La democrazia e la sua memoria
Democrazia è una parola antica, con significati che cambiano a seconda delle epoche e dei contesti. Evoca l’idea di un coinvolgimento popolare nel governo di una comunità, ma non specifica di per sé né i meccanismi di decisione, né i contenuti, né i criteri attraverso i quali si è inclusi o esclusi dall’assemblea chiamata a decidere.
Democrazia era quella ateniese, considerata un po’ impropriamente come l’origine della moderna cittadinanza europea, che identificava la polis con gli uomini in armi.
Pertanto, come ci ricordava Luciano Canfora, il cittadino ateniese era necessariamente il maschio libero, purosangue, abile alla guerra e necessariamente possidente (cioè in grado di pagarsi l’armamento). Fu solo la nascita della flotta e la conseguente esigenza di reclutare gli equipaggi a estendere la cittadinanza anche ai nullatenenti.
Democrazia, la più antica della modernità si è detto con altrettanta approssimazione, sarebbe quella degli Stati Uniti che, tuttavia, sanciva e legittimava la schiavitù nel proprio patto fondativo del 1787, riservando la cittadinanza solo a uomini dalla pelle bianca che non fossero, per loro ventura, servi a contratto (schiavi temporanei). Gli schiavi non potevano essere cittadini, ma solo altre persone: strumenti innominabili, porzioni di umanità alle quali, dopo la rivolta del 1831, era proibito perfino insegnare a leggere e a scrivere, per il timore che l’educazione provocasse una qualche infezione insurrezionale.
Erano le stesse motivazioni che nel 1832 schieravano il Papa contro la libertà di stampa, con un’enciclica che ne denunciava i rischi mortali, in ragione di una sfrenata libertà di pensiero, la libertà di parola e l’amore per le novità.
Era il 1789 francese a sfidare queste concezioni e a metterle radicalmente in discussione, proclamando i valori universali dell’uguaglianza, della libertà e della fraternità. Un vero e proprio punto di svolta che, però, non impediva successive ambivalenze. Democrazie popolari, infatti, si definivano perfino le esperienze istituzionali sorte sotto l’egida sovietica nel corso della guerra fredda, nonostante il partito unico e la sistematica violazione delle libertà civili e politiche.
In altre parole, la democrazia è stato presidio dello status quo o bandiera di liberazione, atto di coercizione o di rivolta. Dipende da come se ne declinavano e declinano i caratteri.
Non basta evocarla, bisogna raccontarla e difenderla.
La mia idea di democrazia è quella che prendeva forma nelle officine della nostra modernità, quando le rivoluzioni della seconda metà del Settecento mettevano in mora l’ancien regime e, con esso, l’assunto che esistesse una verità assoluta e naturale in grado di determinare dall’esterno le sorti delle comunità umane.
Da quel momento in avanti, il vero e il legale diventano una mutevole convenzione prodotta dal consenso e dalla competizione delle idee nel seno del nuovo sovrano popolare. Ma proprio perché convenzionale, la verità della democrazia doveva essere perimetrata entro i limiti di valori condivisi che prescindessero (e prescindano) dalle maggioranze del momento. Le carte costituzionali hanno il compito di indicare e difendere proprio quei valori che, a garanzia della loro effettività, possono essere modificati solo attraverso procedure particolarmente aggravate e maggioranze molto qualificate (in qualche caso nemmeno con quelle, dato che, per fare un esempio, la forma repubblicana dell’Italia non può essere mutata in alcun caso).
Una maggioranza non governa a prescindere dal patto fondativo e dai limiti che esso impone; né può esistere una democrazia che non tuteli le proprie minoranze, proprio in ragione del carattere mutevole e reversibile degli orientamenti, delle decisioni e delle norme.
È stato un processo che si è precisato via via, nella costante e non priva di contraddizioni definizione di regole, di procedure, nel riconoscimento dei diritti civili e politici di ogni singolo individuo. Un percorso che trovava snodi decisivi con la nascita delle società di massa, quindi la resa dei conti della prima metà del Novecento, le democrazie e i totalitarismi si misuravano nel governo delle nuove società complesse e affollate del XX secolo (mentre d’assalto al cielo sovietico modernizzava una società medievale e teocratica, fallendo però nella sua promessa di liberazione).
