La famiglia cinema

di Fabio Canessa

Conoscete “La famiglia Passaguai”? Probabilmente no, eppure è stata la serie di film più popolare degli anni Cinquanta, riempiendo le sale a tal punto che, quando usciva il sequel, era ancora in programmazione il precedente. Il padre Aldo Fabrizi (che era anche il regista), la madre Ave Ninchi e i figli Giovanna Ralli e Carlo Delle Piane divertivano con le loro disavventure le grandi platee, che si rispecchiavano in quella famiglia semplice, imbranata e affettuosa dell’Italia ingenua del dopoguerra.

Nel 1965 Marco Bellocchio esordiva con “I pugni in tasca”, anticipando la contestazione sessantottina con la storia di un matricidio. È qui che il cinema perde l’innocenza e diventa adulto, iniziando a bersagliare vizi, ipocrisie, soprusi e ambiguità della famiglia borghese. Tra i registi italiani, i gay tormentati di Ferzan Ozpetek e gli etero bercianti di Gabriele Muccino hanno rappresentato negli ultimi decenni nevrosi e dolcezze delle famiglie allargate, formate da vecchi che vogliono essere giovani e da giovani che non vogliono diventare adulti, i primi incapaci di superare i pregiudizi, i secondi incapaci di assumersi le responsabilità. Ma se cercate un’analisi profonda quanto nerissima dell’istituzione familiare, unita a una qualità artistica che sfiora il capolavoro, meglio rivolgersi al Sidney Lumet terminale di “Onora il padre e la madre” e al Sam Mendes profetico di “American Beauty”, pietre tombali della visione edificante della famiglia americana.

Solo i topi di cineteca ricorderanno un film sperimentale di culto, diretto dal brasiliano Julio Bressane negli anni Sessanta, intitolato “Uccise la famiglia e andò al cinema”. Si tratta di un arzigogolo filosofico splatter, più estremo di Luis Bunuel e di Marco Ferreri (entrambi giudici severissimi del nido domestico), nel quale il protagonista massacra a rasoiate i familiari e poi va al cinema a vedere pellicole di impegno sociale, ma il titolo ci suggerisce una verità: il cinema è stato, per molte generazioni, la famiglia più autentica e amata.

Come Mia Farrow in “La rosa purpurea del Cairo”, sempliciotti e intellettuali hanno trovato negli attori e nelle storie dei film un rifugio consolatorio dalle complicazioni della vita e nella sala cinematografica un ambiente più accogliente della loro casa. Spencer Tracy era un padre esemplare, Marylin Monroe la fidanzata ideale, Marlon Brando un fratello da sogno, Jack Lemmon l’amico più simpatico del mondo. Sordi, Tognazzi, Manfredi e Mastroianni erano più familiari di qualunque zio o cugino. È da quando il cinema non è più famiglia che le sale si sono svuotate. Per commemorarla, torniamo a vedere “La famiglia”, una saga dagli inizi alla fine del Novecento che manda a braccetto affresco storico-sociale e omaggio al cinema, dove Vittorio Gassman si trasforma in due ore sotto i nostri occhi da giovanotto ad anziano e un personaggio è interpretato da Massimo Dapporto quando è giovane e dal padre Carlo quando invecchia. Il regista Ettore Scola sapeva fondere arte e vita tra la cucina e il tinello. Oggi la famiglia dorme sul divano davanti a Netflix.