La poesia della memoria

Intervista a Pupi Avati
di Fabio Canessa

La poetica della memoria e lo struggimento dei ricordi sono da sempre ricorrenti nel suo cinema.
Non solo nel mio cinema. È un tema fondamentale della grande letteratura e della poesia in genere.  Pensi alla madeleine di Marcel Proust da cui inizia un capolavoro come “Alla ricerca del tempo perduto”. O alla poetica del Fanciullino di Giovanni Pascoli, il mio poeta preferito, anche per tragiche coincidenze familiari: mia madre da bambino mi leggeva “X agosto” e “La cavallina storna”, quasi profeticamente.
Mio padre sarebbe morto in un incidente stradale proprio dove fu ucciso Ruggero Pascoli, il padre del poeta.

Ed è un tema fondamentale anche nel grande cinema.
Nei capolavori del cinema: soprattutto in “Otto e mezzo” di Federico Fellini e nel film più straordinario di Ingmar Bergman, “Il posto delle fragole”, un’opera sulla vecchiaia che non ha uguali.

Che cosa è che rende la memoria una fonte così feconda di poesia?
È ineluttabile che a un certo punto della vita ci sia lo scollinamento: il momento in cui ti rendi conto che il futuro che hai davanti sarà più breve e meno bello del periodo di vita trascorso. Il primo segnale per me fu quello di avere bisogno degli occhiali e di molta luce per riuscire a vedere come prima. L’organo della vista recalcitrante mi dette la sensazione di una stazione d’arrivo, di essere giunto a un capolinea da cui si può solo tornare indietro ma non andare oltre: rimane solamente il girone di ritorno. Così la sera a letto anziché pensare al futuro, pensi al passato e lo vedi molto più straordinario del presente.

Da qui nasce l’ispirazione per la creatività artistica?
Proprio da qui. Le rivelo in anteprima che sto scrivendo un film proprio su questa situazione: racconterà l’incontro di un ottantenne con se stesso quindicenne. L’interlocuzione tra i due sarà in realtà una rendicontazione della vita, perché l’atto poetico nasce dal disincanto: svegliarsi e ritrovarsi a fare un bilancio della propria vita rispetto a quello che eri da ragazzo.

Ancora tracce del fanciullino pascoliano?
Sì, il disapprendimento. Perché da vecchi si diventa più sensibili, più fragili, più vulnerabili. Piano piano dalla nostalgia della giovinezza si passa alla nostalgia dell’infanzia. Che è la sensibilità poetica, perché tutti vogliono tornare figli. Bisogna tornare bambini per essere capaci di farsi coinvolgere dall’arte. E ci vogliono molti anni per diventare bambini.

Tutto questo è collegato al pensiero della morte, presente in tutto il suo cinema e spesso spettacolarizzato nei suoi horror gotici.
Il pensiero della morte è stato continuamente presente in me. Quando ero giovane in modo più morboso, terrorizzante e spaventevole come le fiabe contadine con le quali sono cresciuto, e che poi ho trasformato appunto in film horror. Oggi in modo più intimo e affettuoso: non mi prenda per folle ma mi rivolgo alle persone che non ci sono più, con le quali ho condiviso emozioni, attese e sogni. Le evoco, le chiamo e loro vengono, chiamo i loro nomi e loro hanno voglia di venire, soffrono di essere trascurate e dimenticate. Una terapia fantastica che mi è di fortissimo conforto.

Raccontarli nei film è anche un modo di sottrarli alla morte.
È un modo di sottrarre alla morte anche te stesso.

La memoria tende spesso a edulcorare i ricordi, a raccontare il passato migliore di come era.
La verità è che, nel ricordo, cogli una bellezza della vita che ti sfuggiva in precedenza. Forse per vedere bene una cosa bisogna avercela a distanza. Per quanto mi riguarda, io ho cominciato a raccontare Bologna, la mia città, solo da quando mi sono trasferito a Roma.

Scoprendo solo allora la sua bellezza?
Esattamente. Anche perché, alla distanza, hai il dono della libertà di immaginarla forse non come era, ma come avresti voluto che fosse.