Tutti in fila per tre

di Monica Pierulivo

 
Si è appena concluso l’anno scolastico, tra le discussioni che accompagnano solitamente la sua interruzione estiva. Ma c’è un tema fondamentale sul quale dobbiamo interrogarci ed è essenzialmente quale sia l’orizzonte ideale della scuola nel nostro Paese.
Un orizzonte ideale che non può sostanziarsi nella realizzazione del liceo del made in Italy, nell’istituzione Ministero dell’istruzione e del merito. Tanta ideologia, retorica e vuoto cosmico dietro queste assurde formule dalle quali si evince l’incapacità di analizzare i problemi reali che la scuola si trova di fronte.
Il disinvestimento nel settore dell’istruzione e della formazione, compresa l’Università, che dura ormai da qualche decennio ha infatti prodotto un disastro. Quando si confronta l’Italia con altri Paesi ad analogo tasso di sviluppo, è ormai quasi rituale riconoscere come il nostro paese si caratterizzi per bassi livelli di scolarità, risultato degli elevati tassi di abbandono che hanno sempre caratterizzato le scuole italiane, come sottolineava don Lorenzo Milani da Barbiana, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, nel suo famoso “Lettera ad una professoressa” del 1967.
Quest’anno ricorre anche il centenario della riforma Gentile, e il sistema educativo italiano è ancora in gran parte fermo sulle scelte fatte nel 1923, con un dibattito sulla scuola egemonizzato ancora da visioni che per molti versi sono eredi delle alleanze politiche di allora: classista da una parte, compassionevole dall’altra (C. Raimo, Liberiamo la scuola dalla retorica, “L’Essenziale” 6 ottobre 2022).
C’è ancora una percentuale molto alta di giovani che non completa l’istruzione dell’obbligo: ad abbandonare la scuola media e superiore sono soprattutto i maschi, gli alunni stranieri, i ragazzi del sud e coloro che sono in ritardo scolastico.
Altri dati, provenienti da Eurostat, dicono che nel 2021 il 12,7% dei giovani italiani tra i 18 e i 24 anni ha abbandonato precocemente la scuola, fermandosi alla licenza media. È un dato importante, considerata la media europea del 9,7% e il fatto che l’Italia si trova agli ultimi posti della classifica. Anche in questo caso le differenze sono legate al territorio, all’ambiente sociale di origine, al genere e alla cittadinanza.
Ci sono anche alunni che a scuola ci vanno, ma non imparano. Oppure imparano male, poco, o in modo irregolare. Anche se questi giovani non fanno numero nelle principali statistiche sulla dispersione scolastica esplicita, possiamo in un certo senso includerli tra i dispersi. Anche quando riescono a ottenere un titolo di studio, infatti, questi giovani si trovano ad affrontare la vita adulta senza avere le competenze minime necessarie per esercitare la cittadinanza attiva, proseguire gli studi, o intraprendere un percorso professionale. Questo tipo di dispersione viene definita come implicita e riguarda il 9,7% di alunni e alunne; solo il 56% degli alunni di terza media raggiunge i livelli di competenze previsti in matematica, e il 61% in italiano.
Di dispersione implicita ha parlato anche Save the children a maggio 2022, con un allarme lanciato in occasione dell’apertura di Impossibile 2022, un convegno sui temi dell’educazione evidenziando che l’incapacità di un ragazzo di 15 anni di comprendere il significato di un testo scritto, è al 51 per cento. Un dramma, non solo per il sistema di istruzione e per lo sviluppo economico, ma per la tenuta democratica di un Paese. I più colpiti sono gli studenti delle famiglie più povere, quelle che vivono al sud e quelle con background migratorio. 
La scuola dovrebbe invece dare la possibilità a tutte le cittadine e ai cittadini di domani di esercitare un pensiero critico, di prendere in mano la propria vita e di condurla nella direzione che si vorrà trovare. È l'idea di una scuola che fotografa il mondo e incasella gli studenti in modo che questo mondo rimanga fermo, uguale a se stesso, immobile. 
Il Pnrr destina un miliardo e mezzo di euro al contrasto alla dispersione implicita, ma non indica in che modo questi soldi dovrebbero essere investiti dalle scuole, proprio perché forse è la nozione stessa a essere confusa. Il rischio è quello di mescolare in modo eccessivo gli interventi di welfare con quelli educativi. 
Restituire pertanto centralità al processo educativo e pedagogico, con attenzione ai contesti sociali e ai territori dove le scuole si trovano, investire anche sulle piccole scuole contrastando i processi di polarizzazione dell’istruzione che sono in atto da tempo, significa creare i presupposti di un cambiamento reale, teso a rimuovere gli ostacoli per una uguaglianza sostanziale e a dare pari opportunità a tutti, come recita l’art. 3 della nostra Costituzione.