Nautilus
NavigAzioni tra locale e globale
Nautilus è una rivista mensile che non parla solo di cultura ma è cultura: nella narrazione di ciò che accade, partendo dai territori locali per spingersi e confrontarsi con altri luoghi, fisici o immateriali, si propone di raccontare le vie che la cultura intraprende attraverso le molteplici vesti con le quali si manifesta, con lo scopo di offrire una visione multidimensionale dei processi e di proporre una mappa dei problemi e delle opportunità del patrimonio e delle attività culturali.
Di volta in volta, si viaggerà nel tempo e nello spazio, cercando di costruire ponti metaforici tra passato, presente e futuro, tra locale e globale, tra centro e periferia, tra competenze diverse, tra punti di vista plurali per offrire, in ciascun numero, non una fotografia dell’esistente bensì un’immagine in movimento di ciò che sta accadendo, che sia foriera di nuove prospettive.
Editoriale
Spazio pubblico
luogo di condivisione, partecipazione, vita
Ho avuto occasione in questi giorni di partecipare a una bellissima azione teatrale itinerante a Montesole nei luoghi del terribile eccidio di Marzabotto, scritta e prodotta da Archiviozeta di Bologna dal titolo “Facoltà di Resistenza”. Una rappresentazione pubblica di grande intensità e realismo basata su una ricerca di testi letterari sulla Resistenza. Ogni luogo scelto durante il percorso in cui si snoda la rappresentazione è un partigiano ucciso, evocato attraverso uno scrittore: ciascun attore assume la voce, il ritmo, la responsabilità delle parole di Italo Calvino, Beppe Fenoglio, Franco Fortini, Primo Levi, Elio Vittorini alla ricerca della nostra facoltà di resistenza. Bellissimo!
L’eccidio ricordato è quello di Marzabotto, uno dei più efferati, sei giorni di terrore che si svolsero dal 29 settembre al 5 ottobre 1944, provocando 770 morti di cui 221 bambini (uno di appena 14 giorni), 142 ultrasessantenni e 316 donne, che furono oggetto di una violenza e di una crudeltà inusitata e assurda. A guidare questa operazione truppe naziste ed elementi fascisti.
Il diritto a una buona amministrazione pubblica
Intervista ad Alessandra Pioggia
a cura di Monica Pierulivo
1. Partiamo dal tema di questo numero, la crisi dello spazio pubblico, penalizzato dal crescente processo di privatizzazione. Un fenomeno che mette in crisi l'esercizio di diritti fondamentali delle persone e una conseguente erosione della democrazia locale. Come giurista e studiosa della pubblica amministrazione, si è interrogata in questi ultimi anni sul significato dell'amministrare e sul ruolo delle nostre istituzioni pubbliche nella realizzazione del progetto di società iscritto nella nostra Costituzione. In che modo quindi le istituzioni possono effettivamente realizzare questo progetto costituzionale?
Il compito che la nostra carta costituzionale assegna alla Repubblica è quello di contribuire alla concretizzazione di una società migliore, in cui tutte e tutti possano realizzarsi appieno come persone. Un compito altissimo, come vede, ma possibile solo con il contributo di ciascuna e ciascuno. In un bel libro dedicato all’articolo 2 della Costituzione, lo storico del diritto Fioravanti ha osservato come tutta la Costituzione sia iscritta in un’ellisse, ad un vertice della quale troviamo l’inviolabilità dei diritti e quindi la centralità della persona, mai più mezzo, ma sempre fine dell’azione delle istituzioni, e all’altro vertice della quale troviamo, invece, il principio di solidarietà.
