Per un diritto dei beni comuni

Intervista a Maria Rosaria Marella

a cura di Benedetta Celati

Per questo numero abbiamo scelto di occuparci di “beni comuni”, tema che evoca un concetto ormai parte del linguaggio comune anche se forse non completamente del senso comune. 

 Le pratiche e i movimenti che si collocano in quest'idea sono legati dal fatto di costituire una trama di relazioni sociali e poi anche ecologiche che propongono un'alternativa alla razionalità neoliberista, in uno scenario nel quale gli effetti più disastrosi del capitalismo oggi occupano saldamente il potere, come testimonia molto bene il binomio Trump-Musk.

Nel 2012 veniva pubblicato un volume da lei curato che rappresenta un riferimento nella letteratura scientifica sul tema, “Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni” (Ombre Corte), con la postfazione di Stefano Rodotà. La mia domanda è proprio questa: a che punto siamo oggi dal suo punto di vista, dopo i referendum del 12 e 13 giugno 2011, sul servizio idrico integrato (noto come referendum sull’acqua bene comune), le occupazioni degli spazi a Napoli, del Cinema Palazzo e del Teatro Valle a Roma, dopo i lavori della Commissione Rodotà nel 2007 e poi la legge di iniziativa popolare nel 2019? A che punto ci troviamo oggi, con un neoliberismo di stampo americano che sembra essere inequivocabilmente tornato a dominare il mondo? Che spazio hanno nel senso comune i beni comuni?

 

A questa domanda si possono dare due risposte, ovvero si possono abbracciare due diverse prospettive. Una ottimista e più conciliante e una decisamente pessimista. Proviamo a stare nel mezzo. Dal punto di vista giuridico, la nozione di beni comuni ha preso piede, la letteratura è molto cresciuta, si continua a pubblicare sui beni comuni, sebbene con qualche voce dissenziente che tenta di screditare queste ricerche. In realtà mi sembra che quest'idea possa anche dirsi in qualche misura entrata nel mainstream e che quindi si possa riconoscere una generale accettazione del concetto. Per quanto forse non vi siano stati grandi guadagni, c'è stata però un'elaborazione sufficientemente precisa, a cominciare dal lavoro della Commissione Rodotà nel 2007-2008. Da allora ci sono stati degli sviluppi e una elaborazione compiuta, anche se sicuramente c’è sempre spazio e modo di elaborare e di raffinare certe nozioni riadattandole a contesti nuovi. Ci sono stati degli avanzamenti sul piano istituzionale perché un'esperienza napoletana ad esempio ha registrato un riconoscimento da parte del Comune: l'esperienza del “fare comune” dell'ex asilo Filangieri, che ha portato all’elaborazione di una sorta di categoria generale che può essere applicata, ed è stata in effetti applicata, ad altre occupazioni e ad altre forme di recupero di spazi: gli usi civici urbani, i nuovi usi civici (di una matrice diversa da quelli storici). C'è stato poi un movimento espansivo che ancora è presente: tutta la vicenda dei patti di collaborazione e dei regolamenti comunali che hanno previsto possibilità di una collaborazione fra cittadini e istituzioni per il recupero e il riutilizzo di beni, prevalentemente beni pubblici, lasciati in stato di abbandono. Si tratta di un’esperienza molto diffusa. Ben oltre 300 Comuni italiani hanno adottato questi regolamenti, in virtù dei quali si realizza una specifica forma di  sussidiarietà orizzontale ai sensi dell'articolo 118 della Costituzione. A mio avviso questa esperienza da una parte conferisce un pieno riconoscimento alla nozione dei beni comuni e ne fa quindi parte integrante dell'ordinamento giuridico italiano, visto che è alla base di procedimenti amministrativi diffusissimi e ritenuti appunto validi dalla giurisprudenza amministrativa. Dall’altra, certamente non si tratta di usi particolarmente dirompenti o trasformativi dei beni comuni. Siamo lontani dalle sperimentazioni del Teatro Valle e del Cinema Palazzo, siamo nell’ambito di una visione più tranquillizzante di beni comuni che fa più capo a una dinamica di “buona amministrazione” che non a un modo di trasformare il mondo, o di uscire dalla spirale distruttiva del capitalismo.

