartiere uno spazio dedicato al cibo come cultura e incontro e alla cucina come condivisione e partecipazione. 140 mq costruiti intorno alla cucina dal design unico, firmato Riccardo Barthel.
Si tratta di un’esperienza unica per le modalità in cui è concepita e gestita, e soprattutto un’esperienza che considera il cibo e l’alimentazione come strumento per unire, proprio partendo dalle differenze e preservandole.

Giulia, puoi spiegarci che cos’è l’antropologia del cibo e come si collega al LAC? 

Il Laboratorio è un punto di arrivo di un percorso di elaborazione, di studio e di esperienze concrete che mi hanno portato all' antropologia del cibo

Non nasco infatti come esperta di alimentazione. Dopo la laurea in antropologia mi sono occupata di agricoltura, un settore comunque affine per certi versi, lavorando nel Cilento in alcune aziende agricole, fino a quando non ho aperto una mia azienda Caselle in Pittari. 

L’agricoltura non era l’unico campo di cui mi sono occupata perché mi piaceva anche l’arredamento, soprattutto nella ristorazione. Dal filone della campagna e poi dell’arredamento per la ristorazione, mi sono avvicinata molto al cibo. Ho fatto un corso di enogastronomia e poi, dopo aver trascorso quattro anni in Cilento, sono tornata di nuovo nella mia città,  Milano...



 

Nautilus, n. 5 - novembre 2021


I Parchi della Val di Cornia

Ascesa, declino e speranze di un progetto territoriale 


Intervista a MASSIMO ZUCCONI

Presidente e Amministratore delegato della  società Parchi Val di Cornia dal 1998 al 2007

di Monica Pierulivo

Architetto Zucconi, il sistema dei Parchi della Val di Cornia affonda le sue radici nella pianificazione coordinata tra i Comuni di Campiglia M., Piombino, Sassetta, San Vincenzo e Suvereto e prende forma con la costituzione della Società mista pubblico-privata Parchi Val di Cornia Spa nel 1993. 

Da subito si configura come un progetto fortemente innovativo, come è nato e quali erano gli aspetti innovativi che lo caratterizzavano?

A metà degli anni ’70 del secolo scorso la Val di Cornia era caratterizzata dalla monocoltura siderurgica e la popolazione tendeva a concentrarsi nella città di Piombino.  È in quello scenario che prese forma l’esperienza dei piani regolatori coordinati con l’obiettivo di riequilibrare il rapporto tra coste e colline per contenere lo spopolamento delle aree interne e ridurre l’inurbamento lungo le coste. Dal punto di vista economico l’obiettivo era la diversificazione.
Il sistema dei parchi fu una delle leve fondamentali di quella strategia.
Era contemporaneamente un progetto culturale, territoriale ed economico. Per attuarlo i Comuni dovevano agire uniti e per questo si dotarono di una società strumentale. Alla luce di ciò che è accaduto nei decenni successivi si può affermare
che ebbero grande lungimiranza politica, volontà di cooperazione istituzionale e capacità innovativa.

C’è stata nel tempo, da parte degli enti locali, una forte progettualità e capacità di attrarre finanziamenti. Oggi non è più così. Cosa è successo?
La maggior parte degli interventi nei parchi sono stati realizzati tra il 1993 e il 2007. Allora la società Parchi agiva per conto del Circondario (la forma associativa di cui si erano dotati i Comuni) con ampia autonomia operativa. Curava le progettazioni, valutava le priorità degli interventi e la sostenibilità economica della gestione....

