Il mondo a tavola

Il Laboratorio di Antropologia del Cibo di Milano

Intervista a Giulia Ubaldi

di Monica Pierulivo

 
Siamo nel cuore del Giambellino, un luogo aperto e multiculturale, quartiere storico del Cerutti Gino di Giorgio Gaber, dove le storie da raccontare sono molte, di tutti i tipi, positive e negative, ma comunque piene di colori e di tanta vita.
È qui che, appena tre mesi fa, è nato il LAC (Laboratorio di Antropologia del Cibo), ideato e realizzato da Giulia Ubaldi, antropologa laureatasi all’Università di Siena con una tesi sulla “politica del velo” che a un certo punto della sua vita e dopo diverse esperienze in giro per l’Italia, soprattutto al Sud, ha deciso di creare nel suo quartiere uno spazio dedicato al cibo come cultura e incontro e alla cucina come condivisione e partecipazione.
140 mq costruiti intorno alla cucina dal design unico, firmato Riccardo Barthel.
Si tratta di un’esperienza unica, per le modalità in cui è concepita e gestita, e soprattutto un’esperienza che considera il cibo e l’alimentazione come strumento per unire, proprio partendo dalle differenze e preservandole.

Giulia, puoi spiegarci che cos’è l’antropologia del cibo e come si collega al LAC?
Il Laboratorio è un punto di arrivo di un percorso di elaborazione, di studio e di esperienze concrete che mi hanno all' antropologia del cibo.
Non nasco infatti come esperta di alimentazione. Dopo la laurea in antropologia mi sono occupata di agricoltura, un settore comunque affine per certi versi, lavorando nel Cilento in alcune aziende agricole, fino a quando non ho aperto una mia azienda a Caselle in Pittari.
L’agricoltura non era l’unico campo di cui mi sono occupata perché mi piaceva anche l’arredamento, soprattutto nella ristorazione. Dal filone della campagna e poi dell’arredamento per la ristorazione, mi sono avvicinata molto al cibo. Ho fatto un corso di enogastronomia e poi, dopo aver trascorso quattro anni nel Cilento, sono tornata di nuovo nella mia città, Milano.
Qui mi sono dedicata al giornalismo scrivendo per diverse testate (La Cucina Italiana, il Giornale del Cibo, Scatti di Gusto, Vaniy Fair) che è stato però soprattutto un modo  per raccontare quello che avevo vissuto, per dare vita alle storie delle molte persone con le quali ero venuta a contatto negli anni precedenti.
In questa fase è nata la mia prima pubblicazione “Cento Volte Mezzogiorno”, il racconto di tutti i paesi attraversati e vissuti.
Cento paesi di tutta l’area che avevo visitato raccontati attraverso i diversi punti di vista delle molte persone incontrate.
Il libro è stato poi pubblicato in 10 puntate su “Vanity Fair”.
Da qui ho cominciato a pensare alla possibilità di applicare la mia vocazione antropologica al mondo del cibo, partendo dal punto di vista degli altri con un approccio emico, come si dice in antropologia, che considera la cultura dall'interno, cercando di porsi dal punto di vista dei suoi membri e di comprendere in che modo essi danno senso alla realtà, concentrandosi sugli elementi di unicità della cultura stessa.
Il cibo è un ottimo punto di partenza per conoscere gli altri e per tenere memoria delle tracce e dei cambiamenti impressi dall’uomo.
Questo è il metodo che mi ha sempre ispirato e che ho seguito anche in questo caso. Esistono tanti tipi di cucina, quella filippina, messicana, indiana ecc. Per me è importante non la cucina in sé, ma lo studio di tutti i percorsi gastronomici in relazione a qualcuno. La cucina etnica non esiste per me, esiste la possibilità di attraversare le contaminazioni che si incontrano attraverso le esperienze personali.
L’interesse per il cibo è pertanto un fatto sociale e una questione emozionale allo stesso tempo, ed è nato in questi termini negli anni di ricerca trascorsi in Cilento.
Ho capito attraverso lo studio e le mie ricerche perché in Val d’Aosta si coltivano le cipolle di Tropea e i peperoncini, a Lungro in Calabria consumano più mate che in Argentina e ad Ardesio, vicino Bergamo si beve Pastis. Rispondere a queste domande e osservare questi cambiamenti è il lavoro che svolgo come antropologa del cibo per capire come le culture cambino e si modifichino nel tempo, seguendo i movimenti delle persone.
Il cibo per me è quindi uno strumento per vedere cosa c’è dietro, partire dal cibo per parlare di altro, farci rendere conto che alla fine siamo tutti più vicini di quel che crediamo, restituire un’idea della complessità culturale del mondo attuale, le sue contaminazioni, le sue ibridazioni, che sono poi la più grande ricchezza che le migrazioni e in generale i movimenti dell’uomo ci hanno dato e continuano darci, a partire dalla tavola.
Mi sono quindi trovata a esplorare un universo, per cui ho scritto e ho fatto l’antropologa intrecciando le storie tra persone e cibo.
 
