Informazione e informatica

Beni comuni in un mondo che cambia 

Intervista a Michele Mezza

a cura di Monica Pierulivo

L’informazione è un bene comune prezioso, perché il diritto a essere informati è fondamentale per difendere il diritto di ognuno a decidere consapevolmente.  A questo riguardo quanto è importante il servizio pubblico radiotelevisivo per garantire questo diritto e a cosa serve oggi la Rai?
 
La questione del servizio pubblico oggi è molto delicata, da una parte perché risulta essere un servizio ormai molto logorato, dall’altra perché rappresenta una storia che va avanti da troppo tempo in maniera ripetitiva e tradizionale. Oggi siamo in una fase di trapasso radicale del sistema dell’informazione e ovviamente il servizio pubblico deve cambiare la sua missione. Nel 2027 verrà rinnovata la convenzione tra lo Stato e la Rai per l’affidamento del servizio, per cui questa domanda “a che serve la Rai?” è centrale, istituzionale e il paese se la dovrebbe porre per capire che tipo di Rai immaginare.
Oggi l’azienda così com’è serve a poco, nel senso che, per la sua architettura organizzativa e per la sua logica professionale, risponde a una missione di almeno quarant’ anni fa, in cui il tema riguardava il pluralismo politico, sociale e culturale e la Rai era effettivamente una fabbrica di pluralismo. A quel tempo tutte le polemiche erano legate a capire chi parlava di più, chi parlava di meno chi era emarginato, chi era dominante ecc. Questo perché eravamo in una fase di stabilità del sistema televisivo, con il solo monopolio Rai; poi, come ben sappiamo, in questo paese è arrivato un signore che si è messo a fare la televisione anche in barba alle leggi, e sono arrivate le televisioni private.
La Rai ha dovuto pertanto aggiornare il suo sistema di legittimazione, da monopolio in qualche modo efficiente, a una delle componenti del sistema televisivo, quella più “pluralista”.
Oggi siamo in una situazione radicalmente cambiata, tutto può essere riassunto in uno slogan: siamo passati dalla Tv di massa, alla massa dei sistemi di comunicazione per cui possiamo dire che ogni singolo utente è di per sé un canale, un media e un produttore prima di essere un utente di comunicazione. Infine sono arrivate le piattaforme digitali, con i loro grandi proprietari che stanno riorganizzando completamente il sistema della comunicazione, di cui la televisione è sempre più una componente marginale o comunque molto parziale.
Alla domanda quindi a “cosa serve oggi la Rai?”, la risposta dovrebbe essere assicurare a questo paese almeno una struttura, un apparato, una competenza in grado di essere autonoma nella transizione al digitale, cioè di essere autonoma nella selezione e applicazione dei sistemi digitali nuovi, a partire dall’uso degli algoritmi, dell’intelligenza artificiale, dei nuovi modelli che personalizzano l’informazione, a partire soprattutto dai dati.
La Rai dovrebbe essere almeno un sistema nazionale in grado di raccogliere ed elaborare in trasparenza i dati, che invece vengono privatizzati dalle grandi piattaforme. La nuova missione importantissima dovrebbe essere pertanto quella di assicurare al paese una potenza tecnologica e professionale in grado di essere autonoma nella transizione dalla televisione generalista a quella digitale. Una Rai che diventa una grande azienda, una fabbrica di linguaggi e non più solo di pluralismi, che assicura la sicurezza del paese in un clima di grandi conflitti, in cui l’informazione diventa un’arma con cui i paesi si combattono.
Siamo di fronte a un passaggio epocale che riguarda tutti gli aspetti della filiera produttiva dell’informazione.
 
I partiti politici che per anni hanno lottizzato il servizio pubblico adesso che ruolo hanno?
 
Mantengono questa logica predatoria come hanno sempre fatto, però l’oggetto che viene predato conta molto meno. Ormai sappiamo che la Rai ha una capacità d’influenza di orientamento, di selezione dei temi, delle parole d’ordine, delle notizie molto più ridotta, e soprattutto concentrata in fasce anagrafiche molto avanzate. Orma il pubblico giovane è sempre meno presente sui canali Rai che ormai sono diventati delle comunità terapeutiche per anziani solitari. L’azienda viene sempre occupata politicamente, ma con effetti sempre più marginali.
 
C’è consapevolezza dei cambiamenti che è necessario affrontare?
 
