Filosofia? Roba da bambini!

di Patrizia Lessi

Nel recente Come non insegnare filosofia Massimo Mugnai, docente per molti anni di Storia della logica a Pisa, racconta l’esperienza di selezione scritta e orale per l’ingresso nella classe di Lettere, indirizzo in Filosofia, alla Scuola Normale Superiore di Pisa:
“Su 120-140 compiti, quelli accettabili, negli anni dal 2002 al 2012, erano di solito non più di 12-15; meno ancora dal 2012 al 2017, anno del mio pensionamento [...]. I candidati, nella stragrande maggioranza, riassumevano in maniera stringata e piatta il manuale, per cui era difficile stabilire se avessero davvero interesse per la materia, se fossero in grado di argomentare e se avessero capacità filosofiche [...]. Quasi nessuno dei candidati era in grado di presentare e commentare un testo [...]. I candidati che prendevano voti bassi (dal 2 al 4 per intendersi) alla povertà intellettuale univano incertezza sintattica e sgrammaticature. Frequente “un” senza apostrofo seguito da sostantivo femminile iniziante con vocale; “accellerare” invece di “accelerare”, “fatisciente” per “fatiscente” ecc. Nella maggioranza dei casi si trattava di compitini striminziti di tre, talvolta due mezze facciate di fogli a protocollo, buttati giù nel totale delle sei ore messe a disposizione dalla SNS.”
Segue l’implicita domanda su quando a scuola abbiamo cominciato a ridurre la filosofia ad una sequenza di autori e date privandola del suo compito fondamentale: insegnare a pensare. All’obiezione che si pensa anche senza sapere la filosofia o saperla fare (cosa profondamente diversa) si può rispondere che sì, in linea generale ogni disciplina che ci aiuti a comprendere qualcosa deve necessariamente spingerci a formulare un pensiero sull’oggetto della nostra comprensione. Tuttavia lo studio della filosofia dovrebbe spingere anche in altre direzioni, ad esempio quella in cui la domanda da porsi su qualcosa non debba essere soltanto “A cosa mi serve”.
Come leggiamo in Apologia della storia di Marc Bloch, lo studio della Storia no, non dà un’immediata soddisfazione in termini materiali. Non insegna un mestiere, non rende edotti nel disbrigo di problemi quotidiani. Eppure non possiamo dire che la storia sia inutile perché di fatto conoscerla e trasmetterla correttamente ha l’utilità pratica di non farci subire bovinamente gli eventi, di aiutarci ad analizzarli con occhio critico o almeno a vedere da dove arriviamo. Perciò la scuola, tanto per cominciare, dovrebbe mostrare che c’è differenza fra il servire di qualcosa e la sua utilità pratica. In quest’ottica uno degli aspetti concreti più utili della filosofia è quello individuato dal filosofo Nigel Warburton, cioè togliere l’illusione della scontatezza. Prima di dare per assodati una convinzione, un’idea, un valore occorre chiedersi cosa ce li fa ritenere scontati, perché, come si sono formati in noi.
Questo esercizio filosofico rende tutt’altro che incerti sulla via da seguire o deboli nella difesa di ciò in cui crediamo. Nella disputa fra idee opposte, la posizione più debole non è quella di chi si fa delle domande, ma di chi non se le fa. Interrogarsi sulla natura dei valori o delle conoscenze che ci orientano è un approccio che solo nella scuola può essere proposto e coltivato fino a farsi attitudine anche fuori dalle mura scolastiche.
Per fare questo l’insegnamento al triennio di alcune scuole superiori della sola storia della filosofia sembra non bastare. Anche in questo caso una felice metafora di Bloch sulla storia può aiutare a comprendere: ogni quercia nasce da una ghianda, ma non tutte le ghiande sono destinate a diventare querce. Il mestiere dello storico è perciò quello di cercare il contesto, le condizioni, le circostanze che hanno permesso proprio a quel frutto di diventare albero. Questa ricerca è solo apparentemente coincidente con quella di uno scienziato: cercare le origini di qualcosa non significa necessariamente identificarne la causa. Noi sappiamo perché un seme diventa pianta, ciò non significa però che la nostra indagine su quel percorso debba arrestarsi ad un ristretto determinismo.
