Demografia, giovani generazioni e scenari futuri

Intervista a Chiara Daniela Pronzato


di Benedetta Celati 

La transizione demografica, nei Paesi europei e nelle altre economie avanzate, ha portato a un progressivo invecchiamento della popolazione, a fronte di un livello sempre più elevato di denatalità. Eppure, le generazioni future sono, oggi, le protagoniste indiscusse delle agende politiche nazionali, europee – emblematico è in tal senso il piano di ripresa “Next Generation Eu” – e internazionali. 

Gli studi demografici rivestono, dunque, un’importanza sempre più cruciale per la costruzione di politiche e interventi rivolti al futuro (“a prova di futuro” secondo il linguaggio delle Istituzioni europee). Come sottolinea la Professoressa Chiara Daniela Pronzato, che insegna Demografia, Economia e Statistica nell’Università di Torino «La diminuzione demografica in sé non costituisce un problema, quello che conta è la relazione tra le generazioni. Occorre soprattutto considerare il c.d. indice di dipendenza, indicatore con il quale si misura il rapporto tra la parte giovane della popolazione, che va ancora a scuola, quella anziana, che non può più partecipare alla produzione di beni e servizi e la parte “adulta”, che deve, invece, prendersi cura delle prime due. Tale indicatore, che calcola il numero degli individui in età non attiva ogni 100 in età attiva, ci mostra evidenze alquanto preoccupanti: se, nel 2021, per l’Italia erano 57 le persone di cui, ogni 100 adulti, era necessario prendersi cura, nelle prospettive future, il numero sale a 73 (di cui solo 29 sarebbero i giovani). Essere consapevoli di un simile scenario è essenziale per realizzare interventi di policy adeguati alle esigenze della società. Dobbiamo considerare che le scelte di fecondità pregresse condizionano, inevitabilmente, il presente e il futuro: anche se riprendessimo a fare figli, le potenziali mamme sarebbero comunque molte meno rispetto al passato. Meno figli messi al mondo corrispondono a meno adulti che si trovano nella condizione di dover produrre per tutti. Un indice di dipendenza sempre più elevato significa, infatti, una popolazione attiva sempre più ridotta, sulla quale peserà, di conseguenza, l’onere di contribuire alla produzione di un maggior benessere per la parte non attiva. È necessario, quindi, riflettere sulle conseguenze dei cambiamenti demografici, perché, altrimenti, il rischio è di andare incontro alla catastrofe. Per essere ancora più chiari, si tratta di una questione di interesse collettivo. La diminuzione della forza lavoro e della sua capacità produttiva comporta l’aumento del costo dei beni e servizi. Dobbiamo iniziare oggi a preparare chi sarà adulto domani per evitare che vi sia un impoverimento generale della popolazione, il cui benessere è in qualche in modo in pericolo a fronte di queste evidenze. Al di là della sostenibilità del sistema contributivo, vi è, infatti, un tema ancora più concreto e stringente: se lavorano sempre meno persone, i costi sono destinati ad aumentare». 

 

Nei Paesi ad alto reddito, la contrazione demografica colpisce soprattutto le fasce più giovani della popolazione. Viene in rilievo naturalmente il problema della riduzione della natalità, a riguardo del quale si possono proporre molti interventi (si sta parlando in questi giorni della creazione di un Ministero della natalità). Vi sono, però, anche altri aspetti che possono essere presi in considerazione con riferimento al tema dell’equilibrio tra generazioni. Basti pensare al ruolo che può avere l’istruzione nel garantire un benessere sempre più diffuso o alla necessità di offrire maggiori opportunità a quella parte della popolazione che ne ha meno (i giovani e le donne, il cui capitale umano non risulta valorizzato). Su quali fronti occorre prioritariamente agire per migliorare la situazione, secondo lei? 


Il lavoro delle donne e dei giovani è determinante. Non si può espungere da questa riflessione la questione di genere. Se le indicazioni sono che è necessario fare più figli e lavorare di più, ossia aumentare i livelli di produttività a parità di ore lavorate, un tale sforzo non può essere allocato tutto sulle spalle del genere femminile. Il riequilibrio tra le generazioni, secondo me, deve partire dalle famiglie, piuttosto che dal mercato del lavoro. Gli incentivi devono, quindi, essere rivolti alle famiglie, per indurle a comportarsi in una certa maniera. Se le politiche sono forti ed efficaci sarà possibile, infatti, incidere anche sui modelli culturali, che devono necessariamente cambiare. Il fatto che sulle donne ricadono troppe aspettative deve essere affrontato come una vera e propria questione sociale. Un esempio di intervento che si muove nella direzione indicata è quello dell’istituzione del congedo genitoriale paritario di cinque mesi sia per la madre sia per il padre, retribuito all’ottanta per cento dello stipendio. Misure di questo tipo, infatti, consentirebbero di superare l’endemico stato di subalternità delle donne rispetto agli uomini nel mercato del lavoro. Certamente anche Il ruolo della scuola è fondamentale, soprattutto alla luce di quanto rimarcato poc’anzi. Occorre formare i giovani, che sono sempre meno, per il lavoro di cui ci sarà bisogno. Gli anziani della società che ci attende necessiteranno di molti beni e servizi. Pertanto, in un’ottica di mercato, la domanda sarà elevata e il problema semmai verrà costituito dall’offerta. Ciò vale in particolare nei settori nei quali non è possibile ragionare in termini di aumento della produttività, come i servizi e il turismo, che prevedono l’impiego di molto capitale umano (diversamente dai lavori legati allo sviluppo delle tecnologie). 

