Nautilus

NavigAzioni tra locale e globale

Nautilus è una rivista mensile che non parla solo di cultura ma è cultura: nella narrazione di ciò che accade, partendo dai territori locali per spingersi e confrontarsi con altri luoghi, fisici o immateriali, si propone di raccontare le vie che la cultura intraprende attraverso le molteplici vesti con le quali si manifesta, con lo scopo di offrire una visione multidimensionale dei processi e di proporre una mappa dei problemi e delle opportunità del patrimonio e delle attività culturali.

Di volta in volta, si viaggerà nel tempo e nello spazio, cercando di costruire ponti metaforici tra passato, presente e futuro, tra locale e globale, tra centro e periferia, tra competenze diverse, tra punti di vista plurali per offrire, in ciascun numero, non una fotografia dell’esistente bensì un’immagine in movimento di ciò che sta accadendo, che sia foriera di nuove prospettive. 

Sommario 

Gennaio  2025  n. 43

Editoriale

Vivere in comune

di Monica Pierulivo

Dall’energia all’acqua, dalla salute all’istruzione, dai fiumi agli oceani fino al diritto all’informazione in rete. Sono tutti beni comuni o commons. Non coincidono né con la proprietà privata, né con la proprietà dello Stato, ma esprimono dei diritti inalienabili dei cittadini.
In parte sono naturali, ad esempio il clima o l’ecosistema, in parte sono il prodotto di processi sociali. Quanto più la società è complessa o artificiale tanto più i beni cognitivi e sociali diventano strategici, ma proprio perché la nostra società è immersa nella complessità, è sempre più forte l’interazione tra naturale ed artificiale, ed è sempre più decisivo l’intreccio tra beni comuni naturali ed artificiali. Questo è un punto decisivo per la definizione di strategie mirate a preservali.

Una tendenza dei nostri tempi è quella trasformare i beni comuni in beni privati, sia per semplici ragioni di sfruttamento economico da parte di soggetti e imprese private, sia per una ideologia economica che considera i commons come un problema, perché tendono ad essere distrutti dall’eccessivo sfruttamento (è la nota teoria della “tragedia dei commons” elaborata nel 1968 dal biologo D. Hardin).
In realtà la storia delle comunità ci racconta che questa ideologia che porta a trasformare i beni pubblici in privati non sempre funziona e che necessita di cambiamenti e adeguamenti.

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L’informazione è un bene comune prezioso, perché il diritto a essere informati è fondamentale per difendere il diritto di ognuno a decidere consapevolmente.  A questo riguardo quanto è importante il servizio pubblico radiotelevisivo per garantire questo diritto e a cosa serve oggi la Rai? 

 

La questione del servizio pubblico oggi è molto delicata, da una parte perché risulta essere un servizio ormai molto logorato, dall’altra perché rappresenta una storia che va avanti da troppo tempo in maniera ripetitiva e tradizionale. Oggi siamo in una fase di trapasso radicale del sistema dell’informazione e ovviamente il servizio pubblico deve cambiare la sua missione. Nel 2027 verrà rinnovata la convenzione tra lo Stato e la Rai per l’affidamento del servizio, per cui questa domanda “a che serve la Rai?” è centrale, istituzionale e il paese se la dovrebbe porre per capire che tipo di Rai immaginare. 

Oggi l’azienda così com’è serve a poco, nel senso che, per la sua architettura organizzativa e per la sua logica professionale, risponde a una missione di almeno quarant’ anni fa, in cui il tema riguardava il pluralismo politico, sociale e culturale e la Rai era effettivamente una fabbrica di pluralismo. A quel tempo tutte le polemiche erano legate a capire chi parlava di più, chi parlava di meno chi era emarginato, chi era dominante ecc. Questo perché eravamo in una fase di stabilità del sistema televisivo, con il solo monopolio Rai; poi, come ben sappiamo, in questo paese è arrivato un signore che si è messo a fare la televisione anche in barba alle leggi, e sono arrivate le televisioni private.

La Rai ha dovuto pertanto aggiornare il suo sistema di legittimazione, da monopolio in qualche modo efficiente, a una delle componenti del sistema televisivo, quella più “pluralista”. 

 

 Oggi siamo in una situazione radicalmente cambiata, tutto può essere riassunto in uno slogan: siamo passati dalla Tv di massa, alla massa dei sistemi di comunicazione per cui possiamo dire che ogni singolo utente è di per sé un canale, un media e un produttore prima di essere un utente di comunicazione. Infine sono arrivate le piattaforme digitali, con i loro grandi proprietari che stanno riorganizzando completamente il sistema della comunicazione, di cui la televisione è sempre più una componente marginale o comunque molto parziale. 

