Beni comuni: guida per i naviganti
di Benedetta Celati
L’espressione “beni comuni” fa ormai parte del nostro linguaggio corrente.
La categoria, se come tale la vogliamo interpretare, presenta, tuttavia, contorni nebulosi che si prestano a dilatazioni e restringimenti a seconda del punto di vista di chi se ne appropria e del contesto nel quale viene impiegata. Sul piano linguistico, parlare di “bene comune” al singolare è diverso dal fare ricorso alla versione al plurale, così come lo è riferirsi al concetto di “Commons” o ancora di “Comune”. La scelta del termine si accompagna, infatti, a una specifica postura che si intende assumere nell’offrire le proprie idee al dibattito.
In ambito accademico, gli studi sul tema sono cominciati a esplodere a seguito dell’assegnazione, nel 2009, del Premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel a Elinor Ostrom. La Ostrom è stata premiata per gli studi contenuti nel suo libro del 1990 “Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action”. I Commons nel lavoro della scienziata politica statunitense sono analizzati sotto il profilo della loro governance ossia come «relazioni sociali tra individui che utilizzano determinate risorse in comune in base a regole d’uso, di condivisione o di coproduzione». La ricerca costituisce una risposta all’articolo pubblicato nel 1968 da Garrett Hardin, sulla rivista Science, con il celebre titolo “La tragedia dei beni comuni”. L’autore, partendo da una classificazione di tipo economico dei beni, definiti “comuni” in quanto rivali ma non escludibili, ragiona sul problema dell’incremento demografico della popolazione mondiale, ritenendo impossibile un’alternativa alla dicotomia Stato-Mercato, ovvero tra tassazione e definizione dei diritti di proprietà. Viene infatti considerata fallimentare, perché destinata a produrne l’esaurimento, la soluzione comunitaria per la gestione delle risorse comuni.
La questione, piuttosto nota, riguarda il bilanciamento tra costi individuali e costi sociali, laddove i secondi verrebbero a ricadere sull’intera collettività, perché non sufficientemente contemplati nelle scelte individuali, legate a interessi personali.
Il carico ideologico di questa impostazione è stato controbilanciato negli ultimi anni da ricerche e studi volti a dimostrare che invece un’altra via è possibile.
In Francia, dove il dibattito è stato assai fertile, guardando più alle regole dell’azione collettiva che alle risorse, economisti come Benjamin Coriat (Le retour des communs. La crise de l’idéologie propriétaire, 2015) ma anche filosofi e sociologi come Pierre Dardot e Christian Laval (Commun. Essai sur la révolution au XXIe siècle, 2014) hanno a lungo approfondito la tematica dei beni comuni. Dardot e Laval in particolare hanno teorizzato il “Comune” come principio politico che definisce il modo in cui le persone si impegnano a realizzare insieme uno stesso compito e producono, di conseguenza, norme morali e giuridiche che regolano le loro azioni. L’agire in comune darebbe in questo senso vita a una capacità istituente determinata dall’attività di gestione e non dalla titolarità dei beni.
Le pratiche e i movimenti che si collocano in questa idea sono accomunate dal fatto di costituire una trama di relazioni ecologiche e sociali che propongono un’alternativa alla razionalità neoliberista, in uno scenario nel quale gli effetti più disastrosi del capitalismo occupano oggi saldamente il potere, come ben testimoniato dal binomio Trump-Musk.
In Italia, il tema dei beni comuni incrocia, da un lato, l’ampio dibattito condotto, nell’ambito del sistema amministrativo, in ordine al superamento del “paradigma bipolare”, che vede contrapposti amministrazione e cittadini, nell’ottica di promuovere moduli collaborativi e di relazione paritaria tra questi due soggetti; dall’altro, la riflessione sulla necessità di rivedere la tradizionale concezione “individualistica” dei diritti e delle libertà, sulla cui base sono state costruite alcune categorie giuridiche fondamentali quali la proprietà e i rapporti economici. In questa seconda accezione, il dibattito dottrinale si confronta con i movimenti, come avviene con alcune celebri occupazioni di spazi culturali – teatri o cinema – la cui destinazione originaria è stata sottratta all’uso pubblico oppure di luoghi la cui vocazione produttiva è cessata e la condizione di abbandono ne impedisce una fruizione “socialmente orientata”.
