Il gioco delle perle di vetro. Condannati a dimenticare?
di Federico Valacchi
La lunga metamorfosi binaria della nostra società porta con sé, tra le sue molte conseguenze, anche la questione centrale della conservazione degli oggetti digitali che produciamo senza pace. Serpeggia il dubbio sul futuro della memoria, se vogliamo usare questa espressione ormai consunta.
Il problema va ben oltre gli incerti confini delle discipline documentarie e sarebbe davvero banale ricondurlo solo ad aspetti di natura tecnologica. Si inserisce piuttosto in un percorso culturale ed antropologico che oscilla tra due tratti caratterizzanti della modernità. Si colloca, potremmo dire, tra ipermnesia e società postmnemonica, cioè tra la nostra ubriacante superfetazione informativa e la tendenza subliminale a distruggere le tracce degli avvenimenti subito dopo il loro passaggio.
Strumenti di produzione e uso dell’informazione sempre più sfuggenti alimentano questa perversione cui fa da controcanto un assottigliamento progressivo del pensiero complesso. I nostri documenti si fanno pensiero liofilizzato, sono strettamente funzionali al soddisfacimento dei bisogni di una società aritmetica, dove la sola cosa che conta è che i conti tornino.
La tendenza all’oblio delle società digitali è quindi la naturale conseguenza di una manipolazione del tempo e dello spazio che ogni giorno assottiglia sempre più lo spessore delle nostre stesse esistenze, proprio mentre ci illude di moltiplicarle contro natura.
Siamo quindi davvero condannati a una società postmnemonica? L’oblio è una punizione per la nostra ὕβϱις o un processo di selezione necessario, possibile e governabile?
La parola chiave per fare qualche passo avanti è dematerializzazione, un termine per certi versi piuttosto vulnerabile ma che sintetizza efficacemente i tempi e i modi della nostra lunga metamorfosi. La dematerializzazione è il quadro entro il quale devono essere ricondotte le “trasformazioni digitali” di cui noi tendiamo a vedere solo gli aspetti più superficiali e meccanici.
Dematerializzare non significa però limitarsi a cambiare tipologia di supporto alla realtà. La dematerializzazione è innanzitutto un processo politico, economico, sociale, antropologico che ci costringe a un confronto impietoso con gli assetti complessivi della nostra società. Ci suggerisce di ripensare il nostro stile di vita, ripensandone gli aspetti cruciali, che vengono molto prima degli oggetti digitali.
Le opportunità binarie sono una provocazione, una domanda aperta, non un asettico pacchetto di soluzioni applicative a portata di tablet.
Se concordiamo su questo, in termini documentari c’è innanzitutto bisogno di sgombrare il campo dalla leggenda metropolitana della fragilità innata degli oggetti digitali, funzionale solo a una certa inerzia normativa e conservativa. I documenti digitali - per quanto si trasformino fino ad assumere il profillo prosciugato della blockchain - non sono necessariamente programmati per l’autodistruzione. Li sappiamo conservare, ma hanno bisogno di cure specifiche. Devono essere accuditi, come in genere lungo i secoli secoli ci siamo abituati a fare con quelli analogici.
Ma, detto questo, cosa significa conservare? A quale conservazione guardiamo?
Credo si possa dire che la memoria contemporanea per salvarsi deve sapersi immaginare tra le braccia di una long time preservation che guardi almeno a un futuro indefinito, visto che l’eternità non è una categoria conservativa.
Empiricamente questo obiettivo può essere conseguito adottando tutte le misure necessarie a combattere l’obsolescenza e le debolezze di lungo periodo dei documenti digitali, ma il punto non è nemmeno questo. Bisogna soprattutto prendere atto, infatti, che la conservazione digitale ha le sue complessità e comporta dei costi, sia in termini di risorse che di impatto ambientale. Non può essere lasciata al caso, perseverando nel definire “virtuali” risorse che sono invece terribilmente materiali. I cloud, solo per fare un esempio, non sono nuvole nei cieli primaverili, ma server brutali che occupano spazio e consumano energia, rilasciando calore ed emissioni.
Se vogliamo davvero conservare occorre ripensare radicalmente il modello conservativo. E’ a questo livello che si collocano le vere debolezze ed è a questo livello che il futuro rischia di perdere il ricordo di noi.
I complessi documentari che stiamo producendo non sono uno scherzo di cattivo gusto del destino. Come ogni archivio in ogni tempo, corrispondono ai loro processi fisiologici di sedimentazione. Sono caratterizzati da una forte dinamicità che si traduce in un’estrema articolazione della struttura e dei contenuti informativi. All’ombra di una crescente interoperabilità i nostri vecchi archivi si sono trasformati in macchine che generano e usano tipologie documentarie ad ampio spettro: documenti digitali e/o informatici in senso stretto, banche dati, oggetti e aggregazioni digitali di natura diversa, contenuti web e, infine, quella pletora di sfuggenti sussurri informativi che potremmo definire “dati social”. L’archivio digitale, insomma, è davvero un gioco di perle di vetro che sfugge a canoni pensati per la rassicurante coesione strutturale delle avite piramidi di carta.
Le trasformazioni dei sistemi di produzione e gestione dei documenti e, in maniera particolare, la diffusione del documento informatico, contribuiscono a spostare a monte il baricentro degli interventi conservativi. A ben guardare, però, questi sono dettagli, magari decisivi e ospiti del diavolo ma pur sempre dettagli. Il tema generale, ineludibile, resta invece quello della consapevolezza, della responsabile volontà politica di conservare.
L’oblio è un narcotico potente che addormenta le coscienze e lenisce i dolori di una società che in fondo non vuole neppure guardarsi allo specchio e ha la tentazione oscena di dimenticarsi. Combatterlo non può ridursi all’utopia di pochi sognatori ma deve diventare un obiettivo condiviso da molti, possibile e quindi praticabile.
Il senso profondo della conservazione, soprattutto di quella digitale, è in fondo solo questo, difendere il privilegio di continuare a sognare.