In questi decenni abbiamo trascurato questo secondo vertice dell’ellisse e schiacciato l’inveramento della Costituzione sul primo. Non è una operazione a somma zero, dal momento che quello che potrebbe sembrare un maggiore investimento sui diritti individuali, nel tempo rischia di tradursi in un loro sacrificio. Se, infatti, non teniamo conto del fatto che i diritti hanno bisogno di essere protetti, sostenuti ed assicurati con l’impegno delle istituzioni e che queste nostre istituzioni necessitano dell’impegno di tutte e tutti per continuare a svolgere il loro compito, finiamo per trovarci con istituzioni deboli e impoverite e, quindi, di conseguenza, con meno diritti. L’idea di impronta neoliberista, per cui il singolo sarebbe egoisticamente interessato solo a sé e ai propri bisogni, ha fatto perdere di vista il progetto comune a cui possiamo e dobbiamo contribuire se siamo interessati ad una società migliore in cui a ciascuno sia assicurata una vita degna.
Quello a cui stiamo assistendo questi mesi negli Stati Uniti è significativo del tentativo di promuovere una idea di Stato senza amministrazione pubblica, senza cioè le istituzioni della solidarietà, quelle che, sostenute con le risorse fiscali, si occupano del bene di tutte e tutti. L’attacco ai grandi apparati pubblici di servizio, attraverso i licenziamenti o il taglio delle risorse, è il frutto di un impianto culturale che intende ridurre lo spazio della sfera pubblica come sistema di protezione dell’uguaglianza dei diritti. Ma senza uguaglianza nei diritti, non c’è libertà e anche la democrazia rischia di restare una parola vuota.
Il patrimonio culturale diffuso come spazio pubblico
L’immagine dell’Italia come terra straordinariamente ricca di patrimonio culturale non è solo un'invenzione dei politici o delle agenzie di viaggio. Al contrario, è questa un'immagine particolarmente forte che attira sul nostro Paese una specialissima attenzione e un flusso imponente di visitatori. Come attira sull'arte italiana (anche su quella conservata al Louvre o al Metropolitan) una messe di studi e di libri senza paralleli con nessun'altra arte “nazionale”. Ma perché questa forza e questa compattezza del “modello Italia”, pur nella diversità degli stili, dei paesaggi fisici e culturali, dei radicamenti locali di questo o quel pittore, scultore, architetto? Perché quello che l'Italia offre non è solo la somma dei suoi monumenti, musei, bellezze naturali; ma anche e soprattutto il loro comporsi in un tutto unico, il cui legame non saprei chiamare meglio che “tradizione nazionale” o “identità nazionale”, e cioè la consapevolezza del proprio patrimonio, della sua unità e unicità, della necessità di conservarlo in situ.
Dal pieno al vuoto: ridare spazio al pubblico
È oggi largamente accettata la tesi per cui l’atto di nascita del capitalismo coincide con la recinzione dei commons: spazi aperti, di solito caratterizzati da dotazioni naturali importanti (boschi, praterie fertili, corsi d’acqua e cosi via), vengono sottratti al tradizionale uso collettivo, a basso impatto e rendimento, parcellizzati e assoggettati a uno sfruttamento intensivo ed efficiente. Fu questa rottura, in cui l’analisi marxista vede l’accumulazione primitiva del capitale, a rendere disponibile il valore necessario a trasformare la servitù della gleba in lavoro salariato. Convenzionalmente fatta risalire al 1066, quando Guglielmo il Conquistatore suddivise fra i suoi baroni le terre soggiogate, essa da un lato trasformò la common land dell’antichità in wasteland (terra di scarto o “terra desolata” nella traduzione del poema omonimo: l’inglese ‘waste’ è il nostro ‘guasto’), dall’altro liberò per l’attività umana spazi prima inaccessibili: “liberò”, non ‘imprigionò’, in quanto la recinzione serviva non a rinchiudere la natura entro i limiti della proprietà ma proprio a tenerla fuori da quel che, così, divenne il campo del lavoro produttivo, affrancandolo tanto dalle pastoie dell’uso consuetudinario quanto dal mistero di una vita profonda e ignota agli umani.
