La Società del Comune: per una globalizzazione dei territori
di Hervé Defalvard
(traduzione di Benedetta Celati)
Viviamo in una società globalizzata. Non è una novità, anche se la densità dei nostri legami, consapevoli o nascosti, su scala globale è aumentata con l'ultima fase del capitalismo, conosciuta col nome di capitalismo “cognitivo” per porre l’accento sulle reti di informazione e conoscenza che lo caratterizzano.
In precedenza, il cosiddetto capitalismo “industriale” ha vissuto una prima globalizzazione di tipo liberale tra il 1870 e il 1914, in un'epoca in cui quattro quinti del pianeta erano costituiti da colonie.
Prima ancora c'era stato il capitalismo mercantile con la sua “economia-mondo” (Braudel), che nel XV e XVI secolo era limitata al Mediterraneo.
Ma torniamo a oggi, con la nostra economia mondiale che ha dimensioni planetarie. Questa estensione dei mercati, guidata dai mercati finanziari aperti 24 ore su 24, è caratterizzata non solo dalla densità delle nostre relazioni, come messo peraltro in evidenza dalla pandemia globale del Covid19. È anche caratterizzata da ciò che produce: un'economia “fuori dal comune”. Ciò che Adam Ferguson, nel suo Saggio sulla storia della società civile, pubblicato nel 1767, aveva temuto senza crederci, è ora accaduto: il collante millenario e culturale della società è scomparso sotto la sfrenata ricerca del profitto in mercati senza confini. L'uomo d'affari Donald Trump, neoeletto presidente degli Stati Uniti, immagina così di poter acquistare la Groenlandia come una semplice merce. L'odierna globalizzazione neoliberale ci presenta una situazione fuori dal comune nella misura in cui, per la prima volta nella società umana, il “comune” non ha più un terreno sul quale atterrare.
Certamente si stanno sviluppando proteste e resistenze di fronte ai disastri più vari – ecologici, sociali, democratici e geopolitici – causati dalla globalizzazione neoliberista iniziata negli anni Settanta e Ottanta. Una prima tipologia di queste rivendicazioni si contraddistingue per un ripiegamento su antiche pulsioni identitarie, spesso associate a spazi statali e nazionali il cui fondamento comune è di natura religiosa.
Questo ripiegamento non si può considerare una rottura con il capitalismo, ma piuttosto la sua cattura in una sorta di dimensione delle nazioni quale era quella vigente prima dell’avvento del capitalismo cognitivo. Una seconda tipologia di resistenze vuole invece rispondere ai disastri della globalizzazione proponendo un altro tipo di globalizzazione. Il mio libro La Société du commun (Defalvard, 2023) si inserisce in questo solco.
Quest'altra forma di globalizzazione è caratterizzata dalla rottura con il capitalismo. La sua storia risale al XIX secolo, con gli inizi della speranza socialista che l'Associazione Internazionale dei Lavoratori cercò di trasformare da sogno in realtà già nel 1867. Ma come sappiamo fin troppo bene, il socialismo, nato dalle rivoluzioni, è naufragato nel XX secolo. Quindi, pur facendo parte dell'eredità del socialismo nella sua rottura con il capitalismo, la Società Comune propone un'altra via d'uscita.
L'interruttore non è più lo stesso. Non sta più nella fabbrica e nell'appropriazione dei mezzi di produzione da parte dei proletari di tutto il mondo. Si trova nei territori, dove le lotte sono ora combattute su base intersezionale, opponendosi a tutte le forme di dominio (del capitale sul lavoro, degli uomini sulle donne, del Nord sul Sud, dell'uomo bianco sulla natura, ecc.) al fine di costruire spazi di vita per tutte le forme di emancipazione.
Contro la logica del plusvalore per il capitale, simboleggiata in qualche luogo dai magazzini Amazon, in qualche altro da una cava di diatomite che distrugge una zona umida, la società del comune pone nel suo orizzonte la logica del plusvalore per la vita di tutte e tutti gli abitanti umani e non umani dei territori. Questo spostamento sul territorio trasforma le lotte che si svolgono nelle fabbriche in lotte per e con il territorio, come bene illustrato dall’esempio della ex GKN di Firenze.