Alla domanda quindi a “cosa serve oggi la Rai?”, la risposta dovrebbe essere assicurare a questo paese almeno una struttura, un apparato, una competenza in grado di essere autonoma nella transizione al digitale, cioè di essere autonoma nella selezione e applicazione dei sistemi digitali nuovi, a partire dall’uso degli algoritmi, dell’intelligenza artificiale, dei nuovi modelli che personalizzano l’informazione, a partire soprattutto dai dati.

La Rai dovrebbe essere almeno un sistema nazionale in grado di raccogliere ed elaborare in trasparenza i dati, che invece vengono privatizzati dalle grandi piattaforme. La nuova missione importantissima dovrebbe essere pertanto quella di assicurare al paese una potenza tecnologica e professionale in grado di essere autonoma nella transizione dalla televisione generalista a quella digitale. Una Rai che diventa una grande azienda, una fabbrica di linguaggi e non più solo di pluralismi, che assicura la sicurezza del paese in un clima di grandi conflitti, in cui l’informazione diventa un’arma con cui i paesi si combattono.

Siamo di fronte a un passaggio epocale che riguarda tutti gli aspetti della filiera produttiva dell’informazione.


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Per questo numero abbiamo scelto di occuparci di “beni comuni”, tema che evoca un concetto ormai parte del linguaggio comune anche se forse non completamente del senso comune. 

 Le pratiche e i movimenti che si collocano in quest'idea sono legati dal fatto di costituire una trama di relazioni sociali e poi anche ecologiche che propongono un'alternativa alla razionalità neoliberista, in uno scenario nel quale gli effetti più disastrosi del capitalismo oggi occupano saldamente il potere, come testimonia molto bene il binomio Trump-Musk.

Nel 2012 veniva pubblicato un volume da lei curato che rappresenta un riferimento nella letteratura scientifica sul tema, “Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni” (Ombre Corte), con la postfazione di Stefano Rodotà. La mia domanda è proprio questa: a che punto siamo oggi dal suo punto di vista, dopo i referendum del 12 e 13 giugno 2011, sul servizio idrico integrato (noto come referendum sull’acqua bene comune), le occupazioni degli spazi a Napoli, del Cinema Palazzo e del Teatro Valle a Roma, dopo i lavori della Commissione Rodotà nel 2007 e poi la legge di iniziativa popolare nel 2019? A che punto ci troviamo oggi, con un neoliberismo di stampo americano che sembra essere inequivocabilmente tornato a dominare il mondo? Che spazio hanno nel senso comune i beni comuni?

A questa domanda si possono dare due risposte, ovvero si possono abbracciare due diverse prospettive. Una ottimista e più conciliante e una decisamente pessimista. Proviamo a stare nel mezzo. Dal punto di vista giuridico, la nozione di beni comuni ha preso piede, la letteratura è molto cresciuta, si continua a pubblicare sui beni comuni, sebbene con qualche voce dissenziente che tenta di screditare queste ricerche. In realtà mi sembra che quest'idea possa anche dirsi in qualche misura entrata nel mainstream e che quindi si possa riconoscere una generale accettazione del concetto. Per quanto forse non vi siano stati grandi guadagni, c'è stata però un'elaborazione sufficientemente precisa, a cominciare dal lavoro della Commissione Rodotà nel 2007-2008. Da allora ci sono stati degli sviluppi e una elaborazione compiuta, anche se sicuramente c’è sempre spazio e modo di elaborare e di raffinare certe nozioni riadattandole a contesti nuovi. Ci sono stati degli avanzamenti sul piano istituzionale perché un'esperienza napoletana ad esempio ha registrato un riconoscimento da parte del Comune: l'esperienza del “fare comune” dell'ex asilo Filangieri, che ha portato all’elaborazione di una sorta di categoria generale che può essere applicata, ed è stata in effetti applicata, ad altre occupazioni e ad altre forme di recupero di spazi: gli usi civici urbani, i nuovi usi civici (di una matrice diversa da quelli storici).

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Beni comuni: guida per i naviganti

di Benedetta Celati 


L’espressione “beni comuni” fa ormai parte del nostro linguaggio corrente.

