“…Una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale.” Così si esprimeva Giacomo Leopardi nelle Operette morali (Elogio degli uccelli, 1824). Osservando il paesaggio frutto dello sviluppo dell’economia e delle attività umane. Una “cosa artificiata” esposta ai rischi della natura cattiva e dell’uomo stesso, che stava diventavo più cattivo ancora verso l’ambiente che lo circondava e di cui, peraltro, lui stesso faceva parte. Una situazione paradossale che non contempla l’abbandono, se non al prezzo di degenerazioni, derive e disastri territoriali. Eppure, tanta strada doveva ancora compiersi sulla via del progresso, con l’industrializzazione e l’urbanizzazione che mel prosieguo dell’Ottocento e soprattutto nel Novecento avrebbero cambiato il volto dell’Italia.
La questione è ovviamente più generale, poiché in ogni parte del pianeta la natura ha subìto una progressiva manipolazione da parte dell’uomo: l’agricoltura, la città, l’industria, le infrastrutture, le tecniche - tutte componenti primarie del processo storico di territorializzazione – hanno alimentato una progressiva artificializzazione dello spazio. Via via il territorio, con l’incremento demografico e l’affermarsi di una economia estrattiva è diventato più vulnerabile. Con l’aumento del rischio, anche quelle che vengono solitamente etichettate come “calamità naturali” diventano più impattanti in termini di danno umano e ambientale. Si potrebbero elencare tante calamità - terremoti, eruzioni, alluvioni, frane, ecc. - che nella storia hanno dimostrato un legame tra vulnerabilità dei luoghi e conseguenze delle stesse calamità.
Quando avvenne la disastrosa alluvione di Firenze, ancora viva nella memoria collettiva, la questione ambientale non era ancora esplosa nella sua pienezza. Eravamo agli albori della cultura ambientale e i grandi movimenti ambientalisti stavano ancora nascendo. L’alluvione del 1966, seguita a un'eccezionale ondata di maltempo, fu uno dei più gravi eventi alluvionali accaduti in Italia, e causò forti danni non solo a Firenze ma in gran parte della Toscana e con ripercussioni in tutto il Paese.
A Firenze l'Arno aveva esondato più volte nel corso dei secoli, come attestano le targhe relative alle alluvioni precedenti. Tra tutte, era ancora vivo il ricordo tramandato di quella del 3 novembre 1844, fino al ‘900 reputata come la più disastrosa. Occorre chiedersi se era stato il fiume a diventare più furioso o se era stato il territorio attraversato, urbano e rurale, ad essere divenuto più fragile e esposto al rischio. La riflessione si colloca evidentemente nel profondo del rapporto di dominio tra uomo e natura. L’evento del 1966 si pone nell’ultimo tratto di un processo di lungo periodo che ha visto l’asse fluviale tra Firenze e il mare al centro della costruzione politica, economica e culturale della Toscana: un processo di sviluppo di cui anche le alluvioni hanno rappresentato un fatto.
L’ Arno è la matrice dell’assetto territoriale di gran parte della Toscana. Per secoli esso ha rappresentato un “sistema a rete” esteso ai suoi affluenti, alle paludi e al mare, disegnando una “grande trama del mare” e una regione economica che abbracciava anche le città e i territori dell’interno. Una lunga storia che si intreccia con la corrente del fiume, con i suoi flussi stagionali, i suoi eccessi e le sue vendette. Le alluvioni sono state anch’esse un soggetto storico: hanno disegnato il territorio, cancellando segni e lasciandone altri, determinando fratture e alimentando spostamenti, dalle inondazioni più antiche tramandateci dal cronista pisano Bernardo Maragone e riprese dagli storici a quelle medievali che distruggevano i primi paesi e rendevano impossibile la durata dei ponti, fino a quelle dell’età moderna e contemporanea che hanno avuto un impatto sempre maggiore, una percezione sociale più profonda, perché impattanti su un contesto territoriale reso più vulnerabile dall’infittirsi del popolamento, dalla moltiplicazione degli insediamenti e dalla crescente infrastrutturazione del corridoio economico Firenze-Pisa-Livorno.