Era allora, a partire paradossalmente dalla Germania di Bismarck sul finire dell’Ottocento, che entrava in gioco una nuova generazione di diritti, connessi alla legislazione sociale, che completava il quadro dei valori imprescindibili per una democrazia moderna: l’idea che non ci si salva da soli e che tutti debbono sentirsi responsabili della sofferenza dell’altro, per spezzare insieme le catene del bisogno. Perché non esiste libertà senza eguaglianza, né eguaglianza senza libertà.
La democrazia contemporanea è forma e contenuto al tempo stesso; è lo strumento con il quale abbiamo l’ambizione di autodeterminarci politicamente in quanto esseri umani, a prescindere dal nostro potere economico.
Lo Stato sociale sorto dopo la Seconda guerra mondiale esplicitava questo orizzonte, stipulando un patto tra le istituzioni pubbliche e il mercato, la politica e l’economia. Tuttavia, la crisi in corso delle forme istituzionali legate allo stato-nazione mettono in discussione sia quel patto, sia un’idea della sovranità e della partecipazione democratica. La politica e le istituzioni democratiche si rivelano inadeguate, non più in grado di contrastare o mitigare le decisioni che un’élite ristretta e sempre più ricca tende ad assumere sulla testa della stragrande parte dell’umanità. Mai il mondo è stato così ricco, ma mai questa ricchezza è stata tanto concentrata nelle mani di pochi, generando sofferenze ed enormi disuguaglianze: «nel 2015», ricorda Mariana Mazzuccato, «è stato stimato che la ricchezza complessiva dei 62 individui più ricchi del mondo fosse equivalente a quella della metà più povera della popolazione mondiale» (Mazzuccato, 2018, p. 7). I
In queste condizioni, la democrazia rischia la morte per consunzione, lasciando il passo ai folli contraccolpi di un nazionalismo (o sovranismo, per citare la sua più recente mimesi) spesso alimentato da profonde intolleranze rispetto alla diversità, dalla paura dell’altro, dalla ricerca costante di un capro espiatorio che lenisca il nostro malessere, dalla caccia feroce al presunto untore che diffonde la pandemia.
Se non fermiamo questa deriva, riformando e riformulando i luoghi e i poteri della democrazia (una sfida di portata quanto meno europea), il rischio è quello di un ritorno a una visione aggressiva, ipocrita e dimidiata dell’umanità. In breve, la democrazia è in crisi. Ma la sua attualità è determinata dalla sua stessa assoluta, imprescindibile necessità.
La democrazia, infine, vive di delega e di partecipazione. Non esiste una democrazia moderna senza rappresentanza; non esiste rappresentanza senza una partecipazione politica che garantisca, a partire dalle diverse articolazioni della società (un tempo si sarebbe detto classi), l’individuazione di obiettivi, la selezione di priorità e la formazione di competenze. Una volta questo lavoro era svolto dai corpi intermedi, in primo luogo dai partiti. La liquefazione di questi ultimi ha prodotto la catastrofe di una crescente autoreferenzialità delle istituzioni e degli eletti, specchio di una società sempre più atomizzata e priva di punti di riferimento. Il vuoto è stato riempito da poteri e interessi che hanno teorizzato la frantumazione delle forme organizzate di partecipazione, inneggiando a una presunta capacità di autorappresentazione civica che, alla fine, ha provocato una generalizzata messa in discussione dei valori della rappresentanza e della competenza.
La via d’uscita praticata sia a destra sia a sinistra è stata quella di una sorta di neo-cesarismo populista, caratterizzato dal rapporto diretto tra un capo (o una piccola oligarchia) e una massa di clienti-tifosi-fedeli, in breve un pubblico chiamato ad applaudire: è stato così per le primarie del PD, per le adunate di Salvini, per l’inquietante piattaforma gestita dalla Casaleggio e associati.
Tutte mere varianti della stessa effimera risposta alla crisi politica. La democrazia vive se ricostruiamo modalità di partecipazione più forti, più trasparenti ed adeguate. Perché, ora come un tempo, vivere vuol dire essere partigiani. E i partigiani non applaudono.