La categoria, se come tale la vogliamo interpretare, presenta, tuttavia, contorni nebulosi che si prestano a dilatazioni e restringimenti a seconda del punto di vista di chi se ne appropria e del contesto nel quale viene impiegata. Sul piano linguistico, parlare di “bene comune” al singolare è diverso dal fare ricorso alla versione al plurale, così come lo è riferirsi al concetto di “Commons” o ancora di “Comune”. La scelta del termine si accompagna, infatti, a una specifica postura che si intende assumere nell’offrire le proprie idee al dibattito. 

In ambito accademico, gli studi sul tema sono cominciati a esplodere a seguito dell’assegnazione, nel 2009, del Premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel a Elinor Ostrom. La Ostrom è stata premiata per gli studi contenuti nel suo libro del 1990 “Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action”.


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L’algoritmo è un bene comune

di Antonio Ruggieri


Il dibattito sulla natura e sull’utilizzo della rete e dell’intelligenza artificiale. Se internet non salverà il mondo, come ammonisce Evgeny Morozov, costituirà un’infrastruttura preziosa per diffondere buona informazione e partecipazione civica consapevole, come ci ha lasciato detto Stefano Rodotà; quello che succederà alla rete dipenderà da come la politica sarà capace di fronteggiare gli interessi di speculazione e di accaparramento dei privati, per metterla al servizio del bene comune

Nel dibattito filosofico, giuridico, politico e sociale di un’Italia in cui lo spirito e l’etica pubblica sono stati aggrediti da interessi di speculazione e di saccheggio diventati ormai proposta culturale e di relazione civile, segnatamente negli ultimi venti anni e come un terrificante rimbalzo, si è imposta la riflessione sul concetto di bene comune e sull’orizzonte rigenerativo al quale esso allude.

C’è un patrimonio materiale e immateriale che sfugge alla giurisdizione della proprietà privata ma anche a quella pubblica, che definisce e coltiva l’idea democratica della cittadinanza, radicandola su diritti fondamentali connaturati alla dimensione collettiva e relazionale dell’esistenza umana sulla terra: la comunità.

Quest’ultima ha natura pre-istituzionale, può essere più o meno estesa e raccoglie gli individui che appartengono al suo ambiente economico, sociale e culturale.


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I beni comuni tra inquadramento dogmatico e disciplina giuridica

di Fiore Fontanarosa*


Negli ultimi anni la discussione concernente i beni comuni si è sviluppata in diversi ambiti, in particolare in ambito economico e nel contesto giuridico.

Il dibattito in materia ha ricevuto uno slancio fondamentale dopo la pubblicazione, nel 1968, dell’articolo di Hardin dal titolo ‘The Tragedy of the Commons’[1]; dibattito rinvigorito dalla successiva comparsa, nel 1968, del saggio di Heller sulla ‘tragedia degli anticommons, ovvero dei beni privati[2]. La “tragedia dei comuni” fa riferimento al problema dell’esaurimento delle risorse derivante da un eccessivo consumo individuale di beni accessibili a tutti, mentre la “tragedia degli anticommons” si riferisce alle esternalità negative prodotte dalla privatizzazione dei beni comuni, che ne causerebbe un loro sottoutilizzo.

Il conferimento, nel 2009, del Premio Nobel per l’economia alla studiosa Elinor Ostrom per le sue ricerche sui commons, ha nuovamente riacceso la discussione in materia. In particolare, la categoria dei beni comuni è stata spesso richiamata negli studi compiuti in materia di proprietà collettive, talvolta utilizzando queste due categorie proprietarie in maniera speculare. 


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La società del comune: per una globalizzazione dei territori

di Hervé Defalvard

(traduzione di Benedetta Celati)


Viviamo in una società globalizzata. Non è una novità, anche se la densità dei nostri legami, consapevoli o nascosti, su scala globale è aumentata con l'ultima fase del capitalismo, conosciuta col nome di capitalismo “cognitivo” per porre l’accento sulle reti di informazione e conoscenza che lo caratterizzano. In precedenza, il cosiddetto capitalismo “industriale” ha vissuto una prima globalizzazione di tipo liberale tra il 1870 e il 1914, in un'epoca in cui quattro quinti del pianeta erano costituiti da colonie. Prima ancora c'era stato il capitalismo mercantile con la sua “economia-mondo” (Braudel), che nel XV e XVI secolo era limitata al Mediterraneo. 

Nous vivons dans une société mondialisée. Ceci n’est pas nouveau même si la densité de nos liens, conscients ou cachés, à l’échelle mondiale s’est accrue avec la dernière phase du capitalisme appelée «cognitif» afin de mettre l’accent sur les réseaux d’information et de connaissance qui le caractérise. Avant, le capitalisme dit «industriel» a connu une première mondialisation libérale entre 1870 et 1914 à une époque où les quatre cinquièmes de la planète se composaient de colonies. Avant encore, nous avions le capitalisme marchand avec son «économie-monde» (Braudel) alors limitée, aux XVe et XVIe siècles, à la Méditerranée. 

