L'identità perduta del lavoro
Marx considerava il lavoro un’esteriorizzazione antropologica, una pratica in grado di piegare le risorse naturali ai bisogni umani. Il manufatto “punta di selce” piega e modella la pietra in funzione dell’esigenza di migliorare l’attività di caccia e di auto-difesa, così come i primi scalpelli litici e la scoperta e l’uso dei pigmenti fornirono ai nostri antenati la possibilità di raffigurare il “realismo immaginifico” nelle pitture rupestri. In esse le pratiche di caccia rispecchiavano il rapporto sacro tra uomo e natura, divinizzando lo spazio sociale.
Questa capacità specie specifica ridotta a merce era per Marx il punto terminale del processo storico dello sfruttamento e nello stesso tempo il passaggio necessitato per emanciparsi dal dominio iscritto nelle diseguaglianze di classe.
Il marxismo ha assegnato al lavoro una dignità maggiore di quella del Dio della Genesi. “Tu uomo lavorerai con fatica” sancisce una condanna per il peccato, la pena della caduta.
Anche il Mito considerò con sospetto le pratiche trasformatrici del mondo connesse al lavoro. Prometeo per averle donate agli uomini, insegnando loro a padroneggiare il fuoco, fu atrocemente condannato. La fatica umiliante connessa al lavoro fu bandita, ad esempio, dalla cultura eroica: il nobile, il condottiero, il guerriero non lavoravano.
Occorse l’avvento della borghesia con la sua cultura del lavoro e della famiglia per ridare al lavoro quella forza e rilevanza che lo trasformò da attività sconveniente praticata da sottomessi e schiavi a valore cruciale e fatto di civiltà.
Per molto del tempo trascorso dalla rivoluzione industriale, il lavoro divenne il principale fattore distintivo per individui e gruppi sociali.
La fabbrica di spilli di Smith, la sacralizzazione sovietica di Stakanov, la fondazione costituzionale sul diritto al lavoro sono il combinato disposto di questo processo. Contro la mistica del lavoro sacralizzato alcuni arguti avevano messo in guardia: la “morale degli schiavi”, l’“uomo senza qualità” furono avvisaglie sorte in tempi non sospetti ma dovette arrivare il femminismo per mostrare come gli eroi della lotta di classe, gli operai e la loro cultura riproducessero in famiglia sopraffazione e violenza. Da allora il lavoro si è sempre più qualificato in termini strumentali e giuridici. Produttore di reddito per il consumo e veicolo di diritti di cittadinanza.
Oggi il rapporto fra lavoro e identità sociale e soggettiva appare molto variegato. Se le retoriche aziendali a partire dal Toyotismo ne valorizzano il ruolo identificativo, sovrapponendolo con gli obiettivi di razionalizzazione organizzativa e crescita soggettiva, molti comportamenti culturali ne mettono in discussione la funzione referente per l’autocomprensione e autorealizzazione degli individui.
La sociologia ha colto questa torsione storico-culturale e da diverso tempo ha posto l’accento sulla perdita del valore identitario del lavoro rispetto alla formazione delle strutture della personalità. Le culture del lavoro che trasferivano senso di riconoscimento e auto-comprensione nei lavoratori, che ne erano le principali fonti di aspirazione e realizzazione, sembrano gradualmente sostituite da culture del loisir. Questo passaggio è avvenuto parallelamente all’affermarsi di una società dei consumi di massa, edonistica e tecnologica che ha democraticamente colonizzato e reso accessibili gli spazi liberi dal tempo di lavoro a una massa crescente di individui subordinati.
In essi le identità e le strutture delle personalità, più che sulla presa di coscienza della propria posizione e condizione sociale poggiano su diversi meccanismi di riconoscimento e affermazione: status symbol, intrattenimento, cura del sé, psicologizzazione del quotidiano e sacralizzazione del corpo.
Queste sono tutte dimensioni identificative forgiate dalla cultura di mercato e dal consumo di massa.
La perdita di centralità identitaria del lavoro ha riguardato in primo luogo la fabbrica come fucina della coscienza di classe e del conflitto sociale. Se in questi ambiti il passaggio descritto appare più “traumatico” ed evidente, non sfugga come molte ricerche nazionali ed internazionali pongano l’accento su una generalizzata caduta del lavoro come fattore identitario privilegiato nella formazione del carattere sociale e delle personalità anche per contesti lavorativi non usuranti.
Se si osservano le pratiche quotidiane degli individui e le modalità con le quali bilanciano e distribuiscono i loro tempi sociali si possono cogliere le trasformazioni identitarie e comportamentali sopraggiunte al venir meno della centralità del luogo di lavoro sia come sorgente identitaria sia come referente per l’auto-posizionamento percettivo del lavoratore nella struttura socioeconomica. Alle pratiche sociali connesse al lavoro e ai suoi luoghi di aggregazione e appartenenza si sono sostituite pervasive culture del consumo.
Il tempo quotidiano e le pratiche che lo abitano e qualificano mostrano come la riarticolazione dei tempi sociali sia la cartina di tornasole di molti comportamenti politici e culturali del mondo del lavoro subordinato. Gli stessi risultano scarsamente intercettati e qualificati dalle vecchie categorie sociologiche relative alla condizione lavorativa. Sia la classe come contesto di appartenenza, sia il conflitto come pratica emancipatoria paiono affievolire la loro funzione identitaria e di auto-comprensione della condizione socioeconomica e culturale di individui e gruppi.
Quando la frustrazione per un cattivo lavoro, per lo sfruttamento, per le basse retribuzioni, per il malessere organizzativo trova sfogo nelle palestre, nei percorsi tortuosi delle mountainbike, allo stadio, in discoteca significa che il lavoro si è svuotato di quella funzione politica che lo aveva tenuto al centro dei destini storico-sociali.
Tale svuotamento, effetto della regolazione del mercato del lavoro e dell’istituzionalizzazione del conflitto tra le forze produttive, ha rimosso quest’ultimo dalla sfera politica, confinandolo nel processo produttivo. Qui gli interessi del lavoro vengono contrattati con diversi criteri di pluralità e rappresentanza: nazionali, decentrate, aziendali.
Il lavoro esce così dalla rappresentazione generale degli interessi che è della politica e si cristallizza nella mediazione fra diversi apparati di rappresentanza. Non più partiti e movimenti ma burocrazie sindacali, di gruppi di interesse datoriali e di corpi intermedi, diventano gli attori rappresentativi del mondo del lavoro, alimentando nei loro meccanismi negoziali complesse retoriche istituzionali, che ridimensionando il portato identitario del lavoro sanciscono che quello che si è, è sempre più quello che si può consumare, avere, desiderare.
Il lavoro come lo sfruttamento né scompaiono né diminuiscono, cambiano pelle.
Alla molarità della catena di montaggio si sostituisce la molecolarità delle merci che riempiono di identità da tempo libero molto del quotidiano che ognuno di noi consuma.