L’idea dell’uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo[1].
Nel dibattito filosofico, la differenza tra uomo e animale è stata sempre determinata dal concetto di razionalità (ratio), cioè di lógos (λόγος), perché tale facoltà attribuisce un preciso valore ontologico e sociale discriminante. Nella Politica, Aristotele definisce l’uomo come animale razionale perché «[...] l’uomo è zoon logon echon, ossia animale avente il logos ed evidentemente qui il logos riferito all’uomo è la parola. Dopo aver ribadito che l’uomo è animale politico, il filosofo distingue la phoné, ossia la voce, che è data anche agli altri animali, dal logos, che costituisce il proprio dell’uomo, l’unico ad avere coscienza del bene e del male».[2]
Essere, dunque, agenti razionali significa anche avere dei principi etici, cioè possedere un senso morale critico, ossia giudizioso, che qualifica le nostre azioni dicotomicamente e principalmente in bene e in male, in giusto e sbagliato. Ma non solo, essere animali razionali significa da una parte conservare in eredità biologica la dimensione prettamente sensitiva e istintiva che influenza i nostri comportamenti, dall’altra rendere la ragione uno strumento regolatore necessario al raggiungimento e mantenimento di equilibri virtuosi individuali e comunitari. Se l’essere umano è l’unica specie ad avere il lógos allora il suo compito deve essere quello di finalizzare le sue funzioni a contrastare il male per garantire una stabilità pacifica con se stessi e tra gli individui.
Riprendendo la lettura politica hobbesiana, la ragione, in sostanza, ci aiuterebbe a uscire dallo stato di natura, dove uccidere è una necessità, dove l’uomo lotta contra i suoi simili esercitando potere ai fini della sua sopravvivenza (homo homini lupus). Lo stato di natura, egoista e individualista, viene sostituito da uno patto sociale in cui la costruzione e la ricerca della pace diventa un obiettivo degli uomini.
Eraclito, il filosofo del divenire, riconosce in polemos (guerra) il «padre di tutte le cose e di tutte re», richiamando l’attenzione alla guerra come dimensione costitutiva del cosmo, come la forza dominatrice della vita. Ma ogni elemento genera il suo contrario, e così per Eraclito l’opposto di polemos è il lógos secondo cui «tutte le cose avvengono» secondo ragione.
Nell’analisi della questione sulla pace, la riflessione kantiana non può essere omessa. Infatti, per Kant la pace è «la fine di ogni ostilità» fra gli Stati, è l'idea della ragione, è una necessità che però non appartiene agli uomini naturalmente. Infatti, «lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni a fianco degli altri, non è uno stato naturale», perché lo stato naturale «è piuttosto uno stato di guerra, ossia anche se non sempre si ha uno scoppio delle ostilità, c’è però la loro costante minaccia»[3]. Inoltre, secondo Kant tutti i trattati di pace sono solamente delle tregue, delle pause dai conflitti tra gli Stati. E la storia dimostra che quando si parla di pace il più delle volte si parla di tregue, di negoziazioni temporali e non risolutive.
Secondo l’ultimo report[4] (2024) del GPI (Global Peace Index), il mondo è diventato meno pacifico per la dodicesima volta negli ultimi 16 anni, con un peggioramento del livello medio di pace, intesa come rapporto di sicurezza e protezione, nei singoli Paesi dello 0,56% rispetto all'anno precedente. In totale, la pace è migliorata in 65 Paesi ed è peggiorata significativamente in 97 paesi.
Le guerre del nostro secolo sono diverse rispetto a quelle di altre epoche storiche, le quali erano causate per lo più per scopi di espansioni territoriali. Oggi, molte guerre sono causate da più fattori come gli interessi economici di stampo capitalistico, il controllo di risorse strategiche interne a un paese, o per rivendicazioni territoriali, cioè per affermare il diritto alla patria come il conflitto israelo-palestinese.
Comprendere le cause materiali alla base dei conflitti è una delle logiche che favorirebbero la possibilità di pacificazione dei rapporti internazionali e come propone l’economista Brancaccio, nel suo “La condizioni economiche della pace”, una proposta potrebbe essere quella di adottare un piano di “gestione politica coordinata degli squilibri economici e finanziari globali”.
Uno degli aspetti che nuoce molto al concetto di pace è la narrazione che si fa intorno a tale parola, perché quando si parla di pace si pensa a qualcosa che resta confinato alla dimensione utopica, al sogno, all’irrealtà, all’ingenuità, alla non soluzione dei conflitti, mentre la guerra è qualcosa di fattibile.
Come osserva il filosofo Umberto Curi, l’utopia è stata l’unico modo con cui la pace negli ultimi secoli è stata pensata, perché si pensa che essa non abbia una dimensione spaziale concreta, ma siamo in una fase della storia umana in cui la pace è l’unico obiettivo da raggiungere, l’unica soluzione possibile. L’unica che ha tutte le ragioni dalla sua parte e che dà dignità agli esseri umani e al pianeta.
[1] T. W. Adorno ‐ M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, tr. it. Einaudi, Torino 2010, p. 134.
[2] M.T. Speranza, L’animale che dunque sono? Intorno a Derrida per una genealogia del rapporto uomo-animale:https://www.scienzaefilosofia.com/2018/03/25/lanimale-che-dunque-sono-intorno-a-derrida-per-una-genealogia-del-rapporto-uomo-animale-2/.
[3] I. Kant, Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano 1991.
[4] Report Global Peace Index 2024: https://www.economicsandpeace.org/wp-content/uploads/2024/06/GPI-2024-web.pdf