Forte come l'amore è la guerra

di Patrizia Lessi

 

C'è un passaggio in The Hurt Locker, film con cui nel 2010 Kathryn Bigelow è stata la prima donna a vincere l'Oscar come miglior regista, in cui il sergente James, reduce da una lunga permanenza in Iraq e tornato a casa dalla moglie e dal figlio di pochi mesi, gira disorientato fra i reparti di un supermercato. Con gli occhi persi in cerca di indicazioni precise su dove andare e cosa prendere, l'uomo è impermeabile alle lusinghe di un lunghissimo corridoio pieno ai lati di marche di cereali. Confuso da quella rassicurante abbondanza ne prende uno totalmente a caso e lo butta nel carrello. In questo come in altri momenti cruciali del film, il protagonista, valoroso artificiere che con la sua squadra ha quotidianamente sfiorato la morte, pianto compagni, fatto scelte eroiche e provato affetto per un bambino dell'indifesa popolazione civile iraqena, tornato in America perde non solo i punti di riferimento, ma ciò che lo rende profondamente se stesso. L'autentico James sembra essere rimasto nel  luogo che pur nella violenza e nel sangue è ormai irreversibilmente divenuto casa sua.

The Hurt Locker indica in inglese molte cose e Bigelow gioca fra i diversi significati dell'espressione nella quale troviamo contemporaneamente la zona di guerra in cui si può morire o rimanere menomati e la cassetta del dolore, la scatola con lucchetto in cui ogni soldato tiene le foto di famiglia, ricordi, portafortuna, lettere, cimeli. Essa è l'oggetto che assieme all'eventuale salma viene restituito ai familiari del morto. L'area in cui si può perdere la vita e il box in cui quella stessa vita si afferma identitariamente sono chiamate allo stesso modo e  per il sergente James, senza l'una e l'altro fra i reparti di un supermercato, mentre toglie le foglie accumulatesi sul tetto di casa o gioca col proprio bambino, la luce dell'esistenza poco a poco si affievolisce fino a lasciarlo in un buio fitto da cui uscire soltanto tornando a riconoscersi su un elicottero che sorvola il deserto. Si direbbe che il suo sia un tipico caso di sindrome del soldato, la condizione per la quale a seguito dei traumi subiti in guerra chi torna vive dissociato dalla realtà, inerte o ipereattivo a stimoli innocui, come accadde a molti reduci della Prima Guerra Mondiale vittime di gravi forme d'ansia o di delirio, incapaci di svolgere azioni comuni come prepararsi da mangiare o passeggiare in un parco senza chiudersi in un' indifferenza impenetrabile alternata a esplosioni di panico incontrollato. Il sergente James non è traumatizzato. È un compagno e un padre amorevole, si sforza di reintegrarsi nella società civile ma non può sottrarsi alla mancanza di senso che quotidianamente sperimenta lontano dal reparto artificieri in un'altra terra e che lo fa aderire completamente all'affermazione che apre il film di Bigelow: “La guerra crea dipendenza.” 

Un legame tale da portare molti soldati a giocare ai videogames di guerra durante i turni di riposo, a trovare nella solidarietà degli uni con gli altri e nella caccia al nemico una ragion d'essere superiore a qualsiasi cosa.  Forte come la  morte è l'amore, tenace come gli inferi è la passione ci dice Francesco d'Assisi, ma cosa succede quando dobbiamo riconoscere che la Storia di ogni popolo, indipendentemente da epoca e luogo, ha conosciuto e trasmesso un terribile amore per la guerra


Con questo interrogativo James Hillman, fondatore della psicologia archetipica e famosissimo per  i numerosi studi pubblicati durante la sua prolifica attività di saggista, intitola nel 2005 una delle sue ultime opere. Attingendo a una suggestione cinematografica (il cinema ha forse più di ogni altra arte  impattato nel '900 l'immaginario legato alla guerra) Hillman cita una scena di Patton, generale d'acciao in cui in mezzo al campo di battaglia devastato, tenendo fra le braccia un giovane ufficiale morente, il protagonista esclama “Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita.”  

