Obiettivo Zero NEET

di Silvia Duranti

Nonostante i giovani rappresentino una risorsa relativamente scarsa nel nostro Paese, ancora oggi molti di loro restano esclusi dai circuiti scolastici, formativi e lavorativi. Si chiamano NEET, acronimo dall’inglese Not in Education, Employment or Training, e secondo gli ultimi dati Istat in Toscana sono circa 55mila, ovvero l’11% dei giovani tra 15 e 29 anni, percentuale che sale al 16% per l’Italia. 

Nel dibattito pubblico i NEET vengono spesso dipinti come giovani “sdraiati”, demotivati e disinteressati, ma il fenomeno è molto più ampio e variegato: si va dal neolaureato o neodiplomato che sta attivamente cercando un lavoro in linea con le proprie aspettative, fino al giovane uscito precocemente dagli studi, che non dispone delle competenze necessarie per entrare nel mercato del lavoro ed è a rischio marginalità. Ma tra i NEET troviamo anche le persone che non lavorano per scelta, ad esempio per dedicarsi alla famiglia, o coloro che vivono di lavoretti saltuari, collocandosi nell’area grigia tra precarietà e disoccupazione.

L’eterogeneità del fenomeno dei NEET chiama in causa una serie altrettanto varia di possibili politiche volte ad affrontarlo e a contenerlo, secondo una logica integrata che parte dal sistema scolastico, sotto forma di misure preventive, per arrivare fino agli interventi rivolti ai disoccupati di lungo periodo e a quelli dedicati ai giovani di più difficile intercettazione.

Per ridurre il rischio che i giovani vadano a popolare la platea di NEET è innanzitutto necessario rafforzare la qualità del capitale umano in uscita dal sistema di istruzione. Quest’ultimo deve infatti fornire una formazione che, insieme a obiettivi più generali di conoscenza, consenta di dotarsi di competenze coerenti con le opportunità del mercato del lavoro attuali e prospettiche. Per migliorare la transizione dalla scuola al lavoro è perciò necessario sia potenziare l’offerta formativa rispetto a profili e qualifiche richieste, sia migliorare l’aderenza delle competenze tecnico-professionali a quelle utili al sistema produttivo, attraverso  un dialogo continuo tra istituzioni formative e imprese, funzionale alla co-progettazione dei curricula, alle docenze da parte di rappresentanti del mondo produttivo, alla predisposizione di occasioni potenziate di apprendimento on-the-job, come l’apprendistato scolastico.

Un secondo gruppo di politiche si colloca al di fuori del sistema scolastico ma interviene comunque nella delicata fase di  transizione dalla scuola al lavoro, fornendo ai datori di lavoro strumenti, come l’apprendistato professionalizzante e tirocinio extracurriculare, che attraverso una riduzione del costo del lavoro rappresentano un incentivo a preferire forza lavoro giovanile, assumendosi l’onere della formazione on-the-job per colmare la mancanza di competenze specifiche non sviluppate in aula. Tali strumenti, oltre ad andare incontro alle esigenze dei datori di lavoro, offrono ai giovani un vantaggio di medio periodo rispetto all’inserimento occupazionale con contratti a tempo determinato o somministrato che nel breve periodo possono apparire preferibili dal punto di vista retributivo.

Guardando oltre la transizione-scuola lavoro, è importante non dimenticare i giovani disoccupati, che dopo una o più esperienze lavorative si trovano a dover cercare nuovamente lavoro, spesso finendo nell’area della disoccupazione di lungo periodo. Laddove il problema è la mancanza di competenze adeguate per il reinserimento occupazionale, è importante che a questi giovani sia offerta la possibilità di rimettersi in gioco e di investire in corsi di formazione medio-lunghi, che offrano reali opportunità occupazionali.

Poi ci sono i giovani fuori dai radar, quelli che le politiche fanno fatica a raggiungere, spesso con una dotazione di capitale umano insufficiente e un background familiare difficile. Per questi è importante puntare su politiche di intercettazione, che però risultano, perlomeno nel nostro Paese, le più difficili da realizzare con efficacia. Anche il programma Garanzia Giovani, che aveva come obbiettivo proprio l’intercettazione precoce dei giovani per un pronto reinserimento nei circuiti formativi o lavorativi, ha riscontrato delle difficoltà a coinvolgere i soggetti maggiormente vulnerabili, come gli stranieri e gli inattivi. Per questi giovani, il Servizio Civile potrebbe rappresentare una valida opportunità per migliorare le proprie capacità di relazionarsi con gli altri, potenziando l’autostima e, in generale, la coscienza dei propri limiti e punti di forza, come primo step per una attivazione nel mercato del lavoro. 

Molti passi avanti sono stati fatti nell’ambito delle politiche giovanili da quando il termine NEET è stato coniato, ormai 15 anni fa. Oggi più che mai occorre proseguire su questa strada, perché nell’attuale contesto demografico la valorizzazione dei giovani in termini di competenze e conoscenze e la loro inclusione nel mercato del lavoro appare essenziale per consentire al nostro Paese di fronteggiare le sfide poste dalla transizione ecologica e digitale, di attivare processi di innovazione nella Pubblica Amministrazione e nelle piccole e medie imprese e, più in generale, di mantenere gli attuali livelli di benessere.