Le funzioni del confine: Trieste, tra storia e letteratura
L’idea di confine è onnipresente. A parte la sua presenza nei discorsi politici, particolarmente urgenti in Europa, assistiamo ultimamente anche a un dibattito sull’importanza del confine nell’ambito culturale. Lasciando da parte la questione di come definire il concetto, questo breve intervento vuole considerare la funzione del confine nel contesto di una città multiculturale.
Prenderò a modello Trieste, una città che vive da secoli gli effetti di un confine in continuo movimento. Un breve sguardo alla storia di Trieste e all’opera di uno dei suoi tanti autori ci aiuta a capire come il confine ha acquisito un doppio valore: è una realtà concreta che ha un impatto sugli individui, ma è anche un concetto inadatto a contenere, o definire, i movimenti complessi della vita.
Per molti studiosi del confine, il caso di Trieste è esemplare. Trieste fece parte dell’impero asburgico per un lungo periodo, dal 1368 al 1918, e fu un punto di riferimento costante nel dibattito sui confini e l’identità negli anni di guerra.
Un porto fondamentale per l’impero asburgico, ma allo stesso tempo culturalmente legata all’Italia per il tramite della lingua italiana – lingua franca nell’Adriatico per secoli – Trieste doveva il suo successo economico al mondo germanico ma una buona fetta della sua cultura all’Italia. Oltre a ciò, la città è stata un crocevia per numerosi popoli, giunti in questa zona all’inizio dell’Ottocento per lavorare nel porto.
Italiani, slavi, greci, tedeschi e altri coltivavano una cultura municipale difficile da ridurre a una singola nazione. La storia dopo la Prima guerra mondiale, inoltre, riflette l’impossibilità di classificare Trieste facilmente.
Nel 1920 Trieste fu annessa all’Italia; nel 1943 fu sotto l’occupazione tedesca; nel 1945 fu conquistata dalla Jugoslavia; nel 1947 le Nazioni Unite stabilirono il Territorio Libero di Trieste; e nel 1953 la città fu annessa all’Italia.
Dati i suoi confini cangianti, il caso di Trieste fa sorgere una domanda: cosa cambia quando i confini cambiano? Trieste divenne veramente italiana nel 1920? e poi veramente jugoslava nel 1945? Inoltre, come si definiscono gli abitanti di un’area “definita” da un confine così fluido?
Claudio Magris, scrittore e studioso che ha riflettuto abbondantemente sulla questione, afferma che il confine ha una natura complessa. È quasi un cliché che il confine abbia un lato problematico, o negativo, come un qualcosa che esclude e crea barriere fra le persone. Magris, invece, ci offre un’analisi assai sottile dell’impatto della frontiera.[1] Per lui, il confine ha una certa utilità come entità che possa evidenziare le differenze. Non siamo tutti simili; esistono tante culture diverse e, secondo Magris, cancellare i confini implica il rischio di trascurare quello che ci rende differenti.
Al tempo stesso, un confine troppo rigido potrebbe celare il modo in cui l’esperienza umana trascende qualsiasi barriera. Il confine può essere utile, anche fondamentale, per costruire un senso d’identità, ma può anche essere causa di discordia. Secondo Magris, Trieste è un caso ideale per una discussione sul confine proprio perché la sua storia ha reso la questione scottante, e il suo impatto sull’identità particolarmente visibile. Da un lato, gli avvenimenti del Novecento hanno scosso fortemente la città, soprattutto durante gli anni della guerra. Dall’altro, la presenza di un confine non può cambiare facilmente il senso d’identità di un individuo.
Come studioso di letteratura, cerco sempre esempi in biblioteca. A mio avviso, Verde acqua (1987), il libro autobiografico di Marisa Madieri (1938-1996), è uno dei più ricchi per quanto riguarda la questione del confine e del suo funzionamento nel contesto di Trieste.