 

Da questo punto di vista mi chiedevo cosa ne pensa del fatto che, in questi ultimi anni, un contributo importante, in chiave trasformativa e anche forse riparativa, è arrivato dal mondo dei movimenti ecologisti. Quanto rileva secondo lei la consapevolezza oggi diffusa del ruolo dell’estrattivismo del capitale e quanto però può incidere – se la vediamo come un fattore positivo – la crisi che attualmente sta attraversando il sostegno alla transizione ecologica o almeno dell'ecologismo (anche di facciata) che la supportava? Ecco mi chiedo il fatto che oggi siamo consapevoli di avere risorse limitate e di vivere in un mondo basato su forti disuguaglianze può essere interpretato come una leva per rilanciare un ruolo trasformativo del concetto di beni comuni?

 

La domanda è molto difficile perché la risposta sarebbe trovare la chiave di volta per porre fine a un disastro. Intanto a me sembra che le lotte ecologiste sperimentino quello che c’è in nuce nell'idea di beni comuni, idea forte che non è stata tanto esplicitata ma che era già presente nei lavori di Rodotà degli anni ‘70. L’idea forte dei beni comuni è il fatto che i titolari dei diritti fondamentali che nel riconoscimento dei - e nell’accesso ai - beni comuni devono trovare realizzazione, abbiano con ciò un potere di interferenza rispetto alle decisioni dei titolari delle risorse, che appunto definiamo beni comuni. Quindi ciò che le lotte ecologiste chiedono di fare è di interferire proponendo con forza soluzioni alternative rispetto al cattivo uso, nonché all’abuso delle risorse ambientali, al loro depauperamento e alla loro distruzione. Dal punto di vista della teorica dei beni comuni le lotte ecologiste sono pienamente legittimate. Trovano infatti una piena legittimazione nel fatto che in questo modo si realizza una difesa dei propri diritti fondamentali, esercitando il potere di interferire nell'agenda del proprietario, del titolare, sottolineando quanto un certo uso delle risorse ambientali abbia delle esternalità negative che si riversano su tutti e in particolare sui titolari di diritti fondamentali. Dall'ambiente dovremmo trarre per esempio la garanzia del diritto alla salute. In questo senso le lotte ambientaliste sono importanti dal punto di vista politico ma anche pienamente legittimate sul piano giuridico. Da ciò a riuscire a capovolgere effettivamente l'agenda del grande capitale, però, ne corre.  Un altro oggetto di attenzione può e deve essere secondo me la rete. Come è stato scritto giustamente Internet era la grande promessa dei Commons immateriali, di commoning, si prospettava come il bene comune digitale più importante, fondamentale in quanto luogo dove sarebbe stato possibile realizzare libertà di espressione, valori democratici, ovviamente con i conflitti che tutto ciò comporta. Questa idea è sfumata perché ora abbiamo l’economia delle piattaforme e non più la rete. Ormai quello spazio, lo spazio digitale, è occupato dalle piattaforme e come sentiamo in questi giorni la Sylicon Valley sta convergendo velocissimamente verso Trump. 

In questo quadro, il 99% dovrebbe decidersi ad affrontare il problema delle disuguaglianze con i modi dovuti, che non sono probabilmente solo quelli di teorizzare i beni comuni, ma di affermarli con forza, nei fatti. Assistiamo a un'evoluzione del capitalismo, come mostra la vicenda di Trump, che è un capitalismo politico, nel quale lo Stato e i soggetti istituzionali partecipano direttamente alle dinamiche di sfruttamento ed estrazione, non più limitandosi a mediare rispetto agli interessi del grande capitale. Sono protagonisti e quindi in questo senso non c'è più mediazione rispetto ai conflitti sociali e ai conflitti ambientali, al contrario la risposta è quella della repressione. E dunque l'idea dei beni comuni, e la consapevolezza che queste risorse sono di tutti, ci devono motivare a forme che non sono solo di resistenza ma di reazione e di lotta

 

L'ultima domanda che volevo farle riguarda la dimensione urbana, visto che si è occupata ampiamente di questo tema nei suoi studi. Anche qui mi ricollego all’attualità. Gli spazi urbani e i Commons richiamano il governo del territorio e proprio in questo periodo c'è un dibattito molto vivo tra i giuristi oltre che tra gli urbanisti su un disegno di legge che interviene sulle norme del diritto urbanistico, denominato Salva-Milano. Il provvedimento (oggetto di una lettera-appello firmata da oltre 140 professori universitari) incide fortemente sul disegno della città, esprimendo un’idea di quest’ultima ben lontana dall’“acquis” dei beni comuni, dal portato di quelle pratiche che l’hanno resa terreno di contrasto delle disuguaglianze causate dalla finanziarizzazione dell’economia. Le chiedo una sua opinione su ciò che sta avvenendo relativamente agli spazi urbani e se ritiene che ancora oggi la riflessione sui beni comuni continui a essere centrale per la loro costruzione. 