Il succedersi delle alluvioni, così come i mutamenti intervenuti nel corso dei secoli nella geografia fluviale, sono impressi anche nella toponomastica, tanto che i nomi dei luoghi assumono per noi anche la funzione di fonti storiche: La Rotta, una località tuttora esistente tra Empoli e Pontedera, era nominato così fin dal IX secolo a testimonianza della rottura degli argini; ma gli esempi potrebbero essere innumerevoli. Non è il caso, in questa sede, di dilungarci sulla lunga, ripetuta e per certi versi affascinante storia delle alluvioni dell’Arno, ma richiamare piuttosto il valore che ne risulta in termini di percezione sociale e politica, tanto da far diventare l’Arno un collettore di esperienza istituzionale e giuridica.
L’alluvione del 4 novembre 1966 è una delle vicende che hanno segnato in modo più marcato la storia della difesa del suolo in Italia, influenzando l’opinione pubblica in merito alla percezione del rischio. L’alluvione colpì pesantemente il microcosmo di vita sviluppatosi intorno al fiume, che da allora divenne un “retro” delle città, quasi un nemico da imbrogliare con argini paratoie, e allo stesso tempo l’emblema italiano della necessità di difendersi dalle catastrofi cosiddette “naturali”. Se da una parte fu un’immane tragedia sul piano dei danni alle persone e soprattutto ai beni del patrimonio culturale dell’umanità, l’alluvione rappresenta anche uno dei primi momenti di restituzione “mediatica” di una catastrofe naturale, un uso dell’ “emergenza” per affrontare problemi che dovrebbero essere considerati ordinariamente.
Quello che oggi definiamo come “rischio idraulico” ha interessato il bacino dell’Arno in tutte le epoche. Le ricerche storiche ci dicono che dal XII secolo al 2000 Firenze ha subito ben 56 piene con allagamento dell’area urbana e che tra queste quella del 1966 si colloca tra le otto più rovinose, cioè quelle del 1333, 1547, 1557, 1589, 1740, 1758, 1844 e appunto 1966. A seguito di questo disastroso ultimo evento fu istituita una commissione interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo (Commissione De Marchi) con l’obiettivo di definire le strategie di difesa agli eventi alluvionali per tutto il territorio italiano.
Nel piano che ne scaturì (Piano Supino, 1974) si delineava in un progetto di sistemazione che prevedeva la realizzazione di un cospicuo numero di serbatoi, vasche di espansione e diversivi lungo tutta l’asta dell’Arno. Altri interventi vennero previsti nel cosiddetto “Progetto pilota” elaborato negli anni successivi. Ma vent’anni più tardi Raffaello Nardi, Segretario Generale dell’Autorità di Bacino dell’Arno, doveva osservare che le proposte, gli studi e i progetti, che si erano succeduti nel tempo “solo in piccolissima parte si sono a tutt’oggi concretizzati in interventi strutturali effettivi per la difesa dalle piene”. Lo stesso Nardi affermava che il rischio idraulico nel bacino dell’Arno, dopo l’evento catastrofico del 1966, è molto aumentato principalmente a causa dei fenomeni antropici, in particolare dello sviluppo dell’edificazione nelle aree circostanti. A quasi sessant’anni dal disastro dell’Arno è opportuno riflettere sulle reali prospettive di prevenzione al fine di evitare tragedie future di tale entità e di assumere la vulnerabilità territoriale e sociale come concetto basilare delle politiche ambientali.
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Nota bibliografica
A. Caracciolo A., L’ambiente come storia. Sondaggi e proposte di storiografia dell’ambiente, Il Mulino, Bologna, 1988
Vallis Arni # Arno Valley: la Toscana dal fiume al mare tra eredità storiche e prospettive future, a cura di M.L. Ceccarelli Lemut, F. Franceschini, G. Garzella, O. Vaccari, Pisa, Pacini, 2019
L’Arno. Trent’anni dall’alluvione, Pacini, Pisa, 1997.
Territori vulnerabili. Verso una nuova sociologia dei disastri italiana, a cura di A. Mela, S. Mugnano, D. Olori, Franco Angeli, Milano, 2017