Paesaggi di confine

tra centro e periferia

di Marina Foschi

Il perimetro dei centri storici rappresenta un paesaggio di confine mutato nel tempo secondo esigenze riconoscibili che ne hanno segnato la valenza identitaria: luogo di relazione degli insediamenti che conservano testimonianze di funzioni egemoni rispetto a un territorio circostante. Quel rapporto, interrotto con lo sviluppo industriale delle città e l’abbandono delle campagne, può essere ricucito pianificando il recupero delle testimonianze storiche e dei valori paesaggistici.

I confini perduti e l’età dei piani regolatori: la tutela dei centri storici
In Emilia Romagna la conservazione dei centri storici prevista dalla legge regionale n.2 del 1974 si basava sulla definizione di funzioni e perimetri di circa 2000 insediamenti per i quali evidenziava, con il confronto delle cartografie storiche e delle riprese aeree, la trasformazione dell’assetto urbano e del contesto paesaggistico prodotta nel dopoguerra dalla società industriale che già denunciava la crisi di quel modello di sviluppo. La definizione teorica è di Lucio Gambi, primo presidente dell’Istituto per i Beni Culturali al quale la Regione aveva affidato la compilazione dell’inventario.
I risultati di quell’indagine furono pubblicati con il titolo: I confini perduti. Inventario dei centri storici, analisi e metodo  e presentati nel 1983 a Bologna nel Convegno internazionale di studi: La salvaguardia delle città storiche in Europa e nell’area mediterranea.
L’inventario regionale  portava alla pianificazione dei centri storici, secondo i principi della Carta di Gubbio del 1960, sull’esempio del Piano di Bologna , poi venne inserito nel Piano Territoriale Paesistico Regionale (Decreto Galasso del 1986) approvato nel 1993. Anche il PTPR potè avvalersi delle fondamentali ricognizioni e documentazioni raccolte dall’IBC. 
ll metodo di lavoro assegnato da Andrea Emiliani a questo Istituto (strumento della programmazione della Regione e degli Enti locali per l’attuazione delle deleghe in materia urbanistica e culturale) si basava su due principali indirizzi sperimentali: le campagne di rilevamento interdisciplinari del patrimonio culturale e paesaggistico dell’Appennino, compiute dalla Soprintendenza di Bologna fra il 1968 e il 1971; il Piano del centro storico di Bologna, realizzato da Pier Luigi Cervellati nel 1968. Entrambi con il fondamentale contributo documentario della fotografia di Paolo Monti.              
Stupisce l’attualità della presentazione fatta quarant’anni fa da Cervellati per la presentazione de I confini perduti: <<La nostra inquietudine nasce dal fatto che stiamo assistendo al tramonto della società industriale (e delle sue certezze) e ci accingiamo a predisporre una nuova società di cui intravediamo soltanto alcuni connotati. All’inizio il recinto murario che cingeva la forma urbis della città storica venne quasi dappertutto per evitare che si creasse una frattura fra passato e futuro…  In attesa del futuro non possiamo limitarci alla constatazione dello stato di fatto… Per la prima volta dopo quasi un secolo di illimitata fiducia nella tecnica, si ha il senso del limite delle risorse. Si constata che il territorio è una risorsa in fase di esaurimento e, nonostante la tecnologia moderna, non è riproducibile. I modelli di sviluppo – i tradizionali piani regolatori- sono in crisi, sono strumenti del tutto obsoleti, predisposti allo sviluppo continuo, alla crescita inarrestabile, anche quando cessano i condizionamenti che hanno imposto il proliferare degli aggregati urbani nell’ambiente naturale. La questione dei centri storici … è tutt’altro che risolta, proprio perché non è stata risolta la questione urbana …>> (Pier Luigi Cervellati, I confini perduti, inventario dei centri storici, analisi e metodo, Bologna, 1983)
In seguito, nonostante la diffusa formazione di piani particolareggiati di tutela, e di norme rigorose del PTPR, la Pianificazione territoriale ha progressivamente rinunciato a regolare la crescita urbana, prevedendone anzi espansioni al di fuori dei bisogni, mentre i Regolamenti edilizi hanno fortemente limitato gli interventi di restauro.
 