Le stazioni ferroviarie
Uno spazio pubblico tra privatizzazione e abbandono
Le stazioni sono luoghi dove la storia passa e a volte si ferma, dove si sale e si scende, come la storia appunto. Sono un cordone ombelicale col mondo, per andare e venire, ma anche per fermarsi a osservare lo scorrere della vita, raccogliendo il bagaglio della propria esistenza e immaginare quello degli altri. La parola stessa “stazione” deriva dal latino stationem, star fermo, fermarsi. Per molti di noi sono state anche luoghi d’ispirazione e di immaginazione, pause nel cammino e finestre aperte sulla società umana in movimento. Come ha osservato lo storico Piero Bevilacqua, le grandi stazioni ferroviarie come Roma Termini, Firenze Santa Maria Novella, Napoli o Milano Centrale erano luoghi per viaggiatori che sostavano, in uno spazio comune organizzato per l’attesa e per il riposo; poi con la modernizzazione del capitalismo neoliberista, tutto è cambiato e sono diventate grandi empori caotici dove lo spazio pubblico è letteralmente sotto assedio (https://www.officinadeisaperi.it/agora/citta-e-territorio/termini-le-stazioni-del-capitale/). Siamo passati da viaggiatori a clienti e anche negli annunci sonori le informazioni sui treni non sono più rivolte ai “signori viaggiatori”, ma alla “spettabile clientela”.
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Povertà, diritti e disuguaglianze
di Benedetta Celati
Sradicare la povertà in tutte le sue forme e ovunque nel mondo è il primo degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.
In Italia, Il 58esimo “Rapporto sulla situazione del Paese” del Censis evidenzia che negli ultimi vent’anni il reddito pro-capite è diminuito del 7% e la ricchezza netta del 5,5%, mentre l’85,5% degli italiani considera la mobilità socialecome un traguardo quasi irraggiungibile. A crescere in questo scenario sono le disuguaglianze.
L’Ipsos parla in tal senso di “un Paese divergente”, attraversato da fratture sociali (di classe, generazionali, di genere, geografiche, digitali ed esistenziali causate dall’uso dei social), nel quale i pubblici poteri fanno sempre più fatica a dare attuazione al disegno immaginato dalla Costituzione, ossia assicurare la promozione del pieno sviluppo della persona umana, attraverso la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza (art. 3, c. 3, Cost).
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In difesa dell’Università pubblica
In una recente pubblicità televisiva, una giovane studentessa e la sua famiglia, sopraffatti dalla complessità e dalle traversie dell’esperienza universitaria ‘tradizionale’, scoprono le opportunità offerte da una importante ‘università’ telematica e decidono il trasferimento della ragazza nel nuovo mondo accademico privato; l’angoscioso quadro ambientale che circondava la studentessa nelle prime scene si trasforma nella quiete di una cameretta linda, di un PC che trasmette rassicuranti lezioni registrate e di una mamma premurosa che porta alla figliola un piattino con la merendina da sbocconcellare nel mentre si ascolta il fluire delle parole dalle casse del computer. I segni del sentire contemporaneo ci sono tutti: sottratta alle insidie di trovare alloggio e di condividerlo con colleghi alla meno peggio chiassosi, esentata dalle difficili relazioni con Segreterie studenti spesso affollate e alle volte non amichevoli, salvata dai rischi che incombono sui nostri giovani in città sempre più percepite come pericolose, tentatrici o quantomeno distraenti, la giovane ritrova il sorriso nella protezione domestica, nella sicurezza di una comfort zone accuratamente presidiata nella quale la solitudine non è patologia sociale ma garanzia di concentrazione, di dedizione allo studio, di coincidenza tra investimento (anche economico) ed esiti del percorso formativo.
Finanziarizzazione e colonizzazione delle città erodono lo spazio della politica
Assistiamo a campagne di vendita (sottocosto) di immobili pubblici, a occupazioni mercantili di spazio demaniale, alla formazione di recinti e ghetti per ultraricchi, alla bigliettazione d’ingresso di piazze ed intere città. Una grande abbuffata che ci sta deprivando degli spazi di aggregazione, di crescita sociale e civile, di agibilità, di emancipazione.