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I beni comuni nella storia 

Gestione delle risorse ed equilibrio ambientale

di Gabriella Corona

Per quanto riguarda l’Italia, quando si parla di beni comuni in una prospettiva storica si intendono le proprietà collettive che facevano riferimento a differenti comunità ed associazioni ai quali era affidato il potere di governarli e gestirli. Lungi dall’essere uniformi lungo il territorio della penisola, proprietà collettive e usi civici hanno conosciuto una casistica molto varia e articolata. 

Un criterio esclusivamente familiare regolava l’appartenenza alle Regole, diffuse sulle Dolomiti con particolare riguardo al Cadore. In questo caso i beni in comune facevano riferimento a gruppi di coeredi discendenti da un unico capostipite. Nel caso delle società degli originari, invece, diffuse soprattutto in Lombardia e in Veneto, erano ammessi alla redistribuzione delle rendite provenienti dai beni comuni solo coloro che appartenevano alle famiglie più antiche e potenti. 

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L’accesso all’energia 

di Manuela Giobbi


L’energia si pone alla base dell’attuale struttura sociale in termini di accesso, distribuzione e convenienza. La diversificazione dei modelli produttivi di energia ha assunto pertanto una specifica valenza per quanto riguarda lo sviluppo sostenibile e l’accesso diretto di tutti i soggetti all’energia. La possibilità di utilizzare i servizi energetici può infatti condizionare l’attività economica e incidere negativamente sulla soddisfazione dei bisogni di ogni individuo. Nella massimizzazione del diritto di accesso all’energia e nella realizzazione di utilità, che sono sempre più riferibili agli interessi individuali o collettivi non patrimoniali, le comunità energetiche stanno assumendo un ruolo di fondamentale importanza. 

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La necessità di insegnare beni comuni

Una breve riflessione

di Nicholas Tomeo

Ha senso, oggi, insegnare beni comuni, soprattutto nei luoghi di formazione del sapere e delle conoscenze – ovvero delle coscienze –, in primis dunque nelle scuole e nelle università? E quale ruolo svolge tale insegnamento nei percorsi di formazione degli studenti e delle studentesse? Risponderò attraverso alcuni esempi.

 

Sui beni comuni si può sviluppare un discorso che verta almeno – ma non solo – su tre campi: beni comuni sotto il profilo storico, teorico e di pratica. 

Circoscrivendo il discorso all'Italia, chiunque si addentri nell'indagine dei beni comuni da un punto di vista storiografico, si ritroverà ben presto a fare i conti con un passato millenario, spesso contorto e profondamente territoriale. Come si sa, i beni comuni rappresentano una forma alternativa, rispetto al dualismo pubblico-privato, di gestione e possesso di beni e/o servizi da parte delle collettività locali: volendo dirla con Carlo Cattaneo, che parlava di forme di gestione collettiva della terra, forse la prima forma di applicazione concreta del comune, si tratta di “un altro modo di possedere, un'altra legislazione, un altro ordine sociale, che, inosservato, discese da remotissimi secoli sino a noi”.

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La cultura della memoria come bene comune: riflessioni dai territori

di Paolo Coppari


Basta sfogliare un dizionario per rendersi conto del ricco e complesso corredo di parole e locuzioni che ruotano attorno alla voce “memoria”: ricordare, rammentare, rimembrare, rievocare, sovvenire, commemoraree via dicendo; una fitta rete di parole legate da rapporti di sinonimia, analogia e affinità logica a questa voce-guida che, grazie a ognuna di esse, si arricchisce di nuovi sensi e sfumature semantiche. Perché la memoria, una parola-slogan abusata e logorata, spesso banalizzata o sacralizzata, è un argomento estremamente complesso e, in quanto tale, affascinante, sia che si tratti di memoria individuale, oppure collettiva. 

 

Da questo punto di vista, un fertile terreno di sperimentazione e di osservazione è stato il progetto dei Cantieri Mobili di Storia (CMS) che, sin dai mesi immediatamente successivi ai sismi del 2016, hanno operato nelle zone appenniniche e interne del Maceratese, cercando di coniugare memorie personali e di comunità, collocandole in una trama storica. Sono state promosse a tal fine molte iniziative per la messa in sicurezza delle memorie territoriali, con una difficile e paziente opera di “riparazione” dello spaesamento e della perdita del senso di appartenenza da parte delle comunità devastate dai terremoti. 

