Il lavoro artigiano secondo Richard Sennett

di Marco Giovagnoli

In un suo straordinario lavoro del 2008, The Craftsman, pubblicato nel 2013 in Italia come L’uomo artigiano, Richard Sennett, allievo (non ortodosso) di Hannah Arendt, prende le mosse proprio da una critica alla sua Maestra, la quale sosteneva che le solitamente le persone che fabbricano cose non capiscono quello che fanno (il riferimento primo erano per la gli esiti del Progetto Manhattan e la tragedia dell’arma atomica). Ma, ovviamente, questa dissociazione tra il fare e gli esiti del fare stesso appare in tutta la sua drammaticità nel processo ad Eichmann, dal quale emerge chiaramente che la banalità del male risiede proprio nell’ossessione nel far sì che una cosa funzioni, che il proprio lavoro venga portato a termine senza interrogarsi prima sulle sue finalità. Nei termini del ragionamento di Arendt questo è il profilo dell’animal laborans, l’essere umano dedito alla fatica routinaria, per il quale il mondo rappresenta un fine in sé; il suo opposto (e sottoposto) è l’homo faber, giudice del lavoro e delle pratiche materiali, colui che si interroga sul ‘perché’, mentre l’animal laborans concentra la sua attenzione sul ‘come’. L’ossessione per il “come” esclude l’idea di pensiero, di riflessione, che si palesano solo a lavoro compiuto e quando le conseguenze dell’azione si sono sovente del tutto tragicamente dispiegate.

Sennett ha un’idea diversa: le due figure vanno riallineate secondo l’idea che “le persone possono apprendere informazioni su di sé attraverso le cose che fabbricano [e che] la cultura materiale è importante”; l’animal laboransrappresenterebbe, proprio attraverso l’attenzione alla materia lavorata e alle modalità di lavorarla, una specie di guida per l’homo faber, o in altri termini che il processo di lavorazione sia prodromico alla consapevolezza e alla finalizzazione dell’agire. In questa riconcettualizzazione assume un rilievo assoluto il concetto di maestria, che l’industrializzazione ha (solo apparentemente) messo in soffitta ma che secondo Sennett mantiene del tutto intatta una assoluta centralità, in virtù di quell’impulso – o forse bisogna parlare di un bisogno – umano fondamentale che è la voglia di “svolgere bene un lavoro per se stesso”.
Nell’idea di maestria, tecnica e pensiero vanno di pari passo e ciò adatta perfettamente alla manipolazione della materia (i liutai, i cuochi) ma altrettanto bene al lavoro del programmatore informatico (la comunità di Linux, ad esempio), del medico e degli infermieri, degli artisti. La maestria richiama all’intimo nesso che esiste tra la mano e la testa: “Ogni bravo artigiano conduce un dialogo tra le pratiche concrete e il pensiero; questo dialogo si concretizza nell’acquisizione di abitudini di sostegno, le quali creano un movimento ritmico tra soluzione e individuazione dei problemi. La relazione tra mano e testa si mostra in ambiti apparentemente lontani come il tirare su un muro, il cucinare, il progettare una struttura ricreativa o il suonare il violoncello – ma tutte queste pratiche possono fallire o non giungere a maturazione. Non c’è niente di automatico nel diventare tecnicamente abili, così come non c’è niente di brutalmente meccanico nella tecnica in sé. La civiltà occidentale ha sempre avuto una innata difficoltà nel ricollegare mano e testa […]”. C’è in Sennett un forte richiamo agli ostacoli organizzativi e sociali al pieno dispiegamento della maestria: “le condizioni sociali ed economiche ostacolano la disciplina e l’impegno del bravo ‘artigiano’; la scuola a volte non riesce a fornire gli strumenti necessari e i luoghi di lavoro non valorizzano come dovrebbero l’aspirazione alla qualità”. Eppure, la maestria dell’artigiano in quanto trasformatore della materia si è manifestata nel corso dei secoli in vario modo e lo si è visto chiaramente nel caso dei capimastri medievali, che di fatto erigevano le cattedrali al posto degli architetti. È l’esempio, citato da Sennett, della cattedrale di Salisbury, la cui costruzione occupa quasi tutto il Milleduecento e impegna tre generazioni di muratori e carpentieri senza un progetto esecutivo definitivo in mano.

Il ragionamento che Sennett espone nel suo libro è diviso sostanzialmente in tre parti. Nella prima, Sennett si concentra sul laboratorio e sulla sua natura di ‘luogo sociale di apprendimento’ e di trasmissione del saper fare, sul suo mutamento dall’iniziale ambito collettivo – pur nella sua struttura gerarchica – verso una sempre più spinta individualizzazione originata dalla trasformazione e dalla separazione tra l’artigiano e l’artista, tipica della cultura rinascimentale. Si discute inoltre del complicato rapporto tra l’artigiano e la macchina, partendo dal tentativo illuministico di riconciliare le due polarità fallito con l’evolversi della società industriale e consumistico-produttivista, come ha ben descritto Thorstein Veblen.

