Clima

La scelta per il futuro

Intervista ad Antonello Pasini

di Monica Pierulivo

 Negli ultimi anni gli eventi catastrofici estremi sono diventati sempre più frequenti e dirompenti, e tutti sembrano avere come denominatore comune i cambiamenti climatici. Nel suo ultimo libro, “L’equazione dei disastri”,  sostiene che i cambiamenti climatici in atto dipendano in massima parte dall’azione dell’uomo. Ci può spiegare perché?

La responsabilità dell’azione umana è ormai assodata da questo punto di vista. Abbiamo innescato delle dinamiche naturali che stanno rispondendo alle nostre azioni. Lo dimostrano gli eventi sempre più frequenti come frane, esondazioni, allagamenti ecc., ma anche gli eventi non estremi come l’aumento della temperatura media globale, che è un fenomeno graduale, innescato dal fatto che bruciamo combustibili fossili, emettiamo gas serra come la Co2, eliminiamo gli assorbitori dell' anidride carbonica attraverso la deforestazione ad esempio.
C’è poi il problema dei campi coltivati e dell’agricoltura sostenibile; l’uso di fertilizzanti azotati per rendere più fertile il terreno è molto nocivo, l’azoto utilizzato viene rilasciato in parte nell’atmosfera come protossido di azoto che è un gas serra molto più potente della Co2.
Il global warming potential, cioè il potenziale di riscaldamento di una molecola di protossido di azoto è quasi 200 volte quello di una molecola di Co2 e questo è molto impattante dal punto di vista delle emissioni atmosferiche.
Teniamo presente che negli ultimi 100 anni la temperatura media globale della Terra è aumentata di 1,2 gradi e questo non era mai successo con questa rapidità.
Del riscaldamento globale ci accorgiamo noi scienziati perché abbiamo le statistiche, altrimenti nessuno di noi si accorgerebbe di questo, se non fosse per l’aumento degli eventi estremi. Questi li vediamo soprattutto nel Mediterraneo. L’Italia ad esempio si è riscaldata più di 2 gradi negli ultimi 100 anni. Il Mediterraneo è quello che noi chiamiamo un hot spot, un punto caldo. Il libro è incentrato in modo particolare sull’Italia e parla di come si è estremizzato il clima del Mediterraneo e dell’Italia.

L’equazione dei disastri di cui parla nel libro è un’analisi del rischio?

Sì, il rischio che un evento collegato al clima possa causare danni a persone e al contesto circostante, va messo in relazione alla vulnerabilità del territorio e all’esposizione di persone e manufatti, oltre che alla pericolosità dell’evento climatico.
In una recente pubblicazione ho affrontato il tema delle migrazioni climatiche, occupandomi in modo particolare dell’Africa. Le aree da cui partono queste ondate migratorie sono caratterizzate da grandi cambiamenti climatici: il deserto che avanza sottraendo terreno alle colture ad esempio mettendo in ginocchio le economie locali.
Il cambiamento climatico contribuisce al disagio e all'aumento della povertà di intere popolazioni, esposte a molte fragilità. Un uragano che colpisca New Orleans o le Filippine, ha effetti diversi sui due territori perché le fragilità sono diverse. A New Orleans sarà molto più semplice riprendersi almeno per le fasce medio alte della popolazione, in Bangladesh o nelle Filippine la popolazione esposta a questo tipo di eventi perderà tutto. Le differenze di welfare e di società che esistono nel mondo creano situazioni ed esiti molto diversi n questi casi.
Per questo, nel fare l’analisi del rischio, dobbiamo considerare alcune variabili fondamentali: la vulnerabilità dei territori e l’esposizione delle persone e dei beni. Se l’alluvione lampo avviene nella pianura padana dove ci sono soltanto campi coltivati, può non avere grandi effetti sulle persone e i danni possono essere limitati, se escludiamo quelli agricoli. Se lo stesso evento capita in un’area densamente popolata, magari dove c’è poco verde e l’acqua quando scende non si infiltra nel terreno ma defluisce in superficie, i danni sono estremamente maggiori perché le strade diventano fiumi in piena e le persone possono anche morire.
Inoltre bisogna andare a vedere cosa c’è in questi territori fragili, dal punto di vista edilizio, infrastrutturale ecc. e questa rappresenta il fattore esposizione. Ad esempio se costruiamo una casa nell’alveo di un fiume, dovremo aspettarci che in caso di esondazione il fiume la distruggerà.
C’è da agire quindi su tutti e tre i fattori: sulla pericolosità degli eventi climatici per non far crescere il riscaldamento globale. Allo stato attuale è difficile diminuirlo, sappiamo infatti che l’obiettivo della comunità scientifica è quello di mantenere l’aumento della temperatura al massimo entro 1,5 gradi. Purtroppo ci siamo quasi arrivati perché siamo a 1,2 gradi. Non pensiamo di tornare indietro ma non possiamo pensare di andare verso scenari business as usual che provocherebbero aumenti di 4, 5 gradi nei prossimi decenni. 
Dobbiamo poi diminuire la vulnerabilità e questo possiamo farlo manutenendo le campagne, oggi più abbandonate. Nella città decostruire, se possibile, e realizzare comunque spazi verdi che assorbono le precipitazioni e che diminuiscono l’effetto delle ondate di calore.
Per quanto riguarda l’esposizione è necessario fare passi avanti sulla cultura del rischio e della prevenzione. La cultura del rischio non può essere dissociata dalla legalità, perché molti di questi problemi sono legati all’abusivismo. Basti pensare a cosa è successo a Ischia recentemente.