C’è la consapevolezza ma non l’intenzione. Per avviare un processo di cambiamento del genere bisogna mettere in discussione tutti i primati e tutte le prerogative che sono state garantite, e questo riguarda anche i nostri colleghi giornalisti, che, di fronte ai processi che ormai da trent’anni stanno riorganizzando selvaggiamente il mercato dell’informazione, dovrebbero smetterla di rimpiangere con nostalgia il buon tempo andato, perché ormai è andato, per cui bisogna atteggiarsi a un mondo nuovo. Consideriamo poi che anche il sistema degli apparati, della corporazione della Rai, ha poca intenzione di mettere in discussione le posizioni conquistate; la politica da parte sua ha poco interesse a entrare in un campo in cui contano i saperi e le competenze più del potere politico, per cui siamo in una situazione in cui, per quanto si pensi di dover innovare, questa cosa non viene avviata. Ormai è da vent’anni che noto questo. La cultura digitale ha ormai cinquant’anni, mezzo secolo. Noi parliamo di new media in maniera del tutto pleonastica perché di new questi media non hanno più nulla. Siamo in una situazione di completa asimmetria tra quello che si dovrebbe fare e quello che invece si continua a fare.
 
E in Europa?
 
Ovviamente si tratta una questione che riguarda il mondo e non solo l’Italia. Il dato vero è che è cambiata la geometria di produzione dell’informazione. Prima l’informazione era basata su un sistema che non a caso si chiamava mediatico perché presupponeva una mediazione professionale, industriale da parte di pochi esperti verso molti utenti. Oggi gli utenti sono diventati produttori tramite la rete, i social e soprattutto, non sono le tecnologie che cambiano la realtà dell’informazione, ma è l’ambizione delle persone, il modo in cui s’intende vivere a farlo. Ormai viviamo producendo e scambiando informazione e questo cambia l’intero apparato, a cominciare dal ruolo dei giornalisti, dal ruolo degli apparati industriali, dei sistemi televisivi, dei gruppi editoriali ecc. Per capire quale sia la situazione della carta stampata ad esempio, basta tenere presente che oggi vendiamo lo stesso numero di copie di quotidiani del 1919. Il mondo è profondamente cambiato e, nonostante questo, non si vuole cedere il proprio primato, si cerca di resistere fino alla fine. La crisi dell’impero romano è stata così. I Romani capivano che il loro impero stava cadendo a pezzi, ma pensavano che i problemi potessero essere affrontati da coloro che sarebbero venuti dopo.

Parliamo di libertà di stampa. C’è un sito,  Ossigeno per l’informazione, gestito dall’associazione omonima, che documenta e monitora le intimidazioni e le minacce nei confronti dei giornalisti italiani. Qual è la situazione in merito a questo tema nel nostro paese?
 
Anche qui il quadro è molto cambiato. Ovviamente non dobbiamo sottovalutare tutti gli episodi che vengono denunciati ma oggi non possiamo dire che ci sia meno opportunità di libertà di stampa rispetto a ieri. Oggi abbiamo una capacità e una potenza di produzione dell’informazione che è enormemente superiore rispetto al passato e una capacità di censura e di inibizione da parte dei poteri che è enormemente inferiore a quello degli anni ’60, ‘70, ‘80 e ‘90. Ma le criticità ci sono. Intanto è cambiata la qualità dell’informazione; da una parte abbiamo infatti un’abbondanza di notizie che tende ad annegare i grandi filoni giornalistici, dall’altra esiste una censura che agisce più sui linguaggi che sui contenuti e della quale sono responsabili i grandi proprietari degli enormi sistemi linguistici, come Google, Facebook, OpenAI, che mettono in atto processi importanti di omologazione e d’inibizione. Il problema è che tendiamo a non occuparci adeguatamente di queste cose. Anche i colleghi di “Ossigeno” sono molto bravi a monitorare e analizzare la censura tradizionale ma poi manca un “Ossigeno digitale” che si occupi di come le piattaforme inquinino e avvelenino il sistema dell’informazione.  Non si tiene sufficientemente conto del ruolo decisivo dei dati, in particolare della loro privatizzazione e del loro uso strumentale. Questo è il punto fondamentale che tendiamo a ignorare e che sta diventando sempre più stringente.

L’utilizzo dei dati, con tutti i rischi collegati, è una questione che hai affrontato in particolare negli ultimi libri. Con “Algoritmi di libertà. La potenza del calcolo tra dominio e conflitto”, parli di rischi concreti legati al controllo sociale e all’omologazione del pensiero.
 