Nautilus, n. 4 - ottobre 2021

Un tempo tutto per sé

Intervista a Graziella Civenti e Gianna Stefan
promotrici dell’autoinchiesta
Vivere soli, a Milano, ai tempi del Covid 19

di Benedetta Celati


Graziella e Gianna sono le due promotrici dell’autoinchiesta “Vivere da soli a Milano ai tempi del Covid 19”. A loro abbiamo chiesto di raccontarci come è nata questa indagine e quali riflessioni ne sono scaturite.
In verità, parte tutto da lontano, da quando Graziella ha svolto la sua prima ricerca che ha dato origine al libro “Una casa tutta per sé. Indagine sulle donne che vivono da sole” (https://www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_Libro.aspx?ID=22615). In quell’occasione, Gianna conosce Graziella e l’aiuta a diffondere i suoi questionari. 
Si ritrovano, poi, a Milano, una sera di agosto 2020, dopo il primo lockdown, e dal confronto sulle reciproche esperienze di come avevano vissuto, abitando sole, quel lungo periodo passato in casa a causa del Covid-19, Graziella e Gianna traggono lo spunto per sviluppare un nuovo progetto condiviso. Graziella aveva già elaborato un questionario, senza però essere integrata in una ricerca istituzionale, ma solo sulla base dell’esigenza, avvertita da entrambe, di fare qualcosa riguardo a un tema così rilevante eppure così poco analizzato, anche nell’ambito degli studi condotti sul lockdown e i suoi effetti.  A quel punto occorreva solo partire...

Nautilus n. 3 - settembre 2021


Lavoro e Società InGenere

Formazione, servizi e nuovi modelli organizzativi per ridurre il Gender Gap

Intervista a Nicola Sciclone

direttore di IRPET Toscana

di Marco Bracci

  • L’IRPET http://www.irpet.it (Istituto Regionale per la Programmazione Economica della Toscana) di cui Lei è direttore da poche settimane ma presso il quale presta servizio e svolge ricerca da molti anni, è da sempre attento allo studio della condizione economica e lavorativa delle donne in Toscana, e più in generale all’analisi delle varie dimensioni tramite cui il cosiddetto Gender Gap si manifesta. A questo proposito, quali elementi e dati è importante comprendere, e quali riflessioni ne scaturiscono? 

 
Per motivare l’attenzione che Irpet dedica da sempre al tema delle donne, rispondo partendo anche io da una domanda. E’ utile avere un approccio di genere nell’analisi economica e sociale? La risposta è sì, perché nonostante evidenti miglioramenti rispetto al passato continuiamo ad osservare uno squilibrio del lavoro di cura, dei familiari e della casa, nella ripartizione fra i generi. Inoltre le donne scontano, in generale, minori opportunità di partecipazione al lavoro e di carriera. 
Cito due numeri: il tasso di attività delle donne (66%) è 12 punti più basso rispetto a quello degli uomini (78%) e il divario resta simile nei tassi di occupazione (61% rispetto a 73%) ...

Nautilus n. 2 - agosto 2021

Ferry Boat  

Visioni di un territorio

Intervista a Guido Morandini
autore e regista RAI

di Monica Pierulivo

Regista Rai, vive tra Roma e Piombino. Comunicatore errante, navigatore, indagatore dell’autenticità dei luoghi e dei loro sistemi relazionali più profondi, creativo e visionario, ha realizzato ultimamente tre documentari che hanno al centro il rapporto con l’acqua, il mare e molto altro: “Ferry Boat Canale di Piombino”; “Aurelia, una Statale sull’Acqua”;” Aurelia, Bianco e Nero”, trasmessi su Rai5 e Rai3 nell’ambito della trasmissione televisiva “Di là dal fiume e tra gli alberi”.
I suoi documentari sono visibili su RaiPlay

Com'è nato il tuo rapporto con Piombino?

 Negli anni ’80, iscritto alla Facoltà di Architettura di Firenze, dovevo preparare un esame di urbanistica, insieme a Claudio Saragosa, e venni proprio a Piombino per studiare l’architettura sociale di questa città che ancora non conoscevo. All’epoca mi sembrò una città operaia con valori di concretezza, molto definita, non mi colpì particolarmente, forse perché avevo una visione immaginifica del mondo. Una città semplice, ma in quell’occasione non vidi il centro storico. Facevo un’analisi della città operaia e quindi visitai i suoi quartieri, la città nata nei primi decenni del ‘900, le scuole elementari di piazza Dante, il Cotone. Quello che più mi colpì fu il Villaggio Diaccioni e il mare. ...