L’inafferrabile cambiamento climatico
di Barbara Imbergamo
La prima volta che il cambiamento climatico è entrato nel mio cono d’interesse era la primavera del 2015 quando ho letto distrattamente del materiale informativo sul tema del cambiamento climatico. Ricordo pochissimo. So che l’argomento non mi aveva interessato prima e ha continuato a non interessarmi per molti anni dopo questa lettura. Ricordo, soprattutto, che nel leggere quelle pagine avevo la sensazione che almeno una delle posizioni in gioco si avvicinasse all’area del complottismo.
La questione è restata fuori dai miei interessi ancora per vari anni, fino a quando Greta e i giovani non hanno portato il clima nelle nostre piazze. Tra il 2018 e il 2020 abbiamo sostenuto i nostri figli, ancora bambini o ragazzini, che manifestavano nelle piazze della città con bellissimi cartelli colorati. Abbiamo detto: “guarda come sono bravi questi ragazzi, guarda che brava Greta”; ma la nostra vita è andata avanti più o meno secondo i soliti binari.
Alla fine del 2022 vari gruppi di attiviste/i hanno lanciato zuppa su importanti quadri in musei europei e, finalmente, anche sulla mia faccia. Meno di 2 anni fa mi sono finalmente interessata del surriscaldamento globale e finalmente l’argomento è uscito da un generico “sì sono informata (ma non mi spaventa)” per passare a “questo tema è IL tema centrale al cuore di ogni altro e mi fa davvero paura”.
Nel 1972 è stato pubblicato il primo studio sul rischio di surriscaldamento climatico commissionato a scienziate e scienziati del MIT dal Club di Roma col titolo I limiti dello sviluppo; era l’anno della mia nascita e io ho lasciato passare 50 anni prima di divenire consapevole dei rischi che corriamo. Eppure, sono stata una bambina ecologista – attenta a animali, mari ed ecosistemi – una giovane attiva nei comitati cittadini - contro l’inquinamento atmosferico e il Pm10 - ma, ciononostante, il tema della crisi climatica è rimasto per decenni inspiegabilmente trasparente ai miei occhi. Nel frattempo gli scienziati del MIT - Donella Meadows, Dennis Meadows, Jørgen Randers e William W. Behrens III - avevano aggiornato il loro volume per altre due volte: pubblicando Oltre i limiti dello sviluppo nel 1993; e il volume I nuovi limiti dello sviluppo nel 2004 e insieme a loro altre decine di scienziati avevano lanciato l’allarme. Eppure, io non me ne sono accorta.
Per questo motivo, oggi, mi interessa cercare di capire quale meccanismo collettivo e individuale porti persone generalmente attente e interessate a non afferrare pienamente questo tema. Esattamente come è successo a me. Il gruppo che mi interessa di più indagare, e del quale ho fatto parte fino a poco tempo fa, è quello di coloro che sono in generale informati, impegnati anche in cause civili di vario tipo ma che non hanno sviluppato un reale coinvolgimento sul tema del surriscaldamento, dove per coinvolgimento intendo: seria preoccupazione e desiderio di capire e di agire.
Ci sono persone che rifuggono al tema perché credono che siano preoccupazioni eccessive e radicali e che sia più importante far marciare la nostra economia: “non credo che in questo momento ci sia spazio per trovare soluzioni alternative e meno energivore” e archiviano il problema.
Ci sono quelli che sono individualmente attenti ai temi della natura, dell’ambiente del biologico ma che si ritraggono di fronte ad un quadro più ampio – “ci vogliono fare venire l’eco ansia e che chi fa questo genere di terrorismo dovrebbe pure trovare la soluzione. Se mi allarmi suggeriscimi almeno cosa potrei fare per risolvere il problema” – e archiviano il problema.
Ci sono quelli che pensano che siano sono strategie di marketing – “ci sono così tanti interessi in gioco nel rappresentare la situazione come più o meno critica… la green economy in fondo può essere una boccata d’aria per far ripartire l’economia – e archiviano il problema.
Ci sono poi i tecno ottimisti, quelli che ci salverà l’idrogeno, le barriere anti-alluvioni, schermare i ghiacciai o addirittura il sole: “in una città come Firenze il rischio è quello delle alluvioni ma immagino che in un centro storico come quello trovino rimedi per scongiurare l’inondazione” – e archiviano il problema.
Infine, ci sono quelli che mescolano tutte queste posizioni insieme e oscillano tra natura, critica e complottismo. Leggo su un post su Facebook di un amico nel luglio 2024, il più caldo della nostra storia:
“Avremo sempre meno cieli azzurri nelle nostre estati mediterranee, credo che ci dovremo abituare a questo cielo umido, grigio e afoso. Non ricordo una frequenza tale in passato”. E i commenti sotto:
“Anche io sono giorni che mi faccio domande”.
“Sti maledetti”.
“Attenzione vi danno di complottisti”.
Ecco, in questo cortocircuito in cui se ti preoccupi per un fenomeno climatico estremo non vieni considerata persona coerente con la scienza ma vicina a posizioni complottiste era il punto in cui mi ero incagliata io nel 2015 quando lessi distrattamente una brochure sul tema: nella mia premura di non essere complottista avevo finito per essere antiscientifica.
Sembrerebbe dunque che questo tema sia troppo complesso, con conseguenze difficili da percepire in una relazione di cause ed effetto. Troppo difficile capire che strada intraprendere, troppo difficile cambiare i nostri comportamenti, troppo difficile da gestire emotivamente. Inafferrabile anche perché pur avendolo inquadrato sembra sfuggire continuamente da tutti i lati. E poi una volta che ne sei consapevole cosa puoi fare effettivamente per cambiare la situazione?
Più o meno tutte e tutti abbiamo ormai una borraccia (e spesso anche più di una) e una bustina di cotone per la spesa (e spesso decine): piccoli gesti sicuramente utili ma che frequentemente non sovvertono il nostro modello di consumo. Ricevere una bustina di cotone ogni qualvolta andiamo in un negozio ha un impatto in termini di emissioni CO2 e consumo di acqua enormemente superiore ad una brutta bustina di plastica riciclabile o addirittura ad una (orribile) di plastica. Una bustina in cotone consuma risorse in una misura di migliaia di volte superiore a quelle di plastica tradizionali.
Questo esempio non vuole aggiungere scoraggiamento ad un argomento già abbastanza complesso ma vuole servire per comprendere che non ci sono soluzioni facili dentro questo modello di consumo. Per affrontare, ma anche solo per accettare di comprendere la crisi climatica è necessario poter mettere in discussione il nostro modello di consumo usa e getta, ipertrofico e capitalista nel suo complesso e rivedere i nostri obiettivi e valori, ridando la giusta centralità alla scienza e alla politica, anche per dare senso ai nostri piccoli gesti quotidiani.