Nautilus n. 48 - giugno 2025
Il lavoro artigiano secondo Richard Sennett
di Marco Giovagnoli
In un suo straordinario lavoro del 2008, The Craftsman, pubblicato nel 2013 in Italia come L’uomo artigiano, Richard Sennett, allievo (non ortodosso) di Hannah Arendt, prende le mosse proprio da una critica alla sua Maestra, la quale sosteneva che le solitamente le persone che fabbricano cose non capiscono quello che fanno (il riferimento primo erano per la gli esiti del Progetto Manhattan e la tragedia dell’arma atomica). Ma, ovviamente, questa dissociazione tra il fare e gli esiti del fare stesso appare in tutta la sua drammaticità nel processo ad Eichmann, dal quale emerge chiaramente che la banalità del male risiede proprio nell’ossessione nel far sì che una cosa funzioni, che il proprio lavoro venga portato a termine senza interrogarsi prima sulle sue finalità. Nei termini del ragionamento di Arendt questo è il profilo dell’animal laborans, l’essere umano dedito alla fatica routinaria, per il quale il mondo rappresenta un fine in sé; il suo opposto (e sottoposto) è l’homo faber, giudice del lavoro e delle pratiche materiali, colui che si interroga sul ‘perché’, mentre l’animal laborans concentra la sua attenzione sul ‘come’. L’ossessione per il “come” esclude l’idea di pensiero, di riflessione, che si palesano solo a lavoro compiuto e quando le conseguenze dell’azione si sono sovente del tutto tragicamente dispiegate.
Nautilus n. 47 - maggio 2025
Forte come l'amore è la guerra
di Patrizia Lessi
C'è un passaggio in The Hurt Locker, film con cui nel 2010 Kathryn Bigelow è stata la prima donna a vincere l'Oscar come miglior regista, in cui il sergente James, reduce da una lunga permanenza in Iraq e tornato a casa dalla moglie e dal figlio di pochi mesi, gira disorientato fra i reparti di un supermercato, bisognoso di indicazioni precise su dove andare e cosa prendere, impermeabile alle lusinghe di un lunghissimo corridoio pieno ai lati di marche di cereali. Confuso da quella rassicurante abbondanza ne prende uno totalmente a caso e lo butta nel carrello. In questo come in altri momenti cruciali del film, il protagonista, valoroso artificiere che con la sua squadra ha quotidianamente sfiorato la morte, pianto compagni, fatto scelte eroiche e provato affetto per un bambino dell'indifesa popolazione civile iraqena, tornato in America perde non solo i punti di riferimento, ma ciò che lo rende profondamente se stesso. L'autentico James sembra essere rimasto nel luogo che pur nella violenza e nel sangue è ormai irreversibilmente divenuto casa sua.
Nautilus n. 47 - maggio 2025
La guerra è un atto contrario alla ragione umana e a tutta la ragione umana
(L. Tolstoj)
di Marica Notte
L’idea dell’uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo[1].
Nel dibattito filosofico, la differenza tra uomo e animale è stata sempre determinata dal concetto di razionalità (ratio), cioè di lógos (λόγος), perché tale facoltà attribuisce un preciso valore ontologico e sociale discriminante. Nella Politica, Aristotele definisce l’uomo come animale razionale perché «[...] l’uomo è zoon logon echon, ossia animale avente il logos ed evidentemente qui il logos riferito all’uomo è la parola. Dopo aver ribadito che l’uomo è animale politico, il filosofo distingue la phoné, ossia la voce, che è data anche agli altri animali, dal logos, che costituisce il proprio dell’uomo, l’unico ad avere coscienza del bene e del male».[2]
Nautilus n. 46 - aprile 2025
La relazione ontologica dell’uomo con lo spazio (pubblico)
di Marica Notte
Tutti sappiamo sensorialmente che cosa sia lo spazio perché possiamo percepirlo. Quello che non potremmo mai sapere è che cosa sia lo spazio in sé, perché, come ricorda Kant, è una forma a priori, cioè un’intuizione pura trascendentale. Dello spazio, dunque, possiamo farne esperienza perché instauriamo una relazione primariamente corporea con esso. Questo perché abbiamo un rapporto connaturato e simbiotico con lo spazio, in quanto sul piano della realtà fisica noioccupiamo quella dimensione di apertura che ne definisce il significato (dal lat. spatium, forse derivazione di patēre, ossia "essere aperto"). Siamo nello spazio, noi stessi siamo spazio, siamo cioè sostanza estesa, siamo grandezza e misura, e questa nostra essenza rende proprio il nostro essere spaziale, cioè aperto alla relazione. Per esplicitare meglio questo passaggio possiamo dire, grazie alle parole di Le Corbusier, che la prima prova che noi esistiamo è data dal fatto che occupiamo uno spazio. Occupiamo nel senso che lo abitiamo. Abitare (dal lat. habitare, deriva da habeo, "avere") è l’essenza ontologica del nostro io.