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Dopo tutto, scuola, tu sei BENE

di Maria D’Agostini


Cara scuola,

in questi anni in cui ti ho frequentato su di te ho sentito di tutto: che sei antica, che cadi a pezzi, che vai riformata, che vai buttata giù e ricostruita, che non sai dove stai andando, che prima funzionavi meglio (quando?), che sei dei ragazzi, che sei democratica, che sei classista, insomma credimi, di tutto. Ho sentito esprimersi chiunque, da coloro che ti abitano e ti vivono ogni giorno a coloro ti ricordano per come eri quando facevano le superiori, lustri fa: genitori, giornalisti, politici, perfino personaggi e influencer della televisione o del web. Questo mi ha spinto a chiedermi: ma chi dovrebbe esprimersi davvero su di te? In altre parole: chi dovrebbe giudicarti? Le prove INVALSI, diranno i più pronti. Cioè quelle prove che gli studenti sostengono ad anni stabiliti, i cui esiti sono elaborati da istituti statistici, per farci sapere quanto tu funzioni e quanto no, quanto gli studenti italiani rendano su questa o quella materia. Tanto per capirci: gli studenti italiani, da questi dati statistici, di solito escono malconci. 


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È possibile strutturare una società sul bene comune?

di Catia Eliana Gentilucci


Il quesito è retorico. La storia insegna che non è possibile istituire una società fondata sul bene comune per diversi motivi. La prima, e forse più complessa, questione sta nella difficoltà di individuare una definizione definitiva di bene comune; inoltre, ammesso che si arrivi a una  definizione univoca, ci si imbatte nel problema del mettere d’accordo l’intera umanità nel proiettare le proprie scelte al fine di ottenere il bene comune (ammesso che l’intero aggregato umano abbia la volontà di raggiungerlo e ne percepisca lo stesso livello di urgenza); vi è, poi, la complessità (tecnologica e organizzativa) della sua attuazione; ed infine sorge la questione della spazialità delle conseguenze delle scelte collettive (la globalizzazione ha concatenato e amplificato gli effetti delle scelte collettive locali).

In sintesi, è utopistica l’idea di progettare un sistema (sociale, economico e normativo) che abbia come obiettivo non solo il bene esclusivo del singolo o di una casta, ma un bene che accomuna e coinvolga l’intera umanità. 


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Fiumi come bene comune

di Massimo Bastiani


I fiumi e in termini più generali l’acqua, rappresentano un bene comune per eccellenza. Un bene fragile, reso ancora più vulnerabile dalla presenza di molteplici interessi, in molti casi rivali tra loro. Il “qui” della acqua di un fiume è sempre collegato ad un “altrove”, nella logica monte-valle tutto ciò che tolgo o aggiungo, avrà ripercussioni, anche imprevedibili sulla sua stabilità, sicurezza e salubrità. I fiumi ci forniscono un insieme di servizi ecosistemici importanti per la nostra vita, tra cui: la fornitura d’acqua per la produzione di cibo (agricoltura e allevamento), la ricarica delle falde acquifere, il controllo dei fenomeni erosivi, la regolazione climatica, il mantenimento degli habitat, ecc.

Ma se gli interessi economici che ruotano intorno ai fiumi non li rispettano, non tengono ad esempio conto del bilancio idrico tra alimentazione e prelievo, dei rischi d’inquinamento e del mantenimento della naturalità, si possono creare gravi fenomeni di sovrasfruttamento della risorsa, rischio idrogeologico e stress ambientali, con ripercussioni sull’intero bacino fluviale e sulla popolazione insediata.


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Breve cronaca di un bene comune emergente

di Andrea Ghelfi 


Un tema cardine dei movimenti agroecologici contemporanei è quello dell’accesso alla terra. Un’esperienza singolare di riappropriazione di terra e di transizione socio-ecologica dal basso è quella di Mondeggi Bene Comune, Fattoria Senza Padroni. Un’esperienza che dura da più di dieci anni, e nella quale la pratica agroecologica intreccia il tema dei beni comuni emergenti. 

