Quale genere di ecologia? L’ecofemminismo come controcultura per la sostenibilità

di Marco Giovagnoli

L’approccio ecofemminista rappresenta una linea di pensiero che si avvicina al gruppo di ecologie non ambientaliste e può essere considerato una specificazione dell’idea di ecologia sociale, anche se in realtà alcuni temi sono molto vicini agli approcci più profondi (Deep Ecology), con al centro il tema del dominio, le cui radici vanno fatte risalire all’ordine patriarcale, al dominio del maschile sul femminile. All’origine della storia umana vi sarebbe, secondo l’approccio ecofemminista, l’alleanza tra donna e natura, una relazione spezzata dall’avvento del dominio maschile. La natura è sin dagli inizi Madre Terra (Demeter nel greco classico), la madre vivente e nutrice che dà conto del regime matriarcale “prestorico”; il rovesciamento maschile del matriarcato conduce all’instaurazione di una società guerriera con il dominio dei maschi adulti ed anziani sul resto della società stessa, come sostenuto dal filosofo e sociologo anarchico Murray Bookchin. Tuttavia tale rovesciamento ha un forte connotato simbolico, oltre che “pratico”, poiché la Natura–Terra/Madre/Donna viene desacralizzata e trasformata da principio vitale a materia inerte, un processo che viene definitivamente legittimato con le metafore cinque-seicentesche (di stampo cartesiano e baconiano) della natura-donna che deve essere soggiogata dalla mente-uomo attraverso processi di dominio vicini allo stupro e alla violenza, e trova infine il proprio campo d’azione più consono negli imperativi capitalistici di sfruttamento, come sostenuto ad esempio dalla scienziata indiana Vandana Shiva. Un punto di svolta infatti, secondo la prospettiva ecofemminista, è rappresentato dallo sviluppo del pensiero scientifico europeo tra il 1500 il 1600; da questo punto di vista la natura e il femminile vengono “messe a morte” nella transizione dal mondo-organismo al mondo-macchina, ossia dai fondamenti della scienza moderna prima e del sistema capitalistico poi. Attraverso la scienza meccanicistica, la tecnologia, il capitalismo e l’ideale baconiano sulla ‘missione’ del genere umano di conquista e dominio dell’universo nella sua totalità, il potenziale distruttivo dell’umanità nei confronti della natura diventa reale e irristretto. In questo sistema la natura è oggetto passivo e inerte. Nella teorizzazione di Francis Bacon, “la natura delle cose si svela più rapidamente sotto le vessazioni dell’arte piuttosto che nella sua libertà naturale”: sapere scientifico e invenzioni meccaniche esercitano una guida sul corso della natura ed hanno anche il potere di “conquistarla e di soggiogarla, di scuoterla sin dalle sue fondamenta”.

Un testo di riferimento sulla nascita dell’ecofemmimismo è Silent Spring di Rachel Carson, biologa americana, fondamentale per il disvelamento del nesso causale tra inquinamento e malattia/mortalità ma anche per la segnalazione della maggiore vulnerabilità dei gruppi sociali più ‘deboli’, come le donne e i bambini. Nel 1972 Donella Meadows fu coautrice di una delle pubblicazioni più influenti sulla critica del modello di crescita sino a quel momento vincente, il famoso Rapporto del MIT al Club di Roma dal titolo inglese The Limits to Growth (in Italia, I limiti dello sviluppo). Nel 1973 prende il via il movimento chipko, in India, con le donne che abbracciano gli alberi della foresta per impedirne il taglio. Il termine ecofemminismo appare per la prima volta nel 1974 in uno scritto di Françoise d’Eaubonne, Le féminisme ou la mort,  dove si sottolinea il nesso tra crisi ecologica e modello androcentrico di sviluppo, per definizione estrattivo e aggressivo. Secondo D’Eaubonne, vi è stato un momento nella storia in cui l’uomo ha, impadronendosi del suolo e del ventre femminile, determinato le due principali minacce mortali alla sopravvivenza della specie umana: la distruzione delle risorse naturali e la sovrappopolazione. La responsabilità di questa duplice minaccia è in mani maschili, ma ha origini antiche, e deriva da due mutamenti importanti occorsi all’alba del patriarcato, riconducibili all’idea della riproduzione: la scoperta della capacità di seminare la terra (quindi controllo della fertilità – e successivamente dell’industria) e di seminare la donna (quindi controllo della fecondità). La donna, in precedenza, era la detentrice delle pratiche agricole (Demetra è anche la Madre Orzo) e la sua inseminazione era opera divina; di fatto, l’uomo era dunque estraneo ad entrambe le pratiche. I tempi sono propizi, sosteneva D’Eaubonne, per un nuovo umanesimo, ma in un contesto radicalmente nuovo: [Occorre] strappare il volante dalle mani della società maschile, con l’intento non di guidare al suo posto, ma di saltare giù dalla macchina.