Nautilus n. 44 -febbraio 2025
Giocare è conoscere
di Marica Notte
L’esperienza che più si lega all’infanzia è quella del gioco. Il gioco, potremmo dire, è una fonte della conoscenza umana, al pari della sensazione e dell’intelletto che, secondo il filosofo John Locke, garantiscono validità al processo conoscitivo in sé. L’essere umano, per formulare le idee, si mette in relazione al mondo esterno primariamente attraverso i sensi, e trasforma poi il percepito in contenuti mentali attraverso il senso interno, la ragione. La conoscenza deriva dall’apprendimento che il soggetto instaura con l’ambiente. Per questo possiamo pensare che il gioco, per un bambino, abbia una funzione esperienziale fondamentale affinché possa sperimentare se stesso nel mondo e il mondo stesso. Il filosofo naturalista tedesco Karl Groos studiò le funzioni evolutive del gioco da un punto di vista comparativo e notò che gli esseri umani sono la specie che gioca di più rispetto alle altre, perché ha molte più cose da imparare, conoscere e trasmettere.
Filiera etica della salute
Nella nostra realtà contemporanea le parole non sempre vengono interpretate nel loro reale significato. Troppo spesso vengono usate o, meglio abusate, per significare interpretazioni soggettive, creando una confusione comunicativa che apre la porta ad incompatibilità di dialogo.
Per evitare ciò mi permetto una scomposizione interpretativa del titolo di quanto andrò ad esplicitare.
Innanzitutto, il termine Etica che rappresenta un “Sapere ben definito”, che non è innato, ma si acquisisce nel corso della vita, e che si interroga su cosa è più giusto fare per non crearsi un danno.
Quindi non un sapere soggettivo costruito a proprio piacimento ma una esperienza oggettiva in grado di rispondere e discernere tra ciò che ci fa bene e ciò che ci fa male.
È il fondamento del cibo come valore etico in quanto custode di una potenzialità intrinseca di bene e di male, e di conseguenza proattivo di salute e di malattia.
Filosofia? Roba da bambini!
Nel recente Come non insegnare filosofia Massimo Mugnai, docente per molti anni di Storia della logica a Pisa, racconta l’esperienza di selezione scritta e orale per l’ingresso nella classe di Lettere, indirizzo in Filosofia, alla Scuola Normale Superiore di Pisa:
“Su 120-140 compiti, quelli accettabili, negli anni dal 2002 al 2012, erano di solito non più di 12-15; meno ancora dal 2012 al 2017, anno del mio pensionamento [...]. I candidati, nella stragrande maggioranza, riassumevano in maniera stringata e piatta il manuale, per cui era difficile stabilire se avessero davvero interesse per la materia, se fossero in grado di argomentare e se avessero capacità filosofiche [...]. Quasi nessuno dei candidati era in grado di presentare e commentare un testo [...]. I candidati che prendevano voti bassi (dal 2 al 4 per intendersi) alla povertà intellettuale univano incertezza sintattica e sgrammaticature. Frequente “un” senza apostrofo seguito da sostantivo femminile iniziante con vocale; “accellerare” invece di “accelerare”, “fatisciente” per “fatiscente” ecc. Nella maggioranza dei casi si trattava di compitini striminziti di tre, talvolta due mezze facciate di fogli a protocollo, buttati giù nel totale delle sei ore messe a disposizione dalla SNS.”