 

La fattoria di Mondeggi si trova nel comune di Bagno a Ripoli, a circa dodici chilometri dal centro di Firenze. Negli anni '60 del secolo scorso, l'intera fattoria è stata acquistata dalla Provincia di Firenze, diventando proprietà pubblica. Con questo passaggio di proprietà, la fattoria di Mondeggi divenne la sede della società agricola Mondeggi Lappeggi S.r.l., di cui la Provincia di Firenze era l'unico socio. L’azienda agricola è progettata con i metodi dell’agricoltura convenzionale, intensiva, monoculturale e meccanizzata: olivi, vigneti e altre colture come grano e girasole sono stati piantati secondo questa idea di agricoltura. Negli ultimi anni della sua esistenza, l'azienda ha accumulato un debito di oltre un milione di euro, portando al fallimento della società e alla sua successiva liquidazione nel 2009. 


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Una persistenza: gli usi civici a Gerfalco

di Nicola Verruzzi


La possiamo definire, forse un po’ impropriamente, una forma di proprietà collettiva; stiamo parlando, in realtà, di un diritto collettivo di godimento su beni pubblici e privati. È l'uso civico nelle molteplici forme in cui può manifestarsi e che vedremo più avanti. In realtà è un istituto che ci appare lontanissimo dal modello attuale della nostra società fortemente intriso di individualismo e certamente esaltante la proprietà privata come diritto individuale e proprio dell'individuo con il suo nucleo familiare e le proprie reti di relazioni all'interno del contesto in cui vive.

L'uso civico rimanda a forme consuetudinarie tramandate nel tempo con le quali si gestivano alcuni aspetti della vita delle comunità; nella sua accezione originaria, se pur con le modifiche ed i cambiamenti che lo hanno portato sino ad oggi, questa forma giuridica di stampo tardo medievale è sopravvissuta, in Toscana,  alle riforme leopoldine della seconda metà del settecento ma soprattutto alla riforma agraria del 1927 durante il regime fascista, al sistema latifondiario ed alla mezzadria e poi, più avanti, all'idea di proprietà come diritto fondamentale dell'individuo e come forma di progresso economico e sociale.

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Di chi sono le sementi? 

di Riccardo Bocci

Le sementi hanno un immaginario sociale che le fa uscire dall’essere solo un mezzo di produzione in agricoltura. Infatti, i nomi delle varietà, le loro caratteristiche sono legate alla nostra storia, un tempo definivano i nostri orizzonti simbolici, gusti e sapori sono legati alla nostra tradizione e alla cucina. Ma c’è di più. Chi controlla i semi, controlla il sistema alimentare e quello che mettiamo nei nostri piatti. Ecco perché parlare di sementi non è facile e tocca delle corde emotive che normalmente non sono considerate dai tecnicismi con cui di solito si tratta la materia agricola. Senza capire tutti questi fili che legano le sementi alle società non si possono realizzare delle serie politiche sementiere, in grado di rispondere a tutte le aspettative dei molti e variegati attori coinvolti. Soprattutto, però, non si riesce a spiegare l’interesse che questo mezzo tecnico ha per cittadini che, ormai, sono molto lontani dalla pratica del fare agricoltura. Nel mondo urbano, che idealizza l’agricoltura vissuta come un’arcadia di cartapesta, i semi hanno un ruolo centrale, diventando antichi, naturali, autoctoni o ancestrali, nel tentativo impossibile di richiamare un mondo contadino scomparso.

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NELLA STIVA

LETTURE, NOTIZIE E SEGNALAZIONI

Gregorio Arena, 

I custodi della bellezza. Prendersi cura dei beni comuni. Un patto per l'Italia fra cittadini e le istituzioni, Touring Club 2020


I custodi siamo noi. E la bellezza che dobbiamo custodire e di cui dobbiamo prenderci cura è l’Italia. Del resto, se non lo facciamo noi, chi altri lo farà?

Questo libro, sulla base degli incontri dell’autore con migliaia di cittadini e associazioni nell’arco di oltre quindici anni, spiega con un linguaggio semplice e chiaro come si fa ad essere “custodi attivi”, prendendosi cura ciascuno del proprio “frammento” di Italia, in modo che alla fine l’Italia intera sia oggetto delle cure congiunte sia delle istituzioni, che ovviamente devono continuare a fare la loro parte, sia di noi cittadini, i nuovi “custodi della bellezza”.

Non è affatto un’utopia, anzi, sta già succedendo. In tutto il Paese, da nord a sud, nelle grandi città come nei borghi, decine, centinaia di migliaia di cittadini si stanno prendendo cura di parchi, scuole, piazze, beni culturali, teatri, sentieri, spiagge, boschi, aree abbandonate e tanti altri beni comuni sia materiali, come questi, sia immateriali, come la legalità, la memoria collettiva, i canti popolari o i dialetti.