Ci può spiegare la differenza tra tempo meteorologico e clima?

Il primo è relativo allo stato dell’atmosfera in un dato luogo e istante, mentre il clima è la media e la variabilità di tanti “tempi meteorologici” su un lungo periodo di tempo cronologico. E’ l’analisi statistica nel lungo periodo e su vasta scala territoriale di alcune grandezze.  Il secondo è un concetto statistico che ci aiuta a elaborare la media climatologica e a capire i cambiamenti che il clima ha subito nel tempo.
Da questi dati statistici, la prima cosa che emerge è appunto l’aumento della temperatura al di là della variabilità naturale. Noi abbiamo cominciato a misurare i dati climatici dal 1800, in Italia possiamo basarci su serie storiche più lunghe rispetto al resto dell’Europa, perché sostanzialmente la meteorologia è nata nel Granducato di Toscana nella seconda metà del 600, con gli allievi di Galileo, Torricelli. Da queste si vede chiaramente che la temperatura almeno negli ultimi sessanta anni sta aumentando oltre ogni misura.

Come non era mai successo nella storia del clima?

Sì, noi abbiamo dati anche degli ultimi 800 mila anni che provengono dall’analisi delle carote di ghiaccio che si estraggono in Antartide, dalle quali si evince che il clima è sempre cambiato nella storia, però nel passaggio dall’era glaciale ai periodi caldi la temperatura tendeva ad aumentare di circa un grado ogni 1000 anni. Adesso, lo voglio ricordare ancora, abbiamo avuto un aumento di 1,2 gradi in 100 anni.
In passato si è visto che nel periodo romano e intorno al 1100 ci sono stati riscaldamenti, ma regionali e localizzati mentre quello recente riguarda il 98% della superficie terrestre. Ci sono studi che dimostrano chiaramente come il recente riscaldamento sia prodotto da qualcosa di esterno e oggi sappiamo che cosa è.

Il nostro paese è in una posizione di frontiera tra Europa e Africa dal punto di vista climatico?

Siamo sempre più investiti dagli anticicloni africani che portano un caldo molto maggiore rispetto ai precedenti anticicloni della Azzorre e provocano estrema umidità, oltre a siccità. Nel momento in cui si ritirano sull’Africa, perché non hanno la forza di rimanere sempre sul nostro territorio, lasciano le porte aperte agli influssi freddi; quando un’aria fredda incontra un’aria caldo-umida preesistente, e soprattutto un mare molto caldo, succedono i disastri.
Il clima, che una volta era più mite, si è estremizzato con ondate di caldo, ondate di freddo, alluvioni, neve al Sud ma non sulle Alpi. Una volta c’erano le perturbazioni atlantiche che arrivavano nel Mediterraneo, saliva l’aria, impattava sulle Alpi e nevicava. Nel versante italiano delle Alpi nevica quando le correnti provengono dai quadranti meridionali, mentre con le ondate di freddo da Nord nevica in Svizzera e Austria. Quando ci sono le ondate da Sud, l’aria è comunque più calda di una volta e se prima nevicava a 1500 metri, ora nevica a 1800. Questo significa che quei 300 metri di neve li abbiamo persi con tutta una serie di conseguenze. La neve infatti preserva le risorse idriche per la pianura padana, per la primavera e magari per l’estate. La pioggia, che scende violentemente, va subito in mare, si perde e questo è un grosso problema che origina il fenomeno della siccità al Nord di cui si sta parlando molto.

Cosa possiamo fare fin da subito?

