Teste ben fatte
Ripensare l'educazione per abitare la complessità
Intervista a Elena Falaschi
(a cura di Monica Pierulivo)
1. Cosa significa studiare oggi, in un’epoca di grandi complessità ma anche di grandi semplificazioni?
Analizzando innanzitutto il concetto di “studio” e le sue radici etimologiche, sappiamo che deriva dal latino studium, studere: aspirare a qualcosa, applicarsi attivamente con desiderio, amore e passione, focalizzando l’azione non tanto sulla fatica dell’apprendimento quanto su una disposizione d’animo favorevole nei confronti di qualcosa o di qualcuno.
Dai latini a ChatGPT la complessità e la semplificazione hanno rappresentato una “antinomia pedagogica” che, insieme a molte altre, ha attraversato il mondo dell’educazione e della formazione.
Nella storia del pensiero pedagogico, le antinomie – già presenti nello strumentalismo deweyano di Democrazia e educazione[1] – si sono spesso presentate come problemi le cui risoluzioni non sempre hanno significato la reciproca esclusione dei due concetti. Nella pedagogia si rilevano così antinomie formali (come scienza-filosofia, teoria-prassi, ecc.), pratico-teoriche (ad esempio autorità-libertà, cultura-professione, ecc.), pratico-educative (individualizzazione-socializzazione, rapporto maestro-scolaro, ecc.)[2].
Con lo stesso approccio, abbiamo bisogno oggi di analizzare la complessità e la semplificazione anche relativamente alle potenzialità formative dello studio, per riconoscere le rispettive specificità ma al tempo stesso tutte le loro reciproche connessioni. Di fronte alle attuali sfide della complessità e alle fitte interconnessioni sistemiche che spesso rendono difficile distinguere le singole parti dal tutto, assistiamo oggi ad una proliferazione di metodi per semplificare. Il bisogno di semplificare riguarda tutte le attività e investe tutti gli ambiti della vita sociale e politica, della medicina, della scienza, della tecnologia, della vita quotidiana. Tuttavia, paradossalmente, il risultato della ricerca frenetica della semplificazione non è altro che quello di produrre un aumento della complessità: ad esempio, quanto più l’utilizzo dei computer è semplice, tanto più i software saranno “pesanti”. Quindi, semplificare ha un prezzo.
Sulla base di queste premesse, il significato dello studio in epoca contemporanea non può che essere quello che sostiene la formazione di “teste ben fatte”[3] e non “ben piene”, menti aperte e critiche, il cui pensiero cum plexus (intrecciato) possa nutrirsi delle infinite interconnessioni derivanti da una molteplicità di saperi, di contesti, di esperienze, secondo il principio interpretativo della “semplessità”. La semplessità non è semplificare, ridurre, eliminare variabili e costruire un modello lineare ma richiede di selezionare, collegare e immaginare. In questo senso, la semplessità può essere espressa come l’eleganza delle soluzioni semplici che permettono di arrivare ad azioni più rapide, più efficaci seppur mantenendo il senso e accettando alcune necessarie deviazioni. In generale, assumere la semplessità come principio regolativo dello studio significa riuscire ad interpretare la relazione tra il particolare e l’universale, qualunque siano i metodi di studio, gli strumenti, i tempi, i risultati.
Volendo invece “semplificare”, possiamo interrogare ChatGPT per fornire la risposta alla presente domanda. Questo ciò che ci rimanda:
DA CHATGPT:
“Studiare oggi significa affrontare una realtà caratterizzata da una quantità enorme di informazioni facilmente accessibili, grazie alla digitalizzazione e al web. Questa abbondanza di dati offre opportunità uniche per ampliare le conoscenze, ma impone anche la necessità di sviluppare capacità critiche per discernere tra informazioni valide e non. La complessità del mondo contemporaneo richiede agli studenti di adattarsi rapidamente ai cambiamenti e di comprendere fenomeni globali interconnessi. Al contempo, le tecnologie hanno semplificato molte operazioni, permettendo un accesso più immediato alle risorse di studio e la possibilità di apprendere attraverso modalità diverse, come video, podcast, e-learning, ecc.”.
2. Oggi si studia di più o di meno rispetto al passato?
Per valutare se oggi si studia di più o di meno rispetto al passato è necessario considerare due aspetti. Innanzitutto, la natura multiprospettica dello studio, prendendone in considerazione le modalità e gli strumenti: lettura silenziosa e ad alta voce (libri cartacei o e-book); ascolto di un adulto o di un compagno oppure di audiolibri; scambi e confronti in luoghi fisici o virtuali (chat, forum, motori di ricerca, siti dedicati, ecc.) con accesso attraverso dispositivi digitali di varia natura.