Questo è il nuovo orizzonte che abbiamo davanti, la nuova frontiera. Abbiamo circa 4 miliardi di individui che si emancipano dai limiti della vecchia informazione tradizionale mediante sistemi che a loro volta presentano una strettoia legata a proprietà molto autoritarie. Vediamo cosa sta facendo Elon Musk a fianco di Trump, cosa avviene con i social tipo Tik Tok, quello che s’intravede con Cambridge Analytica mediante Facebook. Siamo alla mercè di pochi monopolisti che sono in grado di condizionare il modo stesso in cui impariamo a parlare, e questo è un buco nero che dobbiamo affrontare a tutti i costi.

Che cosa si sta facendo per arginare questi pericoli?
 
L’UE ha cominciato a regolamentare l’uso dei dati nell’ottica della trasparenza e della negoziabilità. Quello che manca è la consapevolezza e la capacità di contrapporsi a questi poteri, in particolare da parte di quelle categorie che hanno un ruolo fondamentale nell’applicazione di queste tecniche, pensiamo appunto ai giornalisti, ai medici, alla sanità, agli avvocati e ai giudici, alla Pubblica Amministrazione. Sono tutti settori che vengono automatizzati e che delegano al fornitore di tecnologie quei principi, quei valori, quell’etica che invece dovrebbe essere patrimonio dell’utente.
 
C’è quindi un’inadeguatezza da parte di chi dovrebbe mediare e veicolare i dati?
 
C’è un grande ritardo. Per molto tempo abbiamo ignorato, esorcizzato, finto di non vedere quanto stava accadendo sotto i nostri occhi. Il fatto che si stavano creando potentati globali, transnazionali, che addirittura prevalevano sull’autorità degli Stati interi, ha prodotto uno squilibrio enorme, a tal punto che adesso è impellente ricostruire un patto sociale, un modello di convivenza capace di contenere e civilizzare questi poteri globali.

Infine una domanda sul tuo ultimo libro “Connessi a morte. Guerra, media e democrazia nella società della cybersecurity”, Donzelli editore. Oltre ai temi di cui abbiamo discusso, nel libro si parla del nuovo ruolo della guerra, che tende a occupare lo spazio della pace, interferendo con il sistema di interconnettività.
 
In questo libro provo a ragionare sul fenomeno della guerra ibrida, quel meccanismo per cui l’intero armamentario organizzativo e professionale del giornalismo diventa un arsenale di combattimento, in cui il flusso delle notizie è una vera e propria arma. È la guerra che diventa un modo per fare informazione, un modello per combattere, una tecnica per sconfiggere l’avversario, cioè la capacità d’interferire sul senso comune del paese avversario. Le armi con cui viene condotta la guerra coincidono infatti con le infrastrutture digitali dell’informazione: siti web, smartphone, droni, sistemi di geolocalizzazione, piattaforme social costituiscono un arsenale fondamentale del confronto fra invasori e invasi, permettendo di localizzare e colpire con estrema precisione le forze nemiche, anche grazie al supporto diretto della popolazione che rimane connessa, persino sotto i bombardamenti. E questo cambia il nostro statuto di giornalisti perché se l’informazione diventa il terreno di battaglia, è evidente che il giornalismo diventa uno strumento della logistica militare, cioè non rappresenta più una funzione della libertà ma diventa una funzione della sicurezza del paese. Quando parlavamo del servizio pubblico, dicevamo che la nuova missione è quella di garantire in un paese la sua capacità di organizzare autonomamente la propria informazione, senza l’inquinamento di hacker o l’intrusione di gruppi esterni. Ecco noi siamo ormai in piena guerra ibrida che non finirà mai perché anche quando dovesse fermarsi la guerra tradizionale, speriamo il prima possibile, rimarrà questa come impostazione fondamentale. Noi giornalisti dobbiamo cambiare capacità di stare in campo; l’ultima considerazione che faccio nel libro è che proprio perché questa guerra ibrida è condotta con le tecnologie dell’informatica, il giornalismo oggi deve combinare la sua cultura professionale con l’informatica. Informazione e informatica devono ricomporsi e diventare un’unica capacità di organizzare i contenuti, di riconoscere le tecnologie, di identificare le fonti autentiche da quelle falsificate, di scongiurare i rischi maggiori. Questo è oggi il vero cambiamento a cui sono chiamati i giornalisti.