Le città, anche quelle italiane, sono in avanzata fase di finanziarizzazione. Coinvolte, cioè, in un modello di “sviluppo” urbano che, trainato dagli investimenti di capitali privati trans-nazionali, tende ad assoggettare spazio costruito e suoli a una logica prettamente economicista. Il fenomeno, che assimila la città a “portafogli” di asset, cioè di prodotti finanziari fondati sull’immobiliare, è definito dagli studiosi come assetization.
Le mani battute
È difficile immaginare un qualunque contesto relazionale privo di tensioni e conflitti. È difficile anche immaginarlo caratterizzato dalla presenza di una costante condivisa armonia. Per questo motivo, quando s’interiorizza il termine “Pace”, soprattutto quella “universale”, si rischia di precipitare nella retorica o in un certo conformismo, perché è una condizione personale e sociale carica di contraddizioni e difficoltà oggettive. Resta però un punto: la pace è una continua ricerca di mediazioni, di riflessioni e di analisi, senz’altro, che stravolge e sposta montagne, effettivamente, ma una volta avvertita come necessaria è raro che ci scappi di mano. Non è facile conquistarla o inseguirla, piuttosto assorbirla, attraverso un rapporto con i gesti, le considerazioni e la rinuncia tenere fermo il pensiero. Un pensiero libero, fuori dai recinti identitari e disponibile alla trasformazione critica è un passo fondamentale per costruire una pace visibile, o almeno.
“Si scrive la storia della guerra e non si scrive quella della pace” (Gandhi)
“Nella millenaria letteratura sul tema della guerra e della pace si possono trovare infinite definizioni di guerra, mentre si trova di solito una sola definizione di pace, come fine o cessazione o conclusione o assenza o negazione della guerra, quale che ne sia la definizione”, scriveva Norberto Bobbio.
La guerra è dominante, nella letteratura e nell’arte, molto più facilmente rappresentabile che non la Pace.
Forse è per questo che anche sulle copertine dei dischi raramente la pace si trova rappresentata e, comunque, solo per un periodo di tempo limitato e ben preciso che va, tranne poche eccezioni, dalla fine degli anni ‘50 sino alla metà dei ‘60.
Anni in cui la pace, l’antimilitarismo e le lotte per i diritti civili delle persone di colore sono parole d’ordine e obbiettivi prima della beat generation e poi del movimento hippie.
Il fine dello spazio pubblico
Una riflessione contemporanea sulla trasformazione degli spazi sociali
Il concetto di "spazio pubblico" ha storicamente ricoperto una funzione cruciale nelle dinamiche sociali, politiche ed economiche delle società. Tuttavia, nell'era contemporanea, le trasformazioni culturali, economiche e tecnologiche hanno profondamente alterato la natura e il ruolo di questi spazi.
Lo spazio pubblico è sempre stato un elemento fondamentale per la costruzione delle relazioni sociali. Tradizionalmente, piazze, strade e parchi sono stati luoghi di incontro, discussione e interazione civile. In questi spazi, i cittadini esercitano il loro diritto di partecipazione politica, culturale ed economica. Tuttavia, con l’avanzare delle trasformazioni sociali, politiche ed economiche, il concetto di spazio pubblico è stato progressivamente minato da una serie di forze che ne hanno cambiato profondamente la natura. Come osservato dal filosofo tedesco Jürgen Habermas, lo spazio pubblico rappresenta un "luogo di formazione dell'opinione pubblica", un ambito di discussione e confronto che si realizza al di fuori delle strutture di potere (Habermas, 1962).
Fine dello spazio (pubblico)?
Gli spazi urbani come bene comune
Una delle sfide più pressanti di questi tempi è la trasformazione delle città secondo quello che si definisce il prisma della sostenibilità nella sua accezione sociale, culturale ed ambientale).
In questo contesto hanno acquisito sempre più rilevanza, specie negli ultimi 10 anni, le esperienze di coinvolgimento dei cittadini nell’amministrazione della “cosa pubblica”, che vengono inquadrati nella cornice dell’“amministrazione condivisa” https://www.labsus.org/amministrazione-condivisa/).