L’altro aspetto da prendere in considerazione è l’età: alla scuola primaria, nella relazione insegnamento/apprendimento, i bambini sperimentano e approcciano i saperi nel rispetto della loro natura interdisciplinare utilizzando, differenti modalità e canali comunicativi.
Alla scuola secondaria di primo grado la rielaborazione dei diversi contenuti disciplinari è più definita, le modalità di studio sono più specifiche e cominciano a differenziarsi in relazione alla singola disciplina (la natura discorsiva dell’italiano; l’esercizio matematico; la sperimentazione scientifica; la ricostruzione temporale della storia; l’osservazione mirata e intenzionale delle opere artistiche; ecc.). Proprio in questa fascia di età molta attenzione viene fornita alla costruzione di un proprio e personale metodo di studio, improntato all’apprendimento strategico.
Alla scuola secondaria di secondo grado la specializzazione delle materie è ancora più netta e l’importanza della scelta dell’Istituto, e dell’indirizzo al suo interno, è determinante per il successo scolastico perché succede – ancora troppo spesso, purtroppo – che lo studente si renda conto dopo uno o due anni di frequenza che la scelta effettuata non era quella che effettivamente corrispondeva ai propri interessi e alle proprie aspirazioni. Fenomeno questo estremamente complesso e rischioso (e sul quale viene posta molta attenzione in termini di potenziamento dell’orientamento formativo) poiché si traduce in alte percentuali di “dispersione scolastica”.
Infine, all’Università. Anche in questo caso l’impegno e il tempo dedicato allo studio sono direttamente correlati alla corretta scelta della Facoltà rispetto alle proprie passioni anziché all’iscrizione ad un Corso di Laurea potenzialmente più legato alle future aperture nel mondo del lavoro.
Quindi, rispetto al passato, non si studia né di più né di meno ma si studia secondo una molteplicità di metodi e di strumenti e all’interno di tempi diffusi, non rigorosamente definiti all’interno della giornata.
È innegabile infatti che, oggi, le caratteristiche costitutive dei ragazzi sono quelle di poter gestire contemporaneamente un libro di testo, la televisione accesa, la musica nelle cuffie, l’e-mail aperta su pc, Facebook e WhatsApp sullo smartphone, recuperando quell’immagine che ci fornisce Michele Serra in un suo delizioso racconto: “Eri sdraiato sul divano […]. Sopra la pancia tenevi appoggiato il computer acceso. Con la mano destra digitavi qualcosa sullo smartphone. La sinistra, semi-inerte, reggeva con due dita, per un lembo, un lacero testo di chimica […]. La televisione era accesa, a volume altissimo […]. Alle orecchie tenevi le cuffiette, collegate all’IPod occultato in qualche anfratto: è possibile, dunque, che tu stessi anche ascoltando musica[4]”.
Anche in questo caso, possiamo provare a interrogare ChatGPT.
DA CHATGPT:
“Determinare se si studi di più o di meno rispetto al passato dipende da vari fattori, inclusi il contesto geografico, il livello di istruzione e le metodologie di studio. Globalmente, l'accesso all'istruzione è aumentato grazie a politiche educative più inclusive e all'uso delle tecnologie. Tuttavia, la qualità e la profondità dello studio possono variare. Gli studenti di oggi potrebbero dedicare più tempo a forme diverse di apprendimento, sfruttando la tecnologia, ma ciò non sempre si traduce in un apprendimento più approfondito o critico. Il rischio di una superficialità nell'acquisizione delle conoscenze è presente, a causa della rapidità con cui le informazioni sono consumate e dimenticate”.
3. La rivoluzione tecnologica ci ha portato dentro un nuovo ecosistema e il web ha prodotto enormi cambiamenti nella società. Per capire tutto questo è importante essere in grado di decodificare, acquisire capacità critiche. Qual è l'importanza dello studio umanistico in tutto questo?
Vista la domanda specifica sulla rivoluzione tecnologica, in questo caso presento direttamente ciò che l’Intelligenza Artificiale ci propone.
DA CHATGPT:
“Lo studio umanistico gioca un ruolo cruciale nell'era digitale poiché fornisce gli strumenti per comprendere e interpretare il contesto socio-culturale in cui viviamo. Le discipline umanistiche, come la filosofia, la storia, la letteratura e le scienze sociali, insegnano a sviluppare pensiero critico, analizzare testi, comprendere i processi storici e culturali e riflettere sulle questioni etiche. Queste competenze sono fondamentali per navigare nel complesso panorama informativo odierno, aiutando a distinguere tra informazioni affidabili e manipolate, e a comprendere le implicazioni etiche e sociali delle tecnologie emergenti. Inoltre, la prospettiva umanistica favorisce l'empatia e la comprensione interculturale, essenziali in un mondo globalizzato”.