Madieri, nata a Rijeka/Fiume nel 1938, andò a Trieste con la sua famiglia dopo la Seconda guerra mondiale durante l’esodo dall’Istria. Nel 1947 il Trattato di Parigi assegnò Rijeka/Fiume alla Jugoslavia. Gli italiani della città, come la famiglia di Madieri, dovettero scegliere: lasciare la città natale o rimanere in città e assumere la cittadinanza jugoslava.
In Verde acqua Madieri racconta la decisione della sua famiglia di andare a Trieste, allora governata dagli alleati. Come tanti esuli a Trieste, Madieri passò molti anni nel Silos, una struttura vicina alla stazione centrale dove migliaia di persone hanno vissuto dopo l’esodo da Rijeka/Fiume. Madieri descrive le pessime condizioni del Silos e la difficoltà di vivere senza una vera casa. Verde acqua parla delle esperienze nel Silos come di una parte del lungo viaggio nell’Adriatico, un’odissea che porta Madieri da Rijeka/Fiume a Venezia a Trieste. Più tardi, durante gli anni del liceo, la scrittrice riflette sulla sua vita a Trieste durante una passeggiata sul mare. Guarda verso l’Istria, oltre il golfo dell’Adriatico. Pensa alla sua città natale e ai tanti anni di storia e di viaggi che l’hanno portata a questo momento: “Un po’ più lontano, oltre l’Istria, pensai, c’era la mia città, sopra la quale quei nuvoloni sarebbero presto arrivati.”[2] Invece di spingerla alla nostalgia, la vista di Istria solleva un altro sentimento. Madieri scrive, “Ma non provai rimpianto. Qui c’erano le stesse onde, lo stesso cielo, lo stesso vento. Mi sentii d’un tratto a casa. Ripresi a correre, saltellando, col cuore pieno di allegria.”[3]
Dopo anni di viaggi e incertezze, Madieri guarda la città della sua infanzia e vede una continuità fra il passato e il presente. Prima, casa sua era Rijeka/Fiume; adesso è Trieste. Verde acqua descrive le difficoltà che Madieri affrontò nella sua vita, compreso l’esodo, ma l’autrice sfugge sempre qualsiasi senso di limitazione. Il cambiamento dei confini dopo la guerra ebbe un impatto sulla sua vita ma non distrusse il suo legame con Rijeka/Fiume. Insomma, Madieri ci dimostra come il confine abbia un certo potere ma, alla fine, non riesce a rinchiudere un individuo.
Cosa fa, quindi, il confine? Qual è la sua funzione? Qual è il suo potere? La risposta dipende da molteplici fattori. Non sarebbe giusto affermare che i confini non abbiano avuto un impatto negativo sulla vita di tante popolazioni. Tuttavia, come vediamo negli scritti di Magris e nelle opere di Madieri, il confine ha una duplice natura, la quale è, in ultima analisi, inadeguata a catturare lo spirito dell’esperienza individuale.
Madieri scrive degli eventi storici come di “episodi che non minacciavano ma solo movimentavano la mia vita.”[4]
Forse questo è il modo migliore di definire la sua prospettiva sul confine, la sua risposta a quello che fa il confine, e anche la nostra: non forza ma movimenta.
[1] Magris scrive del confine in vari articoli. Si trova una descrizione concisa in Claudio Magris, “Chi è dall’altra parte? Considerazioni di frontiera,” Nuova Antologia 567, no. 2182 (April 1, 1992): 50-61. Si trova un’altra elaborazione delle sue idee in Claudio Magris, “Mitteleuropa: Reality and Myth of a Word,” Edinburgh Review 87 (1991–92): 141–53.[2] Marisa Madieri, Verde acqua - La radura e altri racconti (Torino: Einaudi, 2016), 119[3] Ibid.[4] Ibid., 12.
[2] Marisa Madieri, Verde acqua - La radura e altri racconti (Torino: Einaudi, 2016), 119
[3] Ibid.
[4] Ibid., 12.