Tornando alle questioni strettamente demografiche, possiamo osservare che l’aumento dei tassi di fecondità rappresenta un miglioramento ma non la soluzione, proprio perché, come già evidenziato, non si potrà cambiare drasticamente la direzione essendovi, in termini numerici, molte meno donne in età fertile. Perciò dirimenti diventano le politiche che aiutano le famiglie a fare figli, soprattutto se consideriamo che, in tantissime indagini sulla fecondità, le coppie e i singoli dicono di volere due figli, poi però ne fanno solo uno. Bisogna lavorare su chi vuole i figli e non li riesce a fare perché i costi sono alti e i servizi non ci sono. Iniziamo dall’aiutare chi non ha la possibilità di realizzare ciò che desidera, piuttosto che dal creare le condizioni per “obbligare” le persone a fare qualcosa che non vogliono fare. 

Vi è poi un altro dato molto interessante. I grafici dimostrano che, nel 1970, nei Paesi nei quali si facevano pochi figli le donne lavoravano molto. Dagli anni duemila si è ribaltato tutto: i Paesi dove le donne lavorano di più sono diventati anche quelli dove si fanno più figli. L’equazione in realtà è semplice. Per avere un secondo figlio è necessario sostenere costi e avere a disposizione molti servizi. Pertanto, il lavoro della donna, se ci sono politiche in grado di supportare le famiglie, è un incoraggiamento a fare figli, perché implica la possibilità di avere maggiori disponibilità economiche, attraverso un ulteriore stipendio. 

 
Nel terzo grafico vediamo la situazione a livello regionale italiano. Le Regioni italiane nelle quali le donne lavorano di più sono anche quelle dove si fanno più figli. Questa corrispondenza perfetta con il quadro internazionale si interrompe, però, in alcune Regioni, nelle quali, a fronte di una bassa occupazione femminile, vi sono elevati tassi di fecondità. 

Come si può far sì che la “longevità” della popolazione diventi una opportunità?

L’allungamento dell’età lavorativa è inevitabile. Occorre pertanto immaginare forme di part time per le persone più anziane e di trasmissione tra le generazioni (lasciando a chi è più giovane le mansioni che richiedono continui aggiornamenti sul piano delle tecnologie avanzate). Anche nei servizi alle famiglie, possono essere coinvolte il più possibile tutte le generazioni. Una leggenda che occorre smentire, però, è quella secondo cui mandare le persone in pensione creerebbe automaticamente lavoro. Invece, bisogna sottolinearlo, non c’è alcun effetto causale. Nessun paper scientifico attesta, infatti, una simile correlazione, perché il lavoro dipende dalla domanda di beni e servizi.
Pensa che stimolare l’accoglienza dei migranti possa rappresentare una prospettiva per intervenire sulla crisi demografica del nostro Paese?
Dal punto di vista scientifico, l’aumento della presenza straniera è considerato un obiettivo. Molti studi dimostrano, infatti, che i benefici dell’immigrazione sono superiori ai costi. Tuttavia, è necessario separare il tema del lavoro da quello dell’integrazione, che richiede altre riflessioni e specifici interventi. Purtroppo, si tende facilmente a fare confusione dando luogo, anche in questo contesto, ad equivoci e a “falsi miti” che occorre sfatare. Senza immigrati, nel nostro Paese i prezzi sarebbero più alti per tutti. Gli immigrati, infatti, si offrono di più al mercato del lavoro, a parità di caratteristiche, ed hanno tassi di fecondità più elevati dei nostri. Le ricerche, inoltre, mettono in evidenza che dove ci sono più immigrati c’è più lavoro. Non si tratta di una correlazione bensì di una causalità: non è il lavoro che crea le condizioni per attrarre maggiore presenza straniera ma il contrario. Dove ci sono più immigrati il nativo italiano lavora di più e guadagna di più, perché la presenza di persone disposte a lavorare facilita la costruzione di un ecosistema favorevole per tutti. Non c’è concorrenza tra italiani e stranieri. L’unica concorrenza, semmai, è riscontrabile in ambito accademico, per i professori universitari, ma si tratta solo di un dato positivo!