Industria
di Monica Pierulivo
A chi faceva i turni di notte
Camminando sulle 108
A chi, per studiare, partiva
Su binari d’acciaio
A Adb Elsalam Ahmed Eldanf,
morto durante un picchetto
(Alberto Prunetti, 108 metri. The new working class hero, Laterza 2018)
L’industria ha definito lo sviluppo della società occidentale negli ultimi tre secoli e ha conformato in gran parte il mondo attuale, caratterizzandolo anche come fortemente ineguale e competitivo, con la sua drammatica divisione tra paesi industrializzati da una parte e paesi non industrializzati dall’altra.
In questo lungo percorso l’industrializzazione ha creato strutture sociali e identità, ha portato benessere, istruzione ed emancipazione, sviluppo della tecnica e delle tecnologie; ha anche permeato nel tempo i caratteri morfologici dei paesaggi attraverso la costruzione di edifici industriali, processi produttivi, infrastrutture, villaggi.
Allo stesso tempo negli ultimi decenni molti territori hanno dovuto affrontare e stanno ancora attraversando enormi difficoltà legate a una crisi industriale che ha trascinato con sé anche altri settori, imponendo il ripensamento dei modelli di sviluppo economico attraverso necessari processi di riconversione e diversificazione.
Si fa risalire al 1973, anno della crisi petrolifera prodotta dall’aumento dei prezzi delle materie prime e del greggio, la fine di quella fase di espansione economica che aveva interessato i Paesi del mondo occidentale a partire dagli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Entrava in crisi un processo che aveva visto una accelerazione senza precedenti dei tassi di sviluppo industriale, e che apriva ad una fase nuova, caratterizzata da un generale ridimensionamento del settore industriale.
È da quegli anni che si comincia a parlare di deindustrializzazione intesa come ridimensionamento del ruolo dell’industria nell’ambito dell’economia nel suo complesso sia dal punto di vista dell’occupazione che del valore della produzione. Un fenomeno che può assumere diverse connotazioni con grandi ripercussioni, legate all’apertura di nuovi scenari, a profondi cambiamenti politico-sociali, talvolta alla delocalizzazione di capitale e lavoro, marcando divisioni, ingiustizie sociali, disuguaglianze e drammi per famiglie escluse improvvisamente dal mondo del lavoro.
Ma la deindustrializzazione può rappresentare anche una grande scommessa per rivedere e rileggere la “modernità industriale” in chiave di maggiore sostenibilità per il futuro del pianeta. Comprendere gli aspetti di questo fenomeno, in tutte le sue conseguenze – sociali, economiche e politiche – è un necessario punto di partenza per affrontare questo dibattito estremamente attuale.
Un’opportunità da cogliere per creare nuovi modelli di sviluppo all’interno dei quali coniugare benessere, innovazione culturale e maggiore efficienza delle istituzioni locali. Modelli che altrove sono stati declinati su parole chiave come valorizzazione degli spazi collettivi, moderato consumo di suolo, coordinamento tra destinazioni d’uso e trasporto pubblico, sostenibilità ambientale. Obiettivi che richiedono necessariamente una visione d’insieme e di lungo periodo, il rafforzamento di una regia pubblica nel processo di rigenerazione urbana, una negoziazione trasparente pubblico/ privato, l’adozione di politiche per la città al reale servizio dell’interesse collettivo.
Piombino è un caso emblematico da questo punto di vista. Gli interventi che sono stati messi in campo fino a oggi si sono limitati a contenere gli effetti più drammatici delle trasformazioni che interessano il mercato del lavoro. Sono mancati, come invece è avvenuto in molte parti d’Europa, grandi obiettivi strategici nazionali e scenari entro i quali sollecitare lo sviluppo delle imprese, forme di tutela dalla spietata concorrenza del capitale straniero e adeguati investimenti nel settore della ricerca.
In questo contesto di grande complessità, il patrimonio industriale continua a essere una componente essenziale della nostra società, per la sua dimensione materiale e immateriale che conserva le tracce dei luoghi di lavoro, fondamentali nel momento stesso in cui le fabbriche vengono chiuse e abbandonate, oppure riutilizzate per altri scopi.
La prospettiva storica favorisce inoltre una migliore comprensione della fabbrica del XXI secolo se nei resti materiali e immateriali dell’architettura industriale del passato si riconosce un valore testimoniale da salvaguardare e tutelare anche quando si tratta di confrontarsi con temi e questioni di storia ambientale, di rigenerazione urbana legati al rapporto tra fabbrica e città, alla possibilità di integrare e coniugare industria e turismo come avveniva anche nel passato.
I secondi Stati Generali del Patrimonio industriale organizzati dall’Associazione Italiana per il Patrimonio Industriale (AIPAI) (Roma, 9 -11 giugno 2022), affronteranno molti di questi temi con una grande articolazione di contenuti in perfetta coerenza con un campo di studi di carattere eminentemente interdisciplinare.
Oggi siamo di fronte a nuove sfide, nuove strategie d’intervento che devono introdurre creatività e innovazione. Non è più possibile agire solo secondo la logica conservativa ma sono necessarie anche creatività e innovazione per rilanciare territori colpiti dalla deindustrializzazione e restituire questi beni alla società come patrimonio culturale collettivo.
Valorizzazione del patrimonio industriale, bonifiche e rigenerazione delle aree, rilancio produttivo devono andare di pari passo secondo una formula e una prospettiva diverse da quelle propugnate dal paradigma neoliberista. Una prospettiva cioè che dovrebbe essere finalizzata ad allargare i benefici della globalizzazione a più ampi strati della popolazione e fondata su una concezione di Stato che si sviluppa e diventa più ricco proprio riducendo le differenze sociali e gli squilibri territoriali, le economie distruttive per l’ambiente e le attività produttive dannose per la salute.
Adriano Olivetti negli anni Trenta sviluppò un modello che concepiva l’impresa come un’organizzazione sociale, un luogo in cui, oltre al profitto, si mirava al benessere delle persone che vi lavoravano secondo un modello di impresa che oggi definiremmo sostenibile anche dal punto di vista umano. Questo esempio di “fabbrica felice”, ripreso e attuato in seguito da altri imprenditori, è ancora più necessario in un’epoca di forte digitalizzazione in cui l’uomo sembra perdere la sua centralità. Un modello di sostenibilità che unisce umanesimo, produzione e bellezza.
Di tutto questo e anche di altro, parleremo in questo numero.