Ognuno di loro sta facendo un lavoro utilissimo, migliorando la qualità della vita propria e quella di tutti gli altri abitanti del quartiere o del paese. Ma la maggior parte di questi “custodi attivi” non sa che da una ventina d’anni la Costituzione non soltanto riconosce ai cittadini il diritto di prendersi cura dei beni comuni, ma addirittura impone alle amministrazioni di sostenerli in questa loro meritoria azione di cura, anziché ostacolarli con mille cavilli burocratici.

Perciò questo libro descrive e analizza gli strumenti tecnici – giuridici, tutti già collaudati in centinaia di comuni, che i “custodi attivi” possono usare per collaborare con le amministrazioni nella cura dei beni comuni. Inoltre propone la creazione di una rete nazionale dei “custodi attivi” che consenta lo scambio di esperienze e informazioni fra tutti coloro che, per loro libera scelta, desiderano prendersi cura dei beni comuni del nostro Paese, sottoscrivendo in questo difficile momento della nostra storia collettiva un patto ideale con le istituzioni per far ripartire l’Italia.

L’obiettivo ultimo è la realizzazione di un sogno, quello di vedere un intero Paese che si prende cura di sé stesso e dei propri beni comuni e, nel far ciò, libera le infinite energie nascoste nelle nostre comunità, rafforzando il senso di appartenenza e la coesione sociale.




La cura dei beni comuni tra teoria e prassi
Un'analisi interdisciplinare,
a cura di Daniele Donati, FrancoAngeli, 2024


In Italia e non solo, il tema dei beni comuni si è guadagnato un'attenzione crescente nel discorso pubblico in riferimento a una pluralità di profili e intendimenti diversi.
L'impressione è che il successo dell'espressione sia dovuta anche all'attuale incertezza dei suoi contorni concettuali, a dispetto dell'affermazione dei commons nel dibattito scientifico, che portò Elinor Ostrom a vincere, nel 2009, il premio Nobel per l'Economia. Così, mentre si assiste a livello locale a un'attivazione congiunta per il "bene comune" della società civile, delle amministrazioni comunali e di enti privati come le fondazioni di origine bancaria, l'incertezza in cui ci si muove rischia di vanificare questo patrimonio di collaborazione e azioni solidali.
Da considerazioni come queste origina l'Osservatorio dei Beni Comuni, promosso da Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione Con il Sud e Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna e coordinato dall'Associazione Nazionale Comuni Italiani.
In questo volume si presentano i risultati prodotti nei suoi primi due anni di attività, con un'analisi che - per la prima volta in Italia - affronta il tema sia sotto il profilo teorico, con approccio multidisciplinare, sia in concreto, in un confronto diretto con e tra le amministrazioni locali.




Il lavoro tra passato e futuro. Fragilità e opportunità di un patrimonio nei territori interni dell'Italia contemporanea, a cura di Maddalena Chimisso e Augusto Ciuffetti, Rubbettino, 2024

Il volume raccoglie gli atti della prima edizione del Festival del lavoro nelle aree interne che si è svolto nel maggio 2023 a Soveria Mannelli. Il lavoro rappresenta un patrimonio di fondamentale importanza per la rigenerazione dei paesi della dorsale appenninica e non solo. In questa direzione, i numerosi saggi presentati in questa sede, che si devono a studiosi affermati e giovani ricercatori, tentano di stabilire un dialogo continuo tra il presente e il passato, tra nuove prospettive di rigenerazione delle aree interne e la loro storia plurisecolare. Del resto, quest’ultima non si è sempre connotata come una semplice successione di sconfitte, tale da alimentare profondi processi di spopolamento: i villaggi dell’Appennino sono stati e continuano ancora a essere caratterizzati da una moltitudine di mestieri in grado di indicare validi percorsi per raggiungere una nuova dimensione di modernità.

Nel volume si segnala il contributo di Paolo Coppari, Coltivare la memoria, coltivare le comunità. Esperienze territoriali tra la costa adriatica e le terre alte del maceratese: il progetto dei Cantieri Mobili di Storia. 





Romano Luperini, Beppe Corlito, Il Sessantotto e noi. Testimonianza a due voci, Castelvecchi editore, 2024

(recensione di Adolfo Carrari)

Un colloquio - riflessione, tra due interpreti  italiani di quegli anni indimenticabili, specie per chi come me li ha vissuti, ma anche sulle implicazioni che quegli anni  hanno avuto in seguito.  Attraverso la voce degli autori che ne sono stati protagonisti, si analizza ciò che avvenne a partire dai primi moti studenteschi degli anni Sessanta negli Stati Uniti contro la guerra nel Vietnam, in Sud America ed in Europa con le proteste studentesche che culminarono con il Maggio  francese;  questi eventi ebbero un effetto  di trascinamento che  in Italia non è stato di breve durata e che ha lasciato il segno. Da noi le lotte travalicarono le scuole e le università, e si saldarono con quelle operaie nell’autunno caldo del ‘69.