La vicenda di Love Canal, nello stato di New York, dove un corso d’acqua divenuto discarica di rifiuti tossici causò un disastro ambientale e sanitario (siamo nel 1978), diede il là a Lois Gibbs per mettere in piedi un movimento chiamato Citizens Clearinghouse for Hazardous Waste in cui le donne erano le protagoniste della battaglia contro i rifiuti tossici e i pesticidi.
Nel 1980 viene alla luce negli Stati Uniti uno dei contributi fondativi dell’approccio ecofemminista, The Death of Nature. Women, Ecology and the Scientific Revolution, della filosofa e storica della scienza Carolyn Merchant; al centro della sua riflessione vi era l’idea che la scienza, riconcettualizzando la natura come una macchina anziché come organismo vivente, abbia affermato il dominio dell’uomo sulla natura e sulla donna. La “morte della natura” è la sua percezione come materia inerte: essa, assieme alle donne, agli afroamericani e ai lavoratori salariati viene avviata al nuovo status di risorsa “naturale” e umana funzionale alla modernità. La morte della natura di cui parla Carolyn Merchant è di fatto la sua trasformazione in risorsa, la sua comprensione in termini meccanicistici che in quanto tali ne permettono la manipolazione, e quindi il dominio.

Il 1986 rappresenta un momento fondamentale nella riflessione femminista sull’ambiente. La catastrofe di Chernobyl impose una profonda riconsiderazione della responsabilità ambientale, del senso del limite, del valore della quotidianità rispetto alla ‘potenza’ delle scienza. È sulla scia di quell’evento che nel nostro Paese la fisica Elisabetta Donini, nel suo La nube e il limite. Donne, scienza, percorsi nel tempo, discute del nesso tra donne e scienza (già emerso in occasione di un altro disastro ‘italiano’, quello di Seveso).
Nel 1989 Vandana Shiva, nel suo Staying Alive, introduceva il concetto di “malsviluppo” (“male-development”). Il malsviluppo è un tipo particolare di sviluppo strettamente associato alla modernizzazione e alla assolutizzazione della tecnologia occidentale. L’approccio tecnologico occidentale è riduzionista ed unilineare rispetto alla richiesta di diversità delle forme in cui si esplica la natura e che le donne – nel loro essere centrali rispetto alla sussistenza della propria comunità – condividono; legato a processi produttivi ad alta intensità di energia e ad alto input di risorse, il malsviluppo mina le basi stesse di quella sussistenza, aggredendo gli elementi naturali e sottraendoli alle donne quali generatrici di sussistenza. Non solo: restituisce gli elementi di cui si nutre degradandoli sotto forma di inquinamento e riesce a chiamare tutto ciò crescita in virtù del fatto che l’indicatore principe della crescita nella modernizzazione – il Prodotto Interno Lordo – si nutre anche delle disfunzionalità del sistema e dei rimedi adottati per fronteggiare tali disfunzionalità. Il recupero del principio femminino di produttività e di crescita – un’idea di generazione e non di consunzione – sta alla base della ridefinizione del concetto stesso di sviluppo. La visione femminile della distruzione dei rapporti tradizionali di coesistenza e di coevoluzione tra esseri umani e natura e tra uomini e donne assume particolare rilevanza nell’analisi del malsviluppo che colpisce le società di sussistenza nei Paesi del Sud. Vandana Shiva vede nella distruzione delle economie naturali ad opera dello “sviluppo” la prosecuzione dell’impresa colonialista.