Il generale non è pazzo. Non è un sadico che trova nella violenza e nel sangue soddisfazione e ragion d'essere. Patton prova autentico cordoglio per gli uomini che al suo comando perdono la vita, tuttavia non rinuncerebbe, a costo di morirci, all'epica della guerra, all'intensità con cui afferma i valori del coraggio, della lealtà, del sacrificio e, soprattutto, dell'amore per la libertà e per la vita che nel rischio imminente di essere perdute riaccquistano lo status di ciò che è veramente importante e che nella pace smarriamo. Hillman non è interessato a descrivere e giudicare l'orrore della guerra perché se fosse bastato tener presente quello avremmo smesso di farla secoli fa. Ciò che lui si chiede è perché non riusciamo a liberarcene, perché la guerra sia tanto viva e presente a dispetto di riflessioni e conquiste inerenti il valore inestimabile della pace. Per fare questo occorre partire da una premessa indigeribile: la guerra è normale, intimamente connaturata a ciò che ci rende umani. Citando il filosofo inglese Thomas Hobbes, l'autore ci invita a comprendere che mentre il conflitto è naturale, la pace è artificiale, è il frutto di un accordo fra parti che decidono di imporsi una condizione collettiva in cui solo chi governa abbia il diritto e il dovere di esercitare la violenza per garantire la sopravvivenza di tutti. Mentre combattere è nello stato naturale delle cose, mantenere la pace è invece in quello culturale, in quella condizione alla quale accediamo per vivere in modo meno precario, ma che si sovrappone all'istinto animale di dominio e sopraffazione senza cancellarlo. Prima di chiederci come fare a eliminare la guerra dalla nostra società occorre perciò fare i conti con tutte le forme in cui essa è rimasta ben radicata nella nostra cultura e nel suo immaginario come struttura portante e inscalfibile dal lume della ragione. Ricorrendo al mito Hillman osserva che per i greci l'amante di Ares, il dio della guerra intesa come lotta cruenta e sanguinaria, c'è Afrodite, dea della bellezza e dell'amore sensuale. Uno dei loro figli, Eros, dio dell'amore romantico, colpisce al cuore con una freccia. Guerra, bellezza, passione, amore. Questo è il cerchio perfetto entro cui si innesca la naturale propensione umana a confliggere. Quanto sia difficile forzarne il perimetro ce lo indica l'enorme quantità di metafore marziali presenti in ogni ambito della vita civile, dalla  religione (nel libro un lungo capitolo è dedicato all'ineludibile rapporto fra guerra e cristianesimo) ai modi dire diretti o impliciti (guerra alla povertà, lotta contro il cancro, eliminazione della violenza contro le donne ecc...). Il linguaggio stesso ci invita a riflettere su quali debbano essere i presupposti per gestire “il terribile amore per la guerra” inestirpabile dagli individui e dalle loro comunità. Hillman osserva che negli ultimi anni qualcosa è cambiato.
La guerra è ormai progressivamente  andata ad esaltare da una parte la disumanità delle scelte (non si combatte sostanzialmente più fronte contro fronte, soldato contro soldato, ma isolando e attaccando immediatamente la popolazione civile, torturando e incarcerando chiunque sembri vicino alla causa nemica) dall'altra l'inumanità della conduzione bellica per la quale si bombarda con i droni riducendo le persone a bersagli e questi  a cumuli di pixels su uno schermo.
Disumanizzazione e inumanità parrebbero una tardiva vendetta di Efesto, legittimo compagno di Afrodite e fabbro degli dei in grado di produrre armi sempre piú asettiche nell'uitlizzo, estranee all'odore nauseante del sangue versato e della terra bruciata sulla quale la vita si spenge e sotto la quale la morte viene onorata. La tecnologia toglie però alla guerra anche il fascino di Ares, privandola dell'epica feroce appartenente al dio.

Sembra tuttavia ancora  impossibile eliminare la guerra dal nostro immaginario. Come uscirne  perseguendo un percorso più efficace rispetto a quello proposto da un ingenuo pacifismo? A questo proposito è interessante riflettere sulla distinzione che il sociologo Stefano Allievi fa fra il concetto di guerra e quello di conflitto. Sarebbe quest'ultimo la chiave per superare la guerra e non la pace. Il latino conflictus indica sì urto, scontro ma non necessariamente in senso distruttivo. È dall'opposizione fra opposti che prende vita la realtà nella quale viviamo (o per lo meno il modo in cui la vediamo). Quando Eraclito scrive che Polemos è padre di tutte le cose, intende dire che sono le differenze a renderci quello che siamo, a far sì che, posto il fatto che non siamo uguali gli uni agli altri, possiamo decidere di costruire rapporti basati sulla reciproca conoscenza o su una gerarchia di potere in cui mettere alcuni di noi sopra ed altri sotto. In quest'ottica il conflitto può porsi come concreta alternativa alla guerra perché contro l'idea comune che li vede sinonimi, il primo ha in sé anche l'aspetto del confronto, dell'urto che ci fa scoprire qualcosa o qualcuno di disomogeneo, non identico ma simile a noi. Questo cambiamento di prospettiva non è immediato né intuitivo. La tradizionale contrapposizione dell'idea di pace alle azioni di guerra non parrebbe però avere mai avuto (o avuto del tutto) gli esiti sperati. Nei fatti la Storia ha conosciuto momenti di ordine, non di pace.  Ma la società ordinata non è esente dal rifiuto (anche violento) dell'altro, di idee ed aspirazioni non conformi.   
Rimane l'opposizione buoni e cattivi, amici e nemici, conoscenti ed estranei (non stranieri come invece spesso si sente dire scorrettamente). Non si elimina la repressione violenta, la guerra a chi minaccia il potere costituito.  Nel conflitto riconosciamo i nostri confini e quelli altrui: il latino limes indica certamente la linea di demarcazione fra un territorio e un altro, ma originariamente ha indicato la strada, il sentiero fra due campi. Una frontiera praticabile in cui urtarsi e capire come siamo fatti. Forse l'ultimo modo per gestire un amore naturale e terribile entro i termini di un confronto più fattibile dell'aspirazione a una pace globale e realizzabile, purtroppo, solo nella bellezza dell'utopia. In modo che nella hurt locker di ciò che ci rende intrinsecamente umani possano essere conservati e protetti linguaggi nuovi, esperienze per gestire guerre interminabili e connaturate alla vita stessa.
 
Perché come insegna Cesare Pavese, non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'é guerra, cos'é guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi - e dei caduti che facciamo? Perché sono morti? - io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra é finita davvero.