Il cibo come strumento per portare avanti un lavoro culturale e per suscitare emozioni. Come si traduce tutto questo nelle attività concrete del Laboratorio?
Il progetto del Laboratorio è nato anche quando sono venuta in contatto con l'esperienza di Migrateful, una scuola londinese che ha tra i suoi obiettivi principali quello del rebuilding personality. Molti migranti hanno la possibilità di tenere corsi di cucina facilitando così il loro percorso verso l’occupazione e l’indipendenza.
Ispirandomi un po’ a questa esperienza, volevo creare una sorta di casa e per far questo ho coinvolto molte delle persone che avevo a suo tempo intervistato nell’ambito delle mie ricerche antropologiche, migranti di prima, seconda e terza generazione, rifugiati e richiedenti asilo con alle spalle esperienze diverse che sono diventati chef del Laboratorio. Persone varie con qualifiche differenti: home chef, ristoratori e cuochi professionisti; badanti, musicisti, casalinghe, artisti. Tutti sono accomunati da una profonda passione per la cucina e dalla voglia di trasmetterla, dal desiderio cioè di farsi portavoce dei loro luoghi d’origine e dei piatti di casa, quella veri, autentici, del cuore.
C’è stato un lavoro di formazione iniziale e poi siamo partiti a settembre.
Attualmente ci sono 35 cuochi , che nel giro di un mese svolgono lezioni di due ore, dalle 20 alle 22, e 30 corsi.
Non si tratta però di un corso standard di cucina. Quello che emerge realmente è la persona e la sua particolare esperienza, è questo che rappresenta un grande valore aggiunto.  Si tratta alla fine più di un laboratorio esperienziale che serve per raccontarsi. Spesso può capitare di piangere durante le lezioni che diventano occasioni per raccontare episodi legati alla vita di persone provenienti dalle esperienze più diverse.
Durante la serata balcanica abbiamo parlato di Tito e del regime. Oppure è bellissimo vedere la cuoca armena e quella turca che cucinano insieme, tutto questo rappresenta il significato profondo di questo progetto.
Ed è bello vedere che ci sono partecipanti ai nostri corsi che condividono questa sensibilità.
Quando parliamo di partecipanti parliamo anche qui di persone molto diverse: ci sono ragazzi, coppie, signore, bambini. Ora sta funzionando anche la prenotazione dell’evento (cerimonie, compleanni  altro).

È come viaggiare con il cibo quindi e poi c’è l’aspetto fondamentale della convivialità e della condivisione
Sì, generalmente il tavolo viene allestito dal cuoco con un format molto libero. A tavola ci sono 16 posti ma se qualcuno vuol venire con 30 persone va bene lo stesso, organizziamo in modo da ospitare.
Un luogo molto aperto quindi dove nulla è fisso.
Per quanto riguarda invece i prodotti utilizzati, ci tengo molto a utilizzare materie prime italiane e prodotti locali, sempre di qualità. In occasione della serata argentina ad esempio, ero a Bergamo e ho pensato di utilizzare gli ottimi formaggi bergamaschi per cucinare l’empanada argentina.
Allo stesso modo non è conflittuale il fatto che per alcuni piatti, come i tipici ravioli nepalesi, i momo, vengano utilizzati prodotti che potrebbero risultare in contrasto tra di loro, come la coca cola insieme alla soia. Se queste sono le abitudini e i modi di cucinare è giusto rispettarli. 
L’antropologia ha questa scusante culturale che poi si concilia con il senso della mia tesi di laurea: i volti del velo, con tutte le sfaccettature del velo. Io sono sempre contraria a qualsiasi forma di generalizzazione, mentre è importante recuperare le singolarità che sono fondamentali per unificare. È la mia visione.