Come le risposte alle prime due domande, anche questa mette in evidenza uno degli aspetti che appartengono specificamente e unicamente all’essere umano, vale a dire l’imprescindibile necessità di sviluppare il pensiero critico. Sappiamo che il funzionamento dell’IA si avvale di una incomparabile rapidità di esecuzione nell’incrociare dati che gli esseri umani hanno depositato nel web. Evidentemente, in quanto depositari delle nostre conoscenze e delle nostreintelligenze, siamo tutti concordi nell’evidenziare l’attuale limite dell’IA nel riportare argomentazioni che abbiano a fondamento il pensiero critico (ma potremmo aggiungere anche il pensiero creativo, intuitivo, inferenziale, ecc.).
Questo breve esempio operazionale di decostruzione del significato di “Intelligenza Artificiale” è l’impegno attuale e urgente che qualunque sistema formativo deve assumersi.
Ci vengono in aiuto le riflessioni di alcuni grandi teorici che si sono occupati di “equilibri ecosistemici”, anche in relazione all’avvento prepotente e repentino delle nuove tecnologie, così necessarie e indispensabili. Gregory Bateson coglie il rischio per gli esseri umani di affidarsi totalmente alle tecnologie per realizzare i propri fini, individuando in questo una “patologia tradizionale in cui siamo imprigionati”[5] capace di mettere in crisi gli equilibri ecosistemici. Edgar Morin, mettendo in guardia l’umanità, indica che quest’ultima ha una sola strada per salvarsi dal “baratro”, vale a dire rendere “ecocompatibile” anche la propria tecnologia[6].
Dunque, è necessario sviluppare l’attitudine naturale a situare tutte le informazioni in un contesto e in un insieme affinché lo studio diventi consapevolezza circa le opportunità e i rischi di alcuni strumenti, quali ad esempio l’IA: la gestione di una (quasi) infinita mole di dati e delle loro interconnessioni risponde al principio di quantità che non deve condurre al riduzionismo interpretativo degli stessi ma rispettare congiuntamente il principio di qualità, sempre all’interno di quella logica antinomica che, pedagogicamente parlando, deve coesistere e dialogare.
Occorre insegnare metodi che permettano di cogliere le mutue relazioni e le influenze reciproche tra le parti entro un mondo complesso, occorre educare ad un sapere pertinente in cui ciascuno riconosca l’unità e la complessità dell’essere umano, “da qui la necessità di integrare in queste conoscenze l’apporto inestimabile degli studi umanistici, non soltanto quello della filosofia e della storia ma anche quello della letteratura, della poesia, dell’arte” in modo da avere consapevolezza della propria identità complessa e dell’identità che accomuna tutti gli esseri umani[7].
4. Nel suo libro "Talento e resilienza" ci parla del rapporto tra questi due concetti facendone emergere l'interdipendenza. Ci può spiegare il significato del talento, anche nel rispetto delle differenze, e del valore formativo della resilienza?
In generale, per fornire informazioni, definizioni, spiegazioni tecniche l’IA è sufficiente poiché raccoglie ciò che autorevoli studiosi, grazie alle loro ricerche, hanno scritto e pubblicato. Pertanto, per delineare i due concetti di talento e di resilienza, pur non apprezzando il tecnicismo formale, confermo nella sostanza quanto sintetizzato da ChatGPT.
DA CHATGPT:
“Il talento può essere definito come una combinazione di capacità innate e competenze sviluppate attraverso l'allenamento e l'esperienza. Riconoscere il talento implica anche riconoscere le differenze individuali, valorizzando le peculiarità e le abilità uniche di ciascuno. La resilienza, d'altra parte, è la capacità di affrontare le avversità, di adattarsi ai cambiamenti e di recuperare dalle difficoltà. Nel contesto formativo, la resilienza è essenziale perché permette agli individui di perseverare nonostante le sfide e i fallimenti, che sono inevitabili nel percorso di sviluppo del talento. L'interdipendenza tra talento e resilienza risiede nel fatto che il talento da solo non è sufficiente senza la capacità di superare gli ostacoli, e la resilienza diventa un elemento chiave per coltivare e far emergere il talento in modo sostenibile e duraturo”.