Nel volume curato dalla professoressa Maria Rosaria Marella, intervistata in questo numero, (Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Ombre Corte, 2012) vengono illustrate proprio alcune delle riflessioni ed esperienze che ruotano attorno al tema dei beni comuni e dell’auto-governo collettivo delle risorse. La postfazione è di Stefano Rodotà, presidente della omonima Commissione nominata dal Ministero della Giustizia nel giugno 2007 con l’incarico di redigere uno schema di disegno di legge delega per la riforma delle norme del Codice civile sui beni pubblici. Della Commissione, che propone l’introduzione nell’ordinamento della categoria giuridica dei beni comuni quali «cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona», fa parte anche Ugo Mattei, autore nel 2011 del volume “Beni comuni. Un manifesto”, nonché il giurista Alberto Lucarelli, assessore dal 2011 al 2013 nel comune di Napoli con delega ai Beni comuni, all’acqua pubblica e alla democrazia partecipativa.
Nonostante il fallimento del tentativo di riforma legislativa, l’elaborazione teorica della Commissione Rodotà è rimasta un riferimento essenziale per il diritto italiano e non solo. Molti paesi guardano infatti all’Italia come un modello, anche per lo sviluppo della c.d. amministrazione condivisa, formula organizzativa basata sulla collaborazione attiva tra cittadini (singoli e associati, come recita l’art. 118, c. 4, Cost., nel quale si enuclea il principio della sussidiarietà orizzontale) e pubblici poteri, recentemente legittimata come attività “ordinaria” della pubblica amministrazione dalla Corte costituzionale (sentenza n. 131 del 2020). Al concetto di amministrazione condivisa sono oggi riconducibili due tipologie diverse di strumenti. Da una parte i patti di collaborazione, ossia gli accordi attraverso i quali uno o più cittadini attivi e un soggetto pubblico definiscono i termini della collaborazione per la cura di beni comuni materiali e immateriali, negli oltre 300 comuni italiani che hanno adottato, a partire dal comune di Bologna, il regolamento promosso dall’associazione Labsus per la rigenerazione dei beni comuni urbani. Dall’altra gli istituti, disciplinati dal Codice del terzo settore, della co-progettazione e la co-programmazione.
Varie regioni italiane hanno legiferato su amministrazione condivisa e beni comuni. La Toscana lo ha fatto con la legge 71 del 24 luglio 2020 sul governo collaborativo dei beni comuni e del territorio, normativa recentemente invocata dall’APS Mondeggi Bene Comune (esperienza di cui parla in questo numero Andrea Ghelfi), per richiedere il formale riconoscimento come “bene comune” di Mondeggi e della comunità che in questi anni se ne è presa cura. La Toscana è però anche la regione della più importante vertenza d’Italia, la lotta delle lavoratrici e dei lavoratori della ex-GKN in difesa del lavoro, della reindustrializzazione e della transizione ecologica.
E proprio la salvaguardia di quest’ultima sembra richiedere, adesso, un poderoso sforzo collettivo, nel momento in cui dagli Stati Uniti arrivano spinte tutt’altro che di sostegno nei confronti della finanza green e dell’attenzione ai cambiamenti climatici.
Insomma, di beni comuni occorre continuare a parlare perché, come dimostra la recente approvazione, sempre in Toscana, della legge 5 del 2025 sui consorzi di sviluppo industriale e il recupero cooperativistico d’impresa, è sempre possibile passare dal mondo delle idee al mondo della realtà e della storia.