Lo spazio vissuto
di M. Cristina Janssen
Quando si pensa all’architettura, si pensa alla materialità del costruire. Ogni cultura e ogni epoca si differenzia negli stili architettonici, nell’uso dei materiali, talora si predilige l’aspetto estetico, in altre situazioni, quello pratico, o quello difensivo.
Gli spazi nei quali vivere, lavorare, stare insieme, sono pensati e realizzati in modi diversi, e in modi differenti vengono utilizzati i materiali locali. E ogni cultura, al suo interno, costruisce abitazioni diverse in base ai chi le abiterà, e al significato sociale che gli edifici rivestiranno.
Pensiamo allo straordinario esempio di diversità architettonica di una cittadina come Rosignano Solvay, le cui case e i cui edifici (bellissimi, a mio avviso) ancora oggi mostrano le differenze di ceto sociale e di ruolo lavorativo dei loro primi abitanti.
E gli edifici, a loro volta, modellano lo spazio sociale. Lo trasformano, in modo intenzionale secondo le indicazioni dell’urbanistica, oppure in modo caotico in contesti sociali privi di progetti collettivi (oltre che di leggi da rispettare).
Le case, però, non hanno solo un valore “esteriore”, funzionale e/o rappresentativo. Le nostre case, quelle che abitiamo, hanno una valenza soggettiva. Di più, siamo noi, con la nostra intenzionalità, a dare loro un valore, un significato.
Le case hanno una storia, spesso si tratta della storia familiare, ma non sempre, a volte è una storia legata a singoli individui.
Le case possiedono attrattive, o pecche, che solo noi conosciamo. Da spazi, si sono trasformate in luoghi, luoghi che parlano di noi. La scelta dell’abitazione, la sua cura, il modo in cui la viviamo, in cui la riconosciamo come nostro spazio vitale, la trasforma. La nostra intenzionalità, i nostri significati, i nostri desideri, e le nostre paure, generano abitazioni accoglienti, oppure squallidi alloggi.
E’ uno “spazio vissuto”, uno spazio che parla di noi, del nostro modo di essere nel mondo. E’ lo spazio nel quale ci rifugiamo, che ci protegge dalle insidie e dalle fatiche del mondo esterno, oppure è lo spazio-nido, nel quale ritroviamo una dimensione più calda, affettiva, dove rintanarci sapendoci accuditi e amati. Abitare è “sentirci a casa”.
La casa può essere una fortezza, e la porta che ci chiudiamo dietro quando rincasiamo, pone una barriera contro chi potrebbe invadere il nostro spazio privato. Oppure, al contrario, la nostra abitazione può essere luogo d’incontro con l’altro, un altro scelto, invitato. E’ l’ospite che accogliamo con piacere, al quale offriamo da bere e da mangiare, con il quale allacciamo relazioni di amicizia, di reciprocità.
La porta di casa, l’uscio, il limen dei Romani, è contemporaneamente barriera, limite da non oltrepassare, e apertura, soglia da poter varcare. In ogni caso segna un dentro e un fuori. Come noi lo utilizziamo, parla del nostro modo di vivere la dimensione sociale.
All’interno dell’abitazione tutto è soggettività: la luminosità, i colori, la disposizione degli spazi e dei mobili, la scelta di immagini, oggetti, la presenza di piante, sono tutti segni che possono trasmettere serenità, accoglienza, bellezza, calore.
Al contrario, possono esservi case strapiene di ciarpame, disordinate, oppure fredde e spoglie. Prendendo situazioni estreme vorrei sottolineare come il nostro vissuto si esprima nell’essere casa. Ci sono abitazioni che ci fanno sentire subito a nostro agio, altre, al contrario, che ci trasmettono disagio.
La casa stessa, ce lo ricordano gli psicologi, non è altro, inconsapevolmente, che un’estensione della nostra corporeità. Lo spazio dell’abitazione è lo spazio nel quale si esprime il nostro Io, la nostra soggettività.
Nelle nostre abitazioni, spesso composte da più locali, all’interno vi è una netta separazione tra lo spazio “sociale”, “pubblico”, nel quale si possono fare entrare gli ospiti, nel quale ci si può incontrare con chi viene da fuori, e lo spazio “privato”, “intimo”, interdetto agli estranei.
Chi non è espressamente invitato, ma bussa alla nostra porta, può essere accolto nell’ingresso. Chi invece viene invitato da noi, si accomoderà in soggiorno, in tinello, o in salotto, se la casa è più o meno lussuosa. L’accesso alla camera da letto, o al bagno, sono riservati alle persone considerate più che amiche, intime, per l’appunto!
Possiamo parlare di questi due diversi spazi come i luoghi del giorno e i luoghi della notte: solari, aperti, vitali, oppure oscuri, intimi, segreti. Come per il nostro corpo, che sa distinguere tra un modo sociale di esprimersi e interagire con gli altri, e un modo intimo, nel quale possiamo essere “svestiti”. A casa nostra possiamo essere spettinati, trasandati, in pantofole o in mutande! Di questo spazio intimo abbiamo tutti bisogno, ognuno di noi in maniera diversa, ma ognuno di noi deve avere la certezza che non venga violato.
Lo spazio vissuto va tutelato, garantito. Va riconosciuto come bisogno primario.
Le case nel mondo assumono le forme e le caratteristiche più disparate, alcune popolazioni addirittura non vivono in case stabili, ma praticano, o praticavano, il nomadismo.
Questi nomadi, la sera, sotto le stelle, erano usi srotolare il loro grande tappeto, tessuto dalla propria gente e distintivo della propria etnia. Vi si accomodavano, e intorno a questo perimetro dell’immaginario ricostituivano la loro dimensione abitativa, vi trovano ristoro e riposo.