Storie di confine

Un libro su Monteverdi e la necessità di tornare ai luoghi


di Rossano Pazzagli

 

La riflessione sui confini può nutrirsi di questo recente libro che Alessandro Colletti ha dedicato alla storia delle località minori del comune di Monteverdi Marittimo, in provincia di Pisa (A. Colletti, Monteverdi e Canneto: storie di confine, 2022). Una microstoria che non è una piccola storia, ma la storia grande di piccoli luoghi. Si tratta di un libro sui luoghi, dunque – sui posti, come si dice in Toscana – e i luoghi sono come le persone: bisogna volergli bene. Per volergli bene bisogna conoscerli, rispettarli, curarli… e conoscere i loro confini, non fosse altro che per attraversarli, infrangerli, cogliere il senso vero dell’andare oltre il limite. I luoghi non sono soltanto lo sfondo inerte delle azioni e dei comportamenti umani, né banali mete turistiche da visitare e fotografare meccanicamente. Sono anch’essi soggetti, realtà vive all’incrocio tra natura e uomo, sul confine, appunto, tra locale e globale. Sono territorio, paesaggio, società. I luoghi hanno un nome, talvolta più di un nome, e la toponomastica come il paesaggio ci parla delle funzioni e delle trasformazioni delle località che ogni giorno distrattamente frequentiamo. Come le persone, i luoghi nascono e muoiono, ma essi possono vivere molto più a lungo, per secoli o millenni.
È un libro che somiglia a una genealogia dei luoghi, a una biografia o forse quasi a un’autobiografia territoriale nella quale la storia diventa non più soltanto fattore d’identità, ma anche contenitore di prospettive future. La storia e la geografia si intrecciano, generando confini più o meno duraturi, comunque mutevoli. Da Caselli al Consalvo, da Gualda al Castellare si distende il territorio di Monteverdi e di Canneto per quasi 100 chilometri quadrati. Ci troviamo in un’area periferica della Toscana, in quella che a lungo è stata l’Alta Maremma. Ma periferia non si nasce, si diventa. Pertanto, il libro di Colletti è soprattutto una storia dei margini, dei confinicome dice lui fin dal titolo, una carrellata ben scritta di storia e di storie: le fondamenta antiche, l’organizzazione medievale del territorio, la decadenza dell’età moderna, la riorganizzazione otto-novecentesca e infine il declino rapido dell’età contemporanea. Nell’ultima fase questi luoghi – campagne o piccoli paesi – sono stati colpiti dall’esodo rurale, dall’abbandono che li ha quasi devitalizzati come contraltare del boom economico; ora c’è un timido ritorno alla campagna, mosso dalla necessità di un nuovo stile di vita che passa anche dalla rigenerazione di luoghi abbandonati, traditi, feriti e qualche volta perfino derisi dal modello di sviluppo consumistico, urbanocentrico e capitalistico dell’ultimo secolo.
I confini oltrepassati: quando per andare via e quando per tornare. Il libro è il tentativo di ridare voce a luoghi che l’avevano perduta, intrecciando tempi e spazi, come se la cronologia si dissolvesse in un continuum di funzioni vitali per le quali l’insediamento umano si lega sempre alle risorse naturali, che siano l’acqua o il legname, la terra o l’aria, per le quali il confine diventa il limite, il limite oltre il quale il cosiddetto sviluppo – nel senso della crescita economica - non può andare.
Nei luoghi ci stanno le persone: nel passato tanti contadini, pochi signori, poi pastori, boscaioli e altri individui in cerca di fortuna che migrando, dunque attraversando confini,  hanno popolato a più riprese queste terre di Maremma, arrivando dalle montagne appenniniche e da altre zone, passando da un podere all’altro, dai piccoli paesi alle campagne e viceversa. È quindi anche un libro di biografie e di genealogie familiari che si intrecciano con quelle di tante località comprese tra il Cornia e il Cecina, due fiumi che incorniciano un territorio vasto, a lungo considerato Pisano e Volterrano in particolare. Un territorio “marittimo”, cioè maremmano, poiché in antico la Maremma era chiamata Maritima. Qui l’aggettivo “marittimo” equivale a un confine: non vuol dire sul mare, ma “di Maremma”: fu aggiunto dopo l’Unità d’Italia quando, per distinguerli da altri paesi con lo stesso nome, Monteverdi, Massa, Campiglia, Casale, Monterotondo e vari centri della fascia collinare tra Livorno e il Lazio (tutti nell’entroterra), dovettero allungare il loro nome con  la parola “marittimo” o “marittima”. Voleva dire “luoghi di Maremma”, appunto. La Maremma non è un’espressione geografica, ma piuttosto una condizione esistenziale, quasi una frontiera: si tratta di territori debolmente strutturati, con economie che hanno conservato a lungo caratteri seminaturali, dove l’incontro tra uomo e natura era riuscito a mantenere un sostanziale e persistente equilibrio. Un territorio con forti connotazioni agro-silvo-pastorali, nel quale le forze spontanee della natura – dal clima, alla vegetazione, all’acqua – mantengono la loro forza. Pur essendo oggetto di tanti tentativi di ripopolamento e di insediamento, dall’antichità fino all’età contemporanea, quest’area non si è riempita e anche l’urbanizzazione non è andata oltre una certa soglia, tanto che Monteverdi Marittimo  ha oggi una densità demografica di 7,5 abitanti per chilometro quadrato, a fronte di una densità media italiana di circa 200. È l’esito di un andamento demografico che ha registrato una forte diminuzione dopo la metà del ‘900, passando dai circa 2.000 abitanti nel 1950 ai 980 del 1971. Poi la discesa è continuata, sebbene a ritmi più lenti e con piccole oscillazioni, fino ai circa 750 abitanti attuali. Entro i suoi confini c’è spazio, dunque, e lo spazio è diventato una risorsa importante per la società contemporanea concentrata nelle realtà metropolitane. La storia ricostruita da Colletti attraverso mappe e documenti, arricchita dallo sguardo antropologico della percezione, ci dice proprio questo: che non c’è il niente; che, come in passato ci sono stati pascoli, boschi e miniere, oggi, nell’era globale, è possibile ritrovare un protagonismo dei territori locali, che riconosca le vocazioni originarie e le coniughi con gli ineludibili processi di innovazione, che trasformi la conoscenza e perfino la leggenda (la percezione, appunto) in una ritrovata coscienza di luogo. Un luogo con i suoi confini, insomma, che non significano chiusura ma riconoscimento comune di un orizzonte condiviso, oltre il quale se ne apre sempre un altro.