Uno spazio per la tutela
 Fra confini perduti e identità ritrovate   è il titolo assegnato dalla Sezione di Forlì di Italia Nostra alla lettura delle mura di tre centri significativi del suo territorio per le Giornate Europee del Patrimonio nell’autunno 2022, che Italia Nostra nazionale aveva dedicato a questo tema. 
Le mura di Forlì, Forlimpopoli e Bertinoro, sono state poi riprese nel contributo richiesto dal settore Educazione e Formazione nazionale dell’Associazione per il corso Paesaggi di confine. Modelli per una narrazione partecipata. Considerare questi luoghi come nuovi spazi per la tutela significa sollecitare un maggiore interesse dei cittadini e cercare soluzioni alle nuove esigenze di rispetto del paesaggio e di sostenibilità ambientale.    Nella diversità  dei caratteri originali e dei processi di urbanizzazione fra le città considerate si evidenzia il bisogno di  una nuova pianificazione attenta a questi valori.
Forlì conserva pochi lacerti ben documentati delle mura che nel XV secolo avevano incluso ben 18 conventi con ampie aree ortive in parte presenti nel settore occidentale e potrebbero costituire una nuova cintura verde a partire dall’area ex Eridania tangente la ferrovia e le mura abbattute, fino al Parco urbano.
Fra il 1905 e il 1906 Antonio Santarelli, fondatore del Museo Archeologico e riorganizzatore delle raccolte civiche, annotò ogni dettaglio di quanto veniva demolito per una spinta verso il progresso, che significava  cancellare per sempre l’immagine documentata da artisti e geografi.
La Rocca di Ravaldino, unica persistenza visibile del sistema difensivo, è chiusa al pubblico, ma basterebbe visitarla e conoscerne la storia.
Forlimpopoli ha invece mantenuto ampi tratti di mura che ricalcano il perimetro trecentesco con palizzate e fossati inglobati nell’edificato successivo. Il primo tratto ad essere murato da Pino III Ordelaffi nel 1471 fu quello sulla via Emilia a completamento del sistema di fortificazioni della rocca fatta erigere nel 1361 dal cardinale Albornoz. Ne resta il torrione semicircolare “del Lonardo” ,  quelli di “San Rufillo” e dei “Servi”  sono ancora parzialmente visibili nei cortili di abitazioni private, mentre non rimane nulla delle tre porte. I tratti in corrispondenza del “campo di San Rufillo”, fungono da confine fra cortili privati e spazi pubblici.
Bertinoro, con le cinte a gradoni attorno al poggio coperto di verde, conserva il rapporto dominante sul paesaggio circostante  e l’ampia veduta fino al mare, consentendo percorsi pubblici sorprendenti lungo le mura. Cambiano i materiali costruttivi rispetto alle precedenti città, con l’utilizzo dello Spungone locale che definisce un’ulteriore area culturale. Citata come Castrum intorno al 1000, appartenuto agli Ordelaffi di Forlì all’inizio del Trecento e riconquistato dalla Santa Sede, venne dichiarato civitas dal cardinale Egidio Albornoz che vi tasferì la sede vescovile della distrutta Forlimpopoli nel 1360.
Negli anni recenti, al recupero universitario e museale della rocca è corrisposta una maggiore attenzione per la manutenzione e la percezione pubblica delle cinte murarie, con l’attivazione di percorsi nel verde e una segnaletica descrittiva e non invasiva sulle caratteristiche materiche e storiche in collegamento con il territorio circostante. La condizione paesaggistica privilegiata mette in maggiore evidenza l’opportunità di pratiche sostenibili e rispettose del contesto per la conservazione fisica del patrimonio e il riconoscimento dell’identità dei luoghi.
 
Ritrovare identità nei paesaggi di confine
 A quarant’anni  dalle iniziative sui Confini perduti si ripropone la tutela dei Paesaggi di confine nell’aggravarsi della crisi ambientale e culturale percepita da tutti.
Per i perimetri delle città storiche si affacciano possibili modelli alternativi rispetto a proposte che hanno solo spostato la logica speculativa da periferie degradate alle aree libere più remunerative negli stessi centri storici, contraddicendo buoni strumenti urbanistici esistenti; non si considera consumo di suolo la rete inarrestabile di infrastrutture e poli logistici, di fotovoltaico e pale eoliche nelle campagne migliori, sottratte a un’agricoltura divenuta indispensabile a livello mondiale.
La ricucitura di segni identitari di passate culture si presenta ora in sintonia con città più verdi e vivibili in una progettazione del paesaggio urbano fruibile dai cittadini.