L’amministrazione condivisa rappresenta il più efficace ed interessante paradigma del principio di sussidiarietà introdotto nella nostra Costituzione (art. 118) a partire dal 2001, che postula nella sua dimensione orizzontale una sorta di “preferenza” per il privato inteso in senso ampio (come cittadinanza attiva ma anche come impresa o terzo settore) rispetto all’erogazione di servizi o allo svolgimento di funzioni amministrative. In questo contesto l’amministrazione condivisa è diventata un modello alternativo a quello ordinario, che trova il suo momento regolativo nella stipulazione di patti di collaborazione tra gruppi di cittadini o associazioni da una parte e comuni, dall’altra, che definisce obblighi e doveri delle parti coinvolte rispetto alla gestione dei beni comuni.
La fine dello spazio pubblico europeo
Alla domanda di un ragazzino che, nei fatti, si domandava circa “l'utilità” della storia invitando il padre a spiegargli a cosa essa servisse, Marc Bloch cercava di rispondere ponendosi il problema della legittimità della storia la quale, dice, ricompare eternamente, soprattutto nei momenti di turbamento e smarrimento per spingere l'umanità a interrogarsi su se stessa; “vorremmo soprattutto prevedere il nostro destino e forse guidarlo un po'”, diceva Bloch, voltandoci verso il passato, sperando sia foriero di segreti del presente, nella speranza di intravedere quelli del futuro.
Se allora ci voltassimo indietro scrutando tra gli articolati spazi della storia dell'Unione Europea per cercare di dare alcune risposte alla crisi diplomatica europea e internazionale, potremmo, forse, se non proprio svelare i segreti di tale smarrimento, tentare quantomeno di arrivare a raggiungere delle risposte che riempiano le complessità dell'odierno di quella necessaria pregnanza che la storia, se interrogata a dovere, riesce a fornire.
Tanta ricchezza e poche tasse
Guardare alle donazioni dei grandi ricchi in un numero dedicato ai “beni comuni” è l’occasione di osservare come, anche dal punto di vista dei modelli culturali, si sia andati progressivamente verso una privatizzazione dello sguardo collettivo, del modo, cioè, in cui ciascuno di noi osserva e valuta i fenomeni che ci circondano. A me le grandi donazioni non piacciono, mi sembrano delle elemosine e mi fanno pensare al feudalesimo, per questo negli anni sono andata in cerca di letture che potessero aiutarmi ad articolare questo pensiero.
In Italia il dibattito sul tema è pressoché assente e, anzi, esiste un corale apprezzamento dei ricchi che sono così buoni da contribuire al sostegno delle politiche pubbliche per il sociale e per la cultura.
NELLA STIVA
LETTURE, NOTIZIE E SEGNALAZIONI
Salvatore Settis,
Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi, 2002
Norme recenti hanno offerto ai privati la gestione di parchi e musei e reso possibile l'alienazione del patrimonio dello Stato italiano attraverso due società, la Patrimonio S.p.A e la Infrastrutture S.p.A., suscitanto numerose perplessità in Italia e all'estero. Il libro di Salvatore Settis esamina le caratteristiche specifiche del patrimonio culturale italiano, il suo legame con il territorio, la storia e la lingua del Paese, il suo significato per la società civile. Esperienze, tentativi e fallimenti della pubblica amministrazione nella gestione del patrimonio culturale vengono messi a confronto con quanto accade in Europa e in America, ma anche con le potenzialità del "sistema italiano".