Se questo rende discipline come la storia diverse dalla base dalle scienze, a maggior ragione non è utile continuare a insegnare filosofia come una lunga sequenza diacronica di fatti, un costante prima e dopo che ci ha condotti dai greci a oggi e in cui, come facciamo nelle scienze, stabilire chi aveva ragione e chi no, cosa si credeva più o meno ingenuamente nel passato e come abbiamo scoperto che invece stanno diversamente. Pensare significa, fra le altre cose, non limitarsi a individuare le cause. Per fare questo non si deve cancellare il riferimento a date e correnti, ma in un momento storico in ci si interroga sempre più spesso sull’utilità dell’insegnamento della filosofia nelle scuole l’esperienza avuta da Mugnai in un contesto già altamente selettivo come quello della Normale (dove chi partecipa al concorso di ingresso vuole fare filosofia e pensa di averla studiata e compresa correttamente almeno nei fondamenti alle Superiori) deve suonare come un campanello d’allarme per tutti perché anziché limitarci all’indignazione per un dilagante analfabetismo funzionale, l’ignoranza dei giovani (che come disse anni fa Umberto Eco è stata puntualmente denunciata dai vecchi in ogni epoca storica) e il sistema dell’istruzione destinato a una inesorabile deriva, proviamo invece a proporre approcci veramente virtuosi e partendo proprio dall’insegnamento della filosofia, dandole una maggiore impostazione critica, mostrando la forza d’impatto di un’idea attraverso le prove che la fondano, concentrandosi sui suoi fondamenti. Pensare in filosofia non significa avere un’opinione su tutto, dire come la si pensa nella cieca convinzione che tutte le opinioni abbiano uguale valore. Comprendendo a fondo la natura di un’idea saremo poi capaci di esprimerne con chiarezza i contenuti, di esporla alle critiche, metterla alla prova in un dibattito che non si riduca a una mera esibizione di citazioni o a un agone in cui vince chi urla di più.
Se l’analisi fatta sin qui si ferma alle possibilità offerte dalle scuole superiori vale la pena riportare alla luce un’esperienza simile a quella fatta in Normale ma spostata nel tempo e nello spazio.
Fra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso il filosofo Mattew Lipman allora docente alla Columbia University incorse nello stesso problema di Mugnai. Ponendo delle domande ai suoi studenti Lipman si rese conto che, scavando leggermente più a fondo di quanto scritto nei libri, quasi nessuno riusciva a formulare un pensiero critico sull’argomento in questione. Che si discorresse di logica o di cosa spingeva moltissimi loro coetanei ad andare in Vietnam (preludio particolare della domanda generale su cosa ci spinga ad andare in guerra, per lo meno una guerra d’invasione, e su quale sia la natura della nostra relazione con l’idea di conflitto) solo pochissimi riuscivamo a formulare delle motivazioni che andassero al di là della propaganda, di ciò che avevano assimilato sotto forma di nozione e, secondo un modo di dire divenuto poi celebre, di cieco azionismo. Per proporre una soluzione Lipman pensò di andare più indietro dell’insegnamento della filosofia alle superiori e di spingersi fino alle scuole elementari in cui far assaggiare ai bambini la bellezza di far parte di una piccola comunità di ricerca in cui dibattere su temi anche complessi (che cos’è il bene? Che cos’è la felicità? Come sappiamo che una cosa è giusta o sbagliata?) aiutati dai filosofi.
La P4C (Philosophy for children) sperimentata con successo in alcune scuole americane fa leva sull’idea che si possa imparare a fare filosofia prima di sapere cosa tecnicamente la filosofia sia. Attaverso la narrazione di un racconto e la condivisione delle idee chiave è possibile aiutare i bambini a sviluppare un pensiero critico approcciandosi ai punti di vista o le metafore delle quali la filosofia è piena. Una proposta apparsa a fasi alterne anche in Italia e che oggi viene portata avanti da alcuni ricercatori in grado di farsi facilitatori del processo di elaborazione autonoma da parte dei bambini. Come suggerisce Maurizio Alfonso Iacono in un articolo qui pubblicato, un modo per individuare nella finzione del narrato, di una storia, una favola, una situazione immaginaria, l’inizio di un gioco meraviglioso e senza fine altrimenti chiamato ricerca della verità.