Questi territori intersezionali hanno una base locale definita dalla loro autonomia, che è plurale: un territorio autonomo in termini di energia sostenibile non è lo stesso costrutto socio-spaziale di un territorio autonomo in termini di approvvigionamento alimentare.
Tale base locale plurale implica quindi la costruzione di beni comuni interconnessi in modo che la loro struttura possa diventare parte integrante nel garantire il valore aggiunto della vita per gli esseri viventi che risiedono nei territori, e ciò non riguarda solo l'energia o il cibo: riguarda anche la mobilità, la salute e la cultura.
Questa autonomia locale di beni comuni interconnessi con una struttura integrale svolge un ruolo essenziale nella società del comune, perché è associata all'autonomia politica dei territori. Tale autonomia politica rende la democrazia un governo dell'immanenza (Rancière) e serve l'autonomia soggettiva dei residenti umani e non umani del territorio, formando una comunità di singolarità piuttosto che di identità. Ma questi beni comuni della società del comune non hanno solo una struttura integrale che ne garantisce l'autonomia politica a livello locale, hanno anche una struttura translocale nella misura in cui si basano sulla costruzione di relazioni a livelli extralocali, compreso il livello globale. Per illustrare questo aspetto, possiamo fare l’esempio dei Fab Lab (piccole officine che offrono servizi personalizzati di fabbricazione digitale, N.d.R.) i cui laboratori locali condivisi sono collegati a un livello globale comune di conoscenza, che alimentano tanto quanto si nutrono di esso.
Ma anche lo Stato può diventare un operatore del translocalismo dei beni comuni: quando fa circolare in Francia l'elettricità prodotta dalle comunità locali di energia sostenibile sulla rete elettrica nazionale (a sua volta collegata a una rete europea). Allo stesso modo, le grandi aziende possono diventare una leva per il translocalismo dei beni comuni quando mettono le loro infrastrutture al servizio del valore aggiunto della vita locale.
La sfida è che i beni comuni si moltiplichino, con la capacità di circondare sia lo Stato che le grandi imprese nei territori, in modo che passino dalla parte di questa nuova logica del valore. Dobbiamo quindi riscrivere il Manifesto del Partito Comunista con la conclusione: Territori di tutti i Paesi, unitevi!
La société du commun: pour une mondialisation des territoires
Hervé Defalvard
Nous vivons dans une société mondialisée. Ceci n’est pas nouveau même si la densité de nos liens, conscients ou cachés, à l’échelle mondiale s’est accrue avec la dernière phase du capitalisme appelée «cognitif» afin de mettre l’accent sur les réseaux d’information et de connaissance qui le caractérise. Avant, le capitalisme dit «industriel» a connu une première mondialisation libérale entre 1870 et 1914 à une époque où les quatre cinquièmes de la planète se composaient de colonies. Avant encore, nous avions le capitalisme marchand avec son «économie-monde» (Braudel) alors limitée, aux XVe et XVIe siècles, à la Méditerranée.
Mais revenons à aujourd’hui où notre économie-monde a la taille de la planète. Cette extension des marchés, sous la houlette de marchés financiers ouverts 24h sur 24h, ne se caractérise pas seulement par la densité de nos relations que la pandémie planétaire du Covid 19 a révélée s’il en était besoin. Elle se distingue aussi par ce qu’il en résulte, à savoir une économie hors du commun. Ce qu’Adam Fergusson dans son Essai sur l’histoire de la société civile, publié en 1767, avait craint sans y croire, s’est produit: le ciment millénaire et culturel des sociétés a disparu sous la recherche effrénée du profit sur des marchés sans frontière. Ainsi, l’homme d’affaire Donald Trump, et nouveau président élu des Etats-Unis, imagine-t-il pouvoir acheter le Groenland comme une simple marchandise. La mondialisation néolibérale actuelle nous place devant une situation hors du commun en cela même que le commun, pour la première fois dans les sociétés humaines, n’a plus de sol.
