Isole di schermo

di Fabio Canessa

Chi vuole il ponte di Messina, vuole arricchire gli affaristi e impoverire la vita. L’isola, lo dice la parola stessa, isola i personaggi dal resto del mondo e crea così un microcosmo claustrofobico capace di esaltare la solidarietà e i conflitti, l’odio e l’amore. Il cinema ha messo in scena questa tensione esplosiva in film memorabili: dal “Duello nel Pacifico” in un’isola abitata da due soldati nemici, l’americano Lee Marvin e il giapponese Toshiro Mifune, impegnati in una guerra all’ultimo sangue, al celeberrimo “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” in cui la lotta di classe tra il proletario Giancarlo Giannini e la ricca Mariangela Melato sfocia nella commedia all’italiana a gradazione erotica. Paolo Virzì in “Ferie d’agosto” fece di Ventotene il palcoscenico della rissa antropologica tra italiani di destra e di sinistra. Dopo “Mamma mia!”, ambientato in un’isola greca da depliant turistico per risolvere le complicazioni della vita con la spensierata leggerezza delle canzoni degli Abba, negli ultimi anni le isole del cinema sono diventate incubi del futuro distopico che temiamo. Come la “Shutter Island” di Martin Scorsese, che reclude i pazzi criminali nella fortezza prigione in mezzo all’oceano per insegnarci che la follia può essere lucida autodifesa. Né è il caso di complimentarci coi fortunati che, vincendo una lotteria, sono trasferiti in un’isola da sogno in “The island” di Michael Bay: si scoprirà che la verità è un’altra, frutto di un’eugenetica criminale che, dietro il nobile fine di migliorare la vita, programma la morte. Peggio ancora l’isola del recente “Serenity”, frutto digitale di un mondo che, sulla scorta del “Truman show”, sospettiamo non avere più niente di autentico. Altro che Robinson Crusue ed elegia della natura incontaminata: per l’immaginario contemporaneo l’isola, sempre minacciosa come quella dei vari “Jurassic Park”, è una condanna o un inganno. Disorientati nel postmoderno, afflitti dal tema dell’identità nella società liquida, ogni uomo è diventato un’isola, tanto è vero che il Tom Hanks di “Cast away” scopre di essere “tagliato fuori” proprio quando torna a casa. L’esempio più sofisticato e suggestivo di come il cinema può scavare, a modo suo, nella conoscenza profonda della insularità ce lo ha fornito Michelangelo Antonioni. Quando, nel 1983, è tornato con una troupe della Rai (capitanata da Enrico Ghezzi, un buongustaio del genere) nell’isola di Lisca Bianca, nelle Eolie, dove, nel 1959, aveva girato il suo capolavoro “L’avventura”. Si tratta di un piccolo isolotto di scogli, senza abitazioni né traghetti che portano turisti, sul quale nessuno, tranne la troupe di quel film, aveva mai messo piede. Rivisitarlo significò dunque ritrovarlo, a distanza di quasi venticinque anni, assolutamente immutato e intatto. Così un luogo sperduto e dimenticato, destinato per sempre ad essere abbandonato alla sua natura selvaggia, è diventato per ben due volte il set di un maestro della regia. La prima volta come stupendo fondale, insieme naturale e metaforico, di una pellicola entrata di diritto nella storia del cinema. La seconda come protagonista assoluto (il titolo di questo originale documentario, o meglio poema visivo, è, per l’appunto, “Ritorno a Lisca Bianca”): indagato con scrupolo nel suo scabro paesaggio, fra le rocce corrose dalla salsedine e la scarsa vegetazione. Mentre gli unici segni di presenza umana che la cinepresa, curiosa di dettagli e avida di penetrarne l’essenza più intima, sono (che struggimento!) le tracce, ancora visibili, lasciate dalla troupe del 1959: le impronte dei cavalletti, i resti di quei lavoratori della fiction che ne violarono, in quei giorni lontani, la sacra incontaminata realtà.