C’è poi una seconda parte, dove Sennett sviluppa due tesi: le abilità, anche quelle più astratte, originano come pratiche corporee; a seguire, l’intelligenza tecnica si accresce attraverso le facoltà dell’immaginazione. Nel caso della dimensione corporea, caratterizzata da tatto e movimento, si sviluppa, per Sennett, la conoscenza, mentre nel secondo assume particolare centralità il linguaggio e le diverse modalità espressive di coordinamento dell’attività corporea. Nel lavoro artigiano resistenza e ambiguità, nella manipolazione del reale, si configurano come compagne e non avversarie del lavoro stesso, tanto da poterne trarre importanti insegnamenti e progressi come nell’utilizzo eterodosso di strumenti inizialmente dedicati ad altri compiti, o nell’apprendimento derivante dall’errore. Centrale nell’agire con maestria è proprio la gestione consapevole dell’errore, il padroneggiarlo, la capacità di non essere travolti dall’errore stesso, o averne timore, e questa è una capacità che l’artigiano sviluppa con la pratica e la ripetitività del gesto. Fortemente esemplificativo del rapporto tra abilità e pratiche corporee, da un lato, e la trasmissione delle pratiche attraverso il linguaggio e le capacità espressive dall’altro è l’attività di cucina e la definizione di “uso della forza minima” nell’uso degli utensili (in particolare i coltelli, cui Sennett dedica un preciso e vasto passaggio a cavallo tra Occidente e Cina), in particolare nell’uso di mano-polso-avambraccio nella gestione della mannaia (esempio preciso del rapporto diretto tra pratiche corporee e apprendimento) che porta il cuoco a ridurre la propria forza applicata (la mannaia “cade”) e a non danneggiare il cibo (l’ideale del taglio simmetrico del chicco di riso bollito, standard idealtipico della cucina imperiale cinese).

Nella terza parte si discute invece dei problemi della motivazione (non della creatività! che Sennett taccia di un eccesivo romanticismo) e del talento, con la convinzione che la prima conti più del secondo, una idea chiaramente illuministica per la quale in ciascun individuo si trova un artigiano intelligente, in grado di fare bene almeno una cosa. Sennett chiarisce bene questo passaggio discutendo della gestione dell’ossessione per la perfezione, una ossessione che può anche ‘perdere’ il bravo artigiano, se non correttamente gestita: replicare gli Stradivari è impossibile (anche per l’oscurità delle regole che il loro creatore aveva portato con sé nella tomba) e se non lo si capisce l’esempio del maestro diventa paralizzante. Meglio contemplare l’esempio come l’orizzonte del possibile, dedicandosi meglio a come fare bene le proprie opere (di qui la motivazione). La motivazione – la passione rappresenta il motore dell’apprendimento: lo si comprende bene quanto più osserviamo, nell’attività artigianale, la persistenza del richiamo al gioco, che rimanda agli elementi del divertimento, del piacere, e dell’appagamento che sono indispensabili per la riuscita professionale almeno tanto quanto la padronanza tecnica.
 
Sennett deriva da queste riflessioni anche una conseguenza ‘sociologica’: “l’arte di fabbricare oggetti fisici fornisce spunti anche sulle tecniche che possono conformare i rapporti con gli altri”, il che equivale a dire che la capacità, ossia l’abilità, e la gestione delle difficoltà nella realizzazione materiale potrebbero essere funzionali alla comprensione e alla gestione delle relazioni sociali, come nel caso delle interazioni e delle resistenze tra persone. Il testo di Sennett non si occupa in particolar modo delle ricadute sulla politica delle sue riflessioni, e del resto Sennett lo dice chiaramente, ma l’Autore traccia una direzione di approfondimento nella convinzione jeffersoniana per cui il fondamento della cittadinanza risiede nell’imparare a fare bene il proprio lavoro: “nel lavoro artigiano ci sono motivi per dar credito alla fede democratica del pragmatismo; essi risiedono nelle attitudini naturali alle quali gli esseri umani attingono nel perfezionare le proprie abilità tecniche: l’universalità del gioco, le capacità fondamentali di scendere nello specifico, di porre domande, di aprirsi all’esterno. E tali capacità non sono appannaggio di una élite, ma sono largamente diffuse tra gli esseri umani”. Le conclusioni si rifanno alla dimensione più squisitamente etica del lavoro artigiano: la ricompensa dell’impegno applicato sta nell’orgoglio per il proprio lavoro, ed anche nella progressiva acquisizione di abilità e competenze, frutto del tempo lento che solo permette una competenza radicata, originale, di lunga durata. L’uomo artigiano non ama le imitazioni, magari premianti nel breve termine ma estranee al profilo sin qui delineato: “la semplice imitazione non procura una soddisfazione durevole: la bravura deve evolvere. Il tempo lento del lavoro artigiano è una fonte di soddisfazione perché consente alla tecnica di penetrare e radicarsi, di diventare un’abilità personale. E la lentezza favorisce le attività della riflessione e dell’immaginazione, impossibili sotto la pressione per ottenere risultati veloci”.
 
Non si nasconde, Sennett, che alcuni tratti evidenti della globalizzazione, come l’ossessione per la produzione di massa, la mercificazione del mondo e delle relazioni sociali, la velocizzazione dello spazio-tempo, la standardizzazione dei prodotti e dei servizi, la prevalenza dei rapporti mercantili come modello relazionale anche nelle sfere non di mercato (come acutamente aveva previsto Karl Polanyi) hanno esercitato una pressione forte su alcune delle dimensioni del lavoro artigiano sopra richiamate – ad esempio sulla prassi non imitativa e sulla capacità di lavorare in maniera collaborativa. Anche senza voler troppo generalizzare, la pressione sul lavoro – quello artigiano ma non solo – espressa dalla  globalizzazione di stampo neoliberista e dall’ossessione produttivistica e per il profitto (ma l’idea di un mondo a due ‘ranghi’, quello gerarchicamente sovraordinato dell’immaterialità e quello subordinato della materialità, residuale nei paesi sviluppati e consegnata a quelli “emergenti”), si è manifestata in vari modi, tra i quali lo sviluppo del precariato e di conseguenza la incapacità di sviluppare competenze e relazioni stabili a lungo termine. Il ricorso massiccio al lavoro precario e il continuo ricambio lavorativo delle collaborazioni rendono difficile la trasmissione tradizionale di conoscenze, il loro accumulo tipico del lavoro artigiano, l’esperienza come evento cumulativo, la trasmissione di saperi stabili.