 

Sicuramente è centrale per fondare una critica che deve essere il più agguerrita possibile rispetto a ciò che sta succedendo. Il problema non è solo la finanziarizzazione ma anche la turistificazione, che sono poi problemi collegati tra di loro perché i grandi investitori in molti casi investono in complessi residenziali di superlusso o in grandi alberghi. È quello che sta avvenendo in tutte le città. In linea generale, il turismo è avvertito come l’industria attualmente più fiorente. Questo è un profilo, mentre l’altro risvolto è quello del securitarismo. Ci sono provvedimenti molto gravi che riguardano il governo delle città: il famigerato d.d.l sicurezza, incentrato sull’ordine pubblico, è in realtà molto basato sul controllo dello spazio urbano e contiene misure che mirano a una tutela ipertrofica della proprietà immobiliare, prevedendo forme di tutela penale aggravata rispetto ai reati comuni di maggiore rilevanza. Le occupazioni abitative sono ritenute un crimine molto grave e si prevedono figure di reato anche per chi collabora alle occupazioni; quindi, si vogliono colpire i movimenti per la casa. Il diritto all'abitazione previsto dalla Costituzione e non attuato è assolutamente calpestato. 

E poi ci sono queste politiche a latere, i provvedimenti dei prefetti finalizzati alla istituzione delle zone rosse, per esempio, che fanno di quella che un tempo era un’eccezione la regola, cioè la segregazione urbana su base razziale e di classe, con una sostanziale criminalizzazione delle periferie (v. il c.d. decreto Caivano e la sua estensione ad altre realtà urbane oggi in fase di studio e applicazione da parte del governo). In realtà quello che si vuol fare, e si fa, è impedire alle minoranze razzializzate di avere accesso ad alcune zone (centrali) della città, come avvenuto durante l’ultimo Capodanno in vari centri cittadini, cioè precluderne l'accesso a persone provenienti dalle periferie “degradate” - che sono periferie tendenzialmente segnate dalla segregazione razziale. Che lo spazio urbano sia un bene comune è un fatto, perché appunto è una costruzione collettiva ma questo fatto è negato e contrastato da tali politiche. Quindi da una parte c'è il securitarismo, che nega l'idea dello spazio urbano bene comune perché non consente la libertà di movimento, dall'altro ci sono operazioni finanziarie e i processi di turistificazione che costantemente sottraggono spazio alla città bene comune creando nuove forme di appropriazione, valorizzazione ed estrazione di valore che non si risolvono ovviamente in politiche redistributive ma in accumulazione e valorizzazione a beneficio di pochi. Con ulteriori ricadute in termini di gentrificazione ed espulsione di alcuni ceti da ampie zone cittadine. Nel complesso l’attacco all’idea dello spazio urbano come bene comune è evidente.

La nota positiva sta nel fatto che comunque ci continuano ad essere spazi non solo di resistenza ma anche di costruzione del comune che sono diffusi. Oltre alle esperienze che abbiamo prima passato in rassegna, come quella di Napoli, è importante ciò che fanno i lavoratori della ex GKN, un esempio dei migliori di bene produttivo gestito in comune, rilanciato per creare forme di produzione alternative. Tutto questo è in grado di generare e genera delle reazioni virtuose. 

Quello dei beni comuni continua a essere, in sostanza, un cantiere aperto. Anche questa consapevolezza è una nota positiva, così come avere degli strumenti giuridici per contrastare tutto quanto non funziona. Come ulteriore punto positivo menzionerei poi la Climate litigation, le controversie strategiche che servono ad arrivare a ottenere dalle corti dei dispositivi che siano in difesa dell'ambiente e dei beni comuni. Questa via non è certamente l’unica, perché è importante che le lotte siano capillari, però la Strategic litigation, in generale, nonché il ricorso alla Corte costituzionale, come è già avvenuto in passato in Italia (ad esempio con la legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita) e avverrà probabilmente in futuro per smantellare provvedimenti che sono incostituzionali, come sono le norme del ddl sicurezza, rappresentano comunque degli strumenti giuridici ai quali poter fare ricorso, sempre nell'ambito di una cornice di lotta.