Bisogna adattarsi perché non torneremo indietro con la temperatura, ma è necessario fare in modo di non arrivare mai ad eventi climatici dai quali non potremo più difenderci.
Faccio sempre l’esempio dei ghiacciai alpini. Questi stanno ancora rispondendo lentamente a quello che è successo negli ultimi decenni. La dinamica umana è rapida, quella naturale è più lenta ma rischia di essere inesorabile. Adesso i ghiacciai non sono in equilibrio con questa temperatura. Se anche la temperatura rimanesse così, tra 80 anni i nostri ghiacciai avranno comunque perso il 30% di superficie di ghiaccio e questo porterà a una diminuzione delle risorse idriche. Dobbiamo diffondere quindi sistemi di irrigazione per l’agricoltura non a pioggia ma a goccia, costruire invasi, ridurre la dispersione dell’acqua a causa delle cattive condizioni degli acquedotti ecc, interventi strutturali e di lungo respiro che vadano oltre la logica emergenziale.
Dobbiamo quindi evitare lo scenario business as usual. Se continuiamo così senza fare niente, nel 2100 i nostri ghiacciai potrebbero perdere il 90% di ghiaccio e praticamente scomparire. A quel punto come faremmo con le risorse idriche? Da un lato bisogna adattarci, e dall’altro dobbiamo mitigare, diminuire drasticamente da subito le nostre emissioni di gas serra fino ad annullarle perché l’anidride carbonica si accumula nell’atmosfera e vi rimane per molto.  Se oggi emettiamo 10 molecole di anidride carbonica, dopo 100 anni se ne trovano ancora 3, dopo 1000 anni ne troviamo ancora 1. Quindi c’è un tempo di permanenza molto lungo nell’atmosfera, per il quale da ora in poi non possiamo emettere più gas serra se non in piccolissime quantità.
 
Sono necessarie scelte politiche ed economiche forti. Si sta lavorando su questo?

Noi scienziati possiamo spingere i nostri politici a prendere in considerazione delle soluzioni scientificamente fondate. Nelle nostre ricerche ci basiamo su dati quantitativi che portano ad avvalorare delle misure fondate. Possiamo metterci al servizio della nazione per dare un indirizzo giusto. A questo proposito cito un’iniziativa intrapresa recentemente di cui sono il coordinatore che è la formazione del Comitato scientifico “La scienza al voto” di cui è possibile leggere sul sito www.lascienzaalvoto.it. Il Comitato vuole ricordare che, per realizzare ogni visione del futuro, occorre essere uniti sul clima, e chiede a cittadini e imprese di fare proprio e divulgare il messaggio che ciò che ci unisce è più di quel che ci divide, e che abbiamo soluzioni scientificamente corrette che possiamo adottare; e ai partiti di accordarsi per definire un organo di consulenza e valutazione scientifica sulla crisi climatica e ambientale, che potrebbe chiamarsi Consiglio Scientifico Clima e Ambiente, per essere aiutati a realizzare la società che immaginano.
Io sono uno dei primi firmatari di una lettera alla politica con la quale si evidenzia l’urgenza di agire in una direzione sin da subito. La lettera ha avuto il sostegno di oltre 200mila firme e c’è stata una petizione. La cittadinanza è quindi consapevole, la politica probabilmente è più indietro. Adesso però stiamo lavorando con la politica; abbiamo firmato da poco un accordo trasversale in cui ci si impegna a costituire un organismo di consulenza scientifica per il governo e per il parlamento all’inizio di questa legislatura. Abbiamo inoltre istituito un comitato di giuristi che ci aiuterà a elaborare un progetto di legge su questo punto, da discutere con i partiti. La scienza al servizio del Paese.

Quanto è ottimista per il futuro?
 
Sono moderatamente ottimista; la possibilità di fermare questo trend dipende molto da cosa succede a livello internazionale e anche dalle spinte che possono arrivare dal basso. Perché si può agire a più livelli, a livello personale, di gruppi di cittadini, di comunità e altro. Oggi una iniziativa molto importante è quella delle comunità energetiche. Mettere insieme un supermercato, un centro commerciale, la scuola, i cittadini, fare energia in proprio, affrancarsi dalle lobbies dei combustibili fossili, può essere molto importante e diffondere anche il concetto di comunità solidali.
Qualche aspetto positivo c’è: l’Europa si è messa su una strada tutto sommato buona, al di là delle frenate per la guerra in Ucraina, gli Stati Uniti con Biden vanno in questa direzione, la Cina è una forza motrice enorme per le rinnovabili (più del 50% dei pannelli fotovoltaici oggi viene prodotto in Cina per la grande spinta dal basso da parte della popolazione sul governo),
Se l’Europa Stati Uniti, Cina si buttano su questo che è anche un business, tutti gli altri faranno fatica a mettersi contro. Potrebbe essere un passaggio irreversibile e me lo auguro.

C’è connessione tra terremoti e clima, visto l’ultimo terremoto in Turchia e Siria?
 
No, niente di sicuro, solo speculazioni. Qualche connessione ci può essere sui micro terremoti. Stiamo uscendo dalle ultime ere glaciali, con il riscaldamento globale e la fusione dei ghiacci intorno all’emisfero nord e ai paesi scandinavi, le zolle tettoniche che collegano l’Italia del Nord con la Scandinavia, si stiano muovendo. Questo movimento provoca fenomeni di abbassamento o rialzo  della superficie terrestre in aree diverse e questo può influenzare in qualche modo l’insorgere di micro terremoti.  Ma il problema non si pone per i grandi terremoti distruttivi come quello di questi giorni, che dipendono da altre cause.