Nel 1993 esce Feminism and the Mastery of Nature, della filosofa e scrittrice australiana Val Plumwood. La sua riflessione origina dall’individuazione di dualismi ‘di oppressione’ come alto/basso, maschio/femmina, mente/corpo, cultura/natura, ragione/emozione, azione/passività, universale/particolare, libertà/necessità, civilizzato/primitivo, pubblico/privato, soggetto/oggetto, dove il primo termine è legato al maschile ed ha status più elevato, mentre il secondo è associato al femminile ed è corrispondentemente inferiore. Il femminismo rovescia questi determinismi, verso un agire di non-dominio, tra le persone e il mondo naturale caratterizzato da cura, bontà e solidarietà. Viene messa sotto accusa la netta separazione del sè dal mondo della visione meccanicistica e strumentale che domina la natura come una schiava.
Un elemento connettivo tra le varie riflessioni riguarda la convinzione che la vita sulla terra sia una rete di interconnessioni e che non esista una gerarchia naturale; dal punto di vista femminista si mette in discussione l’idea della contrapposizione in favore della osservazione e del rovesciamento della prospettiva, che non è più verticistica e gerarchizzata (Carolyne Merchant parla oggi di partnership). Numerosi studi – alcuni accolti in maniera controversa – tendono a dimostrare questo percorso di ‘creazione’ del dualismo come fondamento dell’oppressione e del dominio sulla natura e sulla donna, generalmente individuato con il termine di ‘patriarcato’. Diversi studi (anche ‘maschili’, come quelli di Jakob Bachofen o Friedrich Engels, ad esempio), avevano ampiamente storicizzato l’oppressione femminile, confutando l’idea che l’ordine patriarcale fosse un ‘dato di natura’. Al contrario, il patriarcato sarebbe un ordine sociale relativamente recente, affermatosi in seguito a mutamenti economici e sociali quali lo sviluppo dell’agricoltura e ancor più dell’allevamento (attività tradizionalmente maschile), che concentra la ricchezza nelle mani degli uomini e fa emergere il concetto di proprietà privata, contro il collettivismo precedentemente diffuso tra le società ginocentriche, con la conseguente sottomissione delle donne, la centralità bellica, l’introduzione della schiavitù ed altro.
Le donne, allora come oggi in moltissimi contesti nel mondo, conservano un ruolo centrale nella raccolta del cibo, della legna, delle erbe medicinali, nella cura della prole, insomma, nelle parole di Merchant, “la loro conoscenza ravvicinata della natura ha aiutato il genere umano a sostenersi in ogni angolo del globo”. Nei Paesi del Sud del mondo le donne hanno un ruolo centrale nei movimenti a difesa della terra, contro la distruzione delle foreste, contro la privatizzazione dei beni comuni; attraverso le pratiche – di ripiantumazione, di conservazione delle sementi, di occupazione e messa in opera delle terre incolte – si concretizza il principio della sovranità alimentare, dell’etica comunitaria e non competitiva, della rigenerazione.

La sociologa tedesca Maria Mies, nel suo Patriarchy and Accumulation on a World Scale, riflette invece sul ruolo economico delle donne da un punto di vista comparativo tra Nord e Sud del mondo, in particolare sulle relazioni di lavoro non salariate tra le quali il lavoro domestico assume particolare centralità. Nei tradizionali indicatori di performance economica (il PIL tra tutti) il lavoro domestico non viene considerato dalle analisi economiche e si muove entro una zona grigia tra sfruttamento e non regolamentazione, una relazione di dominio che accomuna ad esempio lo sfruttamento del lavoro in agricoltura a quello delle donne. Rispetto al dominio dell’economia di mercato capitalista e dell’accumulazione, la prospettiva ecofemminista ripropone invece come centrale (nella prospettiva del Sud) l’idea di agire economico di sussistenza, lontano dall’idea materialista di “ben-essere” tipicamente occidentale (tanto che si parla di buen-vivir). La critica ecofemminista al concetto di produttività non si volge all’idea in sé di produttività, in quanto la produttività è da sempre, nelle società matriarcali o comunque nelle quali le donne hanno un ruolo primario, collegata alla sussistenza e al mantenimento della vita; è solo con l’introduzione dell’idea di profitto, collegata alla produttività, che il concetto di produttività per la sussistenza scompare come concetto economico dotato di senso.

Infine, nel lavoro della archeologa e linguista lituana Marija Gimbutas, ed in particolare in The Living Goddesses, del 1999, si delinea un continente europeo tra il 7000 e il 3000 a.C. dove compare la matrilinearità e la centralità simbolica e ‘politica’ femminile: sarà solo con le invasioni indoeuropee successive che si avrà la fine di questa centralità. Tocca alle donne, oggi, il compito “storico” di ripristinare l’ordine pre-patriarcale, mettendo in primis in discussione l’idea stessa di potere in favore di una società finale basata sull’egualitarismo dell’essere umano in quanto essere umano, e non in quanto uomo o donna. Ciò tuttavia non può essere compiuto assieme all’uomo: Occorre – come sosteneva D’Eaubonne togliere il pianeta agli uomini oggi per ridarlo domani all’umanità. È questa l’unica alternativa. Se la società maschile persiste, non ci sarà un domani per l’umanità.