Roberta Burini,
Governare lo spazio pubblico nelle città italiane. Patti di collaborazione e imprese di comunità tra convivialità ed efficacia collettiva, FrancoAngeli 2024
Un viaggio dal Nord al Sud dell'Italia tra i patti di collaborazione e le imprese di comunità, per la prima volta indagati insieme. Nel libro, gli effetti che questi strumenti producono su spazi, attori locali e politiche pubbliche vengono osservati e discussi attraverso l'analisi comparativa di cinque casi nelle città di Torino, Genova, Caserta, Napoli e Brindisi. I risultati della ricerca mostrano che i processi di azione collettiva si caratterizzano per un'elevata specificità contestuale e una scarsa linearità, motivo per cui gli esiti appaiono difficilmente riproducibili in altri contesti, ma utili affinché le città trovino dei dispositivi di appartenenza collettiva e non soltanto individuale. Attraverso i patti di collaborazione e le imprese di comunità si riesce a spostare l'attenzione dall'individualismo alla costruzione di un'azione collettiva che può avere ricadute significative - anche in termini individuali - sull'identità e sul senso di appartenenza a una comunità di vicinato. Questo consente di ampliare il raggio di reciprocità degli individui, di essere meno orientati ai propri simili, ma aperti all'incontro conviviale. Gli strumenti indagati si inseriscono, dunque, all'interno di questioni sociologiche più ampie che riguardano la città e il suo governo: è in simili azioni che lo spazio assume i connotati di sfera pubblica.
Paolo Pezzino, Andare per i luoghi della Resistenza, Il Mulino 2025
«Il nostro viaggio comincia da Ventotene per sottolineare il filo, sottile ma robusto, che lega chi si è opposto al fascismo, anche durante il Ventennio, a chi, dopo la caduta del regime, l'occupazione dei tedeschi e la nascita della Repubblica sociale italiana, ha partecipato a un movimento nazionale di resistenza ampio, articolato, originale». «Il periodo dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 - scrive Pezzino - è stato uno di quelli nei quali i cittadini, volenti o nolenti, si sono trovati a dover compiere scelte "politiche", dalle quali dipendeva non solo la loro sorte personale, ma anche, quella della patria». La resistenza italiana è un fenomeno articolato in cui gli storici odierni ricomprendono non solo l'azione dei partigiani e dei combattenti, degli internati militari italiani, dei deportati politici, ma anche quella dei tanti semplici cittadini che si opposero all'occupazione tedesca e al fascismo, a partire dalle donne, il cui decisivo contributo è stato a lungo misconosciuto. Dei numerosi episodi di coraggio civile si è tenuto conto nel tracciare questo itinerario che affianca ai già molto celebrati luoghi simbolo della lotta partigiana, altri meno noti ma il cui ricordo la rende vivida.
Nicoletta Dentico, Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo, prefazione di Vandana Shiva,Emi 2020
Il G8 del 2001 non va ricordato solo per le violenze a Genova. Durante quell'evento veniva lanciato il "Fondo Globale per la lotta all'Aids, alla tubercolosi e alla malaria" voluto da Bill Gates. Una cosa buona, che però ha messo alle corde Oms e Unaids, le agenzie Onu per la salute. Nel 1997 Ted Turner, il fondatore della Cnn, erogò la maggior donazione di sempre all'Onu. Nella corsa al vaccino anti-covid spicca la Bill & Melinda Gates Foundation. Solo un caso? Non proprio. Sono esempi dello svuotamento, operato da privati, delle più alte istanze internazionali di ambito pubblico. Questo libro mostra come le visioni "umanitarie" delle fondazioni dei ricchissimi e generosissimi, da John Rockefeller a Bill Clinton e Mark Zuckerberg, sono potenti strumenti di controllo planetario. A colpi di donazioni, con ovvi benefici, i filantrocapitalisti si assicurano che il turbocapitalismo non venga messo in discussione. Primo obiettivo, la salute: "Bill Gates ha puntato a comprarsi un'intera agenzia Onu, l'Oms. La cosa gli sta riuscendo; è grave che la comunità internazionale glielo permetta". Altro campo di battaglia, l'agricoltura: la "Rivoluzione verde" in Africa funge da battistrada agli Ogm. Dopotutto, una mano lava l'altra. La ricchezza delle aziende permette la filantropia, la filantropia apre nuovi mercati alle aziende. Il filantrocapitalismo non ci rimette mai. La democrazia, sì.
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