La pubblicazione s’ inserisce nel dibattito, sempre aperto, sull’impatto che questi eventi ebbero nella vita politica e sociale del nostro paese. Si  ricordano anche gli eventi tragici che, a partire dalla strage  di Piazza Fontana del 12 dicembre ’69, si sono abbattuti sul movimento democratico ed antifascista, con l’evidente intento di fiaccarne la resistenza; ma la cosiddetta “strategia della tensione” ebbe risposte unitarie nelle piazze e contribuì ad unire i democratici, i tradizionali partiti della sinistra ed i gruppi extraparlamentari che si erano formati a seguito del movimento studentesco.

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Collaborano con noi:

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Marco Del Francia

Sergio De La Pierre

Maurizio Dell'Agnello
Claudia Della Valle
Vezio De Lucia
Antonella De Nisco
Andreina Di Girolamo
Mirco Di Sandro
Federica Di Sarcina
Giusi D'Urso
Silvia Duranti
Michele Ercolini
Alessandro Fabbrizzi
Elena Falaschi
Francesco Falaschi

David Fanfani
Paolo Favilli
Luigi Ferrajoli
Alessandra Ferrara
Maurizio Ferrari
Francesco Ferrini
Giulio Ferroni
Maria Fiano
Simone Ficicchia
Gianluca Fiorentini
Antonio Floridia
Giovanni Luigi Fontana
Fiore Fontanarosa
Sergio Fortini
Marina Foschi
Sara Franceschelli
Tiziano Fratus
Francesca Gabbriellini
Nicola Gabellieri
Alessandro Gagliardi
Sarah Gainsforth
Domenico Gallo
Beatrice Galluzzi
Roberta Garibaldi
Danilo Gasparini
Maria Pia Gasperini
Catia Eliana Gentilucci
Manuela Geri
Andrea Ghelfi
Vera Gheno
Cristina Ghirardini
Manuela Giobbi
Stefano Giommoni
Andrea Giotti

Marco Giovagnoli
Beatrice Giovannetti
Paolo Giovannini
Antonella Golino
Vittorio Graziosi
Corradino Guacci
Jennifer Guerra
Luciano Guerrieri
Sara Guiati
Alfonso Maurizio Iacono
Barbara Imbergamo
Paola Imperatore
Fabio Indeo
Matteo Innocenti
Marco Jacoviello
M. Cristina Janssen
Anna Kauber
Sabrina Lallitto
Ingrid Lamminpää
Mario Lancisi

Giuliano Landini

Patrizia Lattarulo
Gianluca Lentini
Giovanna Lenzi
Emanuele Leonardi
Toby Lester
Marta Letizia
Vincenzo Lombardi
Donatella Loprieno
Micaela Lottini
Leonardo Lovati
Stefano Lucarelli
Michele Lungonelli
Giuseppe Lupo
Stefano Maggi
Simone Mangani
Enrico Mannari
Marco Marchetti
Maria Rosaria Marella
Enrico Mariani
Nunzio Marotti
Alessandra Martinelli
Luca Martinelli
Angelo Marucci
Marco Masoni
Luigi Mastronardi
Michele Mazzi
Paolo Mazzucchelli
Giuseppe Melucci
Emanuele Menietti
Michele Mezza
Serena Milano
Manuela Militi
Chiara Missikoff
Antonio Monte
Guido Morandini
Silvia Morato
Massimo Morisi
Marco Moroni
Rossella Moscarelli
Alessandro Moscatelli
Nicoletta Moschini
Museolab6
Tiziana Nadalutti
Alessandra Narciso

Sasha Naspini
Fausto Carmelo Nigrelli
Simonetta Noè
Franco Novelli
Francesco Orazi
Sergio Paglialunga
Maurizio Pallante
Luca Pallini
Gianni Palumbo
Vito Palumbo
Stefano Pancari
Anna Paolella
Caterina Paparello
Letizia Papi
Vincenza Papini
Roberto Parisi
Valeria Parrini
Giorgio Pasquinucci
Antonello Pasini
Alberto Pellai
Ivan Pereira
Camilla Perrone
Matteo Petracci
Marco Petrella

Paolo Pezzino