Probabilmente, paradossalmente (e lo vorrei tanto credere), l’evoluzione e la raffinatezza di IA potrebbero rappresentare un invito, un incentivo che spinge verso una maggiore attrazione nei confronti dei libri cartacei che vengono così a rappresentare un valore aggiunto rispetto a ciò che non è reperibile in rete. Nel mio libro, ad esempio, pur presentando argomentazioni specifiche relativamente al talento, alla resilienza e alle loro interconnessioni, riporto analisi di caso, prospettive interculturali, metodologie educative (ad esempio attraverso l’utilizzo dell’umorismo nei processi di apprendimento), riferimenti a vari e diversificati contesti (esempi provenienti dallo sport, dal cinema, dalla letteratura per l’infanzia…). Inoltre, da un punto di vista formale, il libro (come tutti i libri) si differenzia da una fonte mediatica per una lunghezza e una struttura delle frasi meno telegrafica e frammentata, contiene subordinate ed espressioni che aprono alla riflessione e che attivano il pensiero critico, per andare oltre la semplice descrizione dei fenomeni e cercare invece di viverli e farli vivere dal loro interno, per coinvolgere il lettore con tutto il corpo, attraverso una sensorialità che non è soltanto cognitiva ma anche emotiva, secondo gli studi sull’embodiment cognition e sulla hot cognition (integrazione forte e calda tra emozione e cognizione durante i processi di immedesimazione). Su questo ChatGPT è ancora molto molto carente e, auspicabilmente, sarà un aspetto che non potrà mai del tutto essere equiparabile.
Dunque, la volontà di credere che i libri possano rivendicare oggi una nuova identità all’interno di una nuova convivenza con i media contemporanei.
5. La passione e la motivazione per lo studio sono ancora importanti per gli studenti di oggi?
La passione e la motivazione, in qualunque campo della propria vita, rappresentano la cosiddetta “esperienza ottimale”. Questa viene unanimemente descritta come uno stato ordinato, caratterizzato da concentrazione, coinvolgimento, controllo della situazione, chiarezza di obiettivi, stato affettivo positivo e motivazione intrinseca ed è la risultante di un complesso equilibrio tra le componenti cognitive, emotive e motivazionali del sistema psichico. L’esperienza ottimale è caratterizzata dalla percezione di livelli di sfide, opportunità e abilità bilanciati tra loro ma al tempo stesso elevati, comportamenti che richiedono impegno e sforzo ma con la consapevolezza di possedere le capacità necessarie per raggiungere lo scopo. In virtù della positività e della gratificazione che ne conseguono, gli individui tendono a replicare e a coltivare selettivamente le attività associate. Si tratta dunque di un’esperienza estremamente gratificante che si inserisce all’interno del cosiddetto “flusso di coscienza” (flow)[8], uno stato che presuppone passione e creatività, il pieno coinvolgimento delle migliori abilità della persona, la sua attenzione totale, la chiarezza della meta da raggiungere, un ottimale senso di controllo, il corpo e la mente impegnati al limite, in un coinvolgimento totale al punto che nient’altro importa in quel momento.
È molto importante studiare più a fondo la natura e le caratteristiche del “piacere” per ricondurlo legittimamente all’interno dei contesti di apprendimento. Nello specifico, il piacere provato durante lo studio alimenta la motivazione e questa a sua volta ha ricadute positive sull’acquisizione, la memorizzazione, la rielaborazione degli apprendimenti secondo un circolo virtuoso dinamico che tende ad autoalimentarsi. La motivazione trova infatti la sua radice nel motus, nel movimento, nella spinta ad agire, questo comporta uno stato di tensione, di energia e anche di disagio, riferito ad un conflitto da risolvere.
Per gli studenti di oggi, più che mai, la passione e la motivazione sono importanti affinché quel movimento, quella tensione, quella spinta ad agire non siano assorbiti totalmente dalle nuove tecnologie che allenano al dinamismo rapido e all’abbattimento dei riferimenti spaziali e temporali ma che impongono congiuntamente una sorta di staticità fisica-corporea estrema. Secondo un’immagine che ci rimanda Alessandro Baricco, i ragazzi oggi “sono velocissimi nel movimento intellettuale e sono di rado capaci di comprendere cose che sono ferme: non le vedono”[9].
Mantenere viva la passione per l’apprendimento è l’impegno congiunto che devono portare avanti le famiglie, gli educatori, gli insegnanti, le istituzioni in generale, per creare ambienti stimolanti, relazioni positive, condizioni di benessere sistemico che incoraggino la curiosità e lo stupore, a tutte le età. I ragazzi di oggi continuano ad avere bisogno di genitori, di familiari, di educatori, di maestri, di mentori, di amici, che si configurino come “tutori di resilienza” – a tutela della loro crescita e della libera espressione dei loro talenti – così come lo è stato e lo sarà per ogni generazione.
Riferimenti bibliografici:
[1] J. Dewey, Democrazia ed educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1994.
[2] F. Cambi, Manuale di filosofia dell’educazione, Laterza, Bari, 2000.
[3] E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Cortina, Milano 2000.
[4] M. Serra, Gli sdraiati, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 50.
[5] Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1993, p. 466.
[6] Morin E., Sette lezioni sul pensiero globale, Raffaello Cortina, Milano, 2016.
[7] Morin E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano, 2001, p. 48.
[8] M. Csikszentmihalyi, Flow: The Psychology of Optimal Experience, Harper Perennial, New York, 1990.
[9] A. Baricco, The game, Einaudi, Torino, 2018, p. 219.