Se lo spazio pubblico non è bene comune, l’abitare va in crisi

di Fausto Carmelo Nigrelli

Per il vocabolario Treccani “abitare” è solo un verbo che può essere transitivo (“avere come dimora”) oppure intransitivo (“risiedere, alloggiare, cioè avere la propria casa in un luogo o in una zona”).
Ma l’abitare, il sostantivo, cioè, cosa significa?
È sufficiente fare riferimento alla casa? O è qualcosa di più ampio e complesso?
Si tratta di riflessioni la cui rilevanza è direttamente proporzionale alla banalità che sembrano sottintendere.
Abitare significa, per dirla con Villani, declinare la propria esistenza all’interno di uno spazio che trasformiamo in luogo, cioè – e qui ci aiuta il notissimo ed equivocatissimo Norberg-Schulz – in «un fenomeno qualitativo, che non può essere ridotto a nessuna delle sue singole caratteristiche, come ad esempio quella delle relazioni spaziali, senza perdere di vista la sua natura concreta».
L’abitare, dunque, è l’azione, squisitamente umana, di costruire relazioni materiali e immateriali, fisiche e culturali, all’interno di uno spazio dato o scelto, con oggetti preesistenti e oggetti costruiti, e con le persone che lì erano prima, che lì sono con noi o che verranno. Esso si svolge nel e produce il luogo, spazio funzionale e simbolico, culturale, al tempo stesso. Per questo Heiddeger può affermare che «l’essenza del costruire è il “far abitare”». 

La recente esperienza della pandemia è sembrata essere – a un certo punto – uno di quei tornanti della storia dopo il quale nulla sarebbe più stato come prima. Anche in relazione alle modalità dell’abitare. Che si trattasse di riflessioni sul senso della casa (nido o gabbia) o della rivalutazione della prossimità o, ancora, della riscoperta dei “borghi” come alternativa alle metropoli, era sembrato che, oltre che in ambito culturale, anche nel dibattito pubblico e in ambito politico potessero maturare delle scelte di cambiamento rispetto all’evoluzione del secolo precedente. Ed era sembrato che il sistema, che nel corso dei cento anni precedenti aveva assunto «come unico oggetto e come finalità l’“alloggio”», per usare la felice sintesi di Huet, fosse giunto al capolinea.

Dissolta come nebbia l’immediatezza dell’esperienza, mentre altrove – per esempio in Francia – si cominciano a stilare le classifiche delle “città del quarto d’ora”, come ha fatto a fine 2023 il quotidiano Le Parisien – in Italia quasi nulla di tutto ciò è rimasto.

Le città sono tornate in balia del mercato sfrenato, prive, in gran parte, di ogni politica di riduzione delle diseguaglianze urbane e ancor peggio è accaduto alle politiche di riequilibrio territoriale, da quella per le Aree interne a quella delle ZES.

Proviamo ad argomentare articolando l’abitare – in via semplificativa – in tre macromodelli: quello urbano-metropolitano, della grande città densa; quello periurbano della casa unifamiliare su lotto e quello delle aree interne, spesso identificato con la definizione dell’“Italia dei borghi”, tanto di successo quanto imprecisa.

I primi due, per motivi diversi, sembravano essere messi in crisi dalle esperienze di confinamento: la difficoltà ad accedere ai servizi essenziali di uso quotidiano in ampie parti centrali delle città più importanti che negli ultimi decenni si sono progressivamente terziarizzate e turistificate ha disvelato la carenza di attrezzature di prossimità; le seconde sono state quelle in cui è stata più pesante la conseguenza dell’isolamento che da must era diventata una vera reclusione. 

In modo speculare si è sviluppata una retorica dei “borghi” che utilizza un termine che indica un «centro abitato di media grandezza e importanza» per promuovere, piuttosto, degli Smart Village per nomadi digitali che rifiutano gli spazi domestici come luoghi del telelavoro e potrebbero utilizzare nuovi spazi come quelli per il co-working.

In comune tra tutti i casi è la presa di coscienza che l’abitare non è fatto solo dallo spazio residenziale privato, dalla casa con i suoi annessi, sia anche di lusso. Esso, con l’eccezione dell’abitare rurale che implica una scelta individuale di autoisolamento, è fatto di luoghi collettivi, aperti o chiusi, nei quali si reificano le relazioni tra le persone sia per quanto riguarda le necessità materiali, che per i non meno importanti bisogni immateriali, sia anche la mera socialità basata sull’incontro tra i corpi e non tra avatar digitali. 

Lo avevano ben chiaro politici e architetti che si fecero carico della ricostruzione postbellica assegnando tra i principali obiettivi della nuova Italia quello della costruzione degli alloggi per i gruppi sociali meno abbienti in contesti, i quartieri, in cui alla sfera individuale garantita dall’abitazione si integrava la sfera collettiva, pubblica rappresentata dal sistema di attrezzature. Indipendentemente dall’esito reale, l’obiettivo principale del piano Ina Casa era quello.

Ma torniamo all’oggi.

L’abitare è sempre più confinato allo spazio privato, quello della casa, integrato da uno spazio solo nominalmente collettivo che è anch’esso privato. Al contrario dalle indicazioni che sembravano conseguire all’esperienza del confinamento pandemico, nelle grandi città si è registrata una pervasiva privatizzazione dello spazio pubblico ceduto gratuitamente e senza limiti alle attività commerciali soprattutto legate al food. E le politiche rivolte ai piccoli centri periferici, sintetizzata dal Piano Nazionale Borghi inserito nel PNRR, non è altro che una diversa forma di privatizzazione che Graziano ha sintetizzato come esito di un «neocolonialismo turistico» capace solo di produrre nuove eterotopie.

 

La crisi pandemica sembra avere innescato, dunque, una più ampia e duratura crisi dell’abitare che riguarda tutti i principali modelli e ha come principale causa, l’abdicazione del potere pubblico democratico al governo di tutto ciò che è bene comune, in particolare lo spazio urbano, e la mancata volontà di affiancare al modello metropolitano capitalistico un modello duale, quello delle piccole e medie città organizzate in arcipelaghi territoriali. 

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Riferimenti bibliografici 

 

Paola Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni ’50, Donzelli, Roma, 2001. 

Teresa Graziano, Smart Territory. Attori, flussi e reti digitali nelle aree “marginali, FrancoAngeli, Milano, 2021 

Martin Heiddeger, Costruire abitare pensare, in Id., Saggi e discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano, 1976, pp. 96-108. 

Bernard Huet, La città come spazio abitabile. Alternative alla carta di Atene, in “Lotus International, n. 41, Electa Milano, 1984, pp. 6-17. 

Stefano Munarin e Luca Velo (a cura di), Italia 1945-2045. Radici, condizioni, prospettive, Donzelli, Roma, 2016. 

Fausto Carmelo Nigrelli, Il nido diventato gabbia. La casa al tempo del Covid-19, in “Il Faro”, settimanale on line del Magazine Atlante, Istituto della Enciclopedia Italiana, 13 dicembre 2020 https://www.treccani.it/magazine/atlante/societa/Il_nido_diventato_gabbia.html

Fausto Carmelo Nigrelli (a cura di), Come cambieranno le città e i territori dopo il Covid-19. Le tesi di 10 urbanisti, Quodlibet s.r.l., Macerata, 2021. 

Christian Norberg-Schulz, Genius Loci. Paesaggio Ambiente Architettura, Electa, Milano, 1979. 

Tiziana Villani, Organologia dell’abitare, in “Millepiani Urban”, n. 1, ed. Eterotopia, Milano, 2011, pp. 17-28.