Certes, des contestations et des résistances se développent face aux catastrophes de toute nature, écologique, sociale, démocratique et géopolitique, provoquées par la mondialisation néolibérale qui s’est enclenchée dès les années 1970-1980. Une première famille de celles-ci se caractérise par le repli sur des identités anciennes souvent associées à des espaces étatiques et nationaux dont le ciment du commun a une nature religieuse. Ce repli n’est pas tant une rupture avec le capitalisme que sa capture dans l’espace recousu des nations comme avant le capitalisme cognitif. Une seconde famille souhaite répondre aux désastres de la mondialisation par une autre mondialisation. Notre Société du commun (Defalvard, 2023) appartient à cette branche.
Cette autre mondialisation se caractérise par sa rupture avec le capitalisme. Elle a donc une histoire qui remonte au XIXe siècle avec les débuts de l’espérance socialiste que l’Association internationale du travail a cherché dès 1867 à faire passer du rêve à la réalité. Mais comme nous le savons que trop, le socialisme, installé par des révolutions, a fait naufrage au cours du XXe siècle. Aussi, si la société du commun s’inscrit dans l’héritage du socialisme dans sa rupture avec le capitalisme, elle propose un autre chemin pour en sortir.
L’aiguillage n’est plus le même. Il ne réside plus dans l’usine et l’appropriation par les prolétaires de tous les pays des moyens de production. Il réside dans les territoires où se jouent désormais les luttes qui, intersectionnelles, s’opposent à toutes les dominations (du capital sur le travail, de l’homme sur la femme, du Nord sur les Sud, de l’homme blanc sur la nature…) afin de construire des espaces de vie pour toutes les émancipations. Contre la logique de la plus-value pour le capital, symbolisée ici par des entrepôts Amazon, là par une carrière de diatomite détruisant une zone humide, la société du commun place à son horizon la logique de la plus-value de vie pour toutes et tous les résident.e.s des territoires humain.e.s et autre qu’humain.e.s. Cette bascule du côté des territoires transforme les combats qui se nouent au sein des usines qui deviennent des luttes pour et avec le territoire comme l’illustrent les GKN à Florence.
Ces territoires intersectionnels ont une base locale qui se définit par son autonomie qui est plurielle: un territoire autonome en énergie durable n’est pas le même construit socio-spatial qu’un territoire autonome sous l’angle de son alimentation. Cette base locale plurielle suppose donc de construire des communs emboîtés afin que leur structure puisse devenir intégrale en assurant la plus-value de vie des êtres vivants qui y résident et qui ne concerne pas seulement l’énergie ou l’alimentation: mais aussi la mobilité, la santé ou encore la culture. Cette autonomie locale des communs emboîtés à structure intégrale joue un rôle essentiel dans la société du commun car il lui est associé l’autonomie politique des territoires. Cette autonomie politique réalise la démocratie en tant que gouvernement de l’immanence (Rancière) et elle est au service de l’autonomie subjective des résident.e.s humain.e.s et autres qu’humain.e.s du territoire constituant alors une communauté de singularités et non pas d’identité.
Mais ces communs de la société du commun n’ont pas seulement une structure intégrale qui assure au niveau local leur autonomie politique, ils ont aussi une structure translocale dans la mesure où ils s’appuient sur des relations à des échelles extra-locales, y compris mondiale. Pour l’illustrer, on peut prendre les Fablabs dont les ateliers locaux en commun sont reliés à une couche commune mondiale de savoirs et de connaissances qu’ils nourrissent autant qu’ils s’en nourrissent. Mais l’État peut aussi devenir un opérateur du translocalisme des communs: lorsqu’il fait circuler en France l’électricité produite par des communautés locales d’énergie durable sur le réseau national d’électrons (lui-même relié à un réseau européen). De même la grande entreprise peut devenir un levier du translocalisme des communs dès lors qu’elle met ses infrastructures au service de la plus-value de vie sur les territoires. L’enjeu pour les communs est ici de se multiplier en ayant alors la capacité d’encercler sur les territoires aussi bien l’État que la grande entreprise pour qu’elle bascule du côté de cette nouvelle logique de la valeur. Il s’agit donc de réécrire le Manifeste du parti communiste en lui donnant pour conclusion: Territoires de tous les pays unissez-vous!