L’abbandono come confine. Le terre al limite del Grande Fiume

di Gabriella Bonini


Una premessa necessaria
Negli ultimi sessant’anni abbiamo modificato il territorio come mai avvenuto nel corso dei secoli precedenti. La dispersione dello spazio costruito e l’urbanizzazione diffusa hanno provocato una frammentazione territoriale e paesaggistica che ha raggiunto livelli veramente preoccupanti: crescita urbana disorganizzata, incoerente, slegata dagli insediamenti tradizionali, realizzazione di surplus di infrastrutture (leggere e pesanti), diffusione di modelli architettonici standardizzati.
Paesaggi banali e tutti uguali.
Fino alla seconda metà del secolo scorso, il paesaggio agrario era stato il risultato di secoli di storia e di lavoro, dove lo sviluppo della civiltà era andato di pari passo con quello dell’agricoltura e dell’allevamento e, di conseguenza, con la trasformazione del paesaggio quale prodotto del lavoro dell’uomo.

La zona presa in analisi, quella della Pianura Padana compresa tra il Po e la via Emilia, i torrenti Crostolo e Enza, dai tempi della sua sistemazione ad opera dei romani con la centuriatio, passando poi per il Rinascimento e fino al primo nostro dopoguerra con le opere di bonifica e il dissodamento dei terreni, è diventata una terra fertile, ricca d’acqua e ben drenata, ma nel corso degli ultimi ottant’anni ha subito modificazioni territoriali e abitative di grande rilievo.

La domanda posta è: si può parlare di paesaggi di confine come luoghi dell’abbandono anche per porzioni della ricca Pianura Padana? In che modo questo territorio, riconosciuto come modello Emilia, di produzione specializzata, piccole-medie aziende agricole e industrie, cooperative, esperienze amministrative all’avanguardia, culla di quel miracolo economico può contenere porzioni scartate?

Qualcosa non ha funzionato se poniamo l’attenzione alle abitazioni.
L’abitare è stato il protagonista del processo che ha inciso profondamente sul volto del territorio. Se ancora all’inizio del Novecento l’Emilia era in gran parte una regione contadina e nelle campagne vi trovava impiego il 60% della forza-lavoro, in poco più di un secolo il quadro è cambiato radicalmente e ora la Regione è ai primi posti in Italia per produttività, reddito, qualità dei servizi e gestione del territorio. I cambiamenti sono stati di una rapidità sconcertante, soprattutto considerando che i più rilevanti si sono avuti nell'arco degli ultimi trent’anni del secolo scorso. Il crescente sviluppo urbano e industriale ha compromesso seriamente l’insieme prezioso dei segni e delle testimonianze che avevano modellato nei secoli le peculiarità di questo paesaggio padano fatto di case coloniche, unifamiliari o poco più, distribuite in modo uniforme sul territorio. L’accelerato abbandono dell’attività agricola, l’aumento dello spazio costruito a scopo abitativo, le enormi dimensioni acquisite dai mezzi agricoli, i giganteschi trattori, motofalciatrici, mietitrebbia, il fortissimo incremento di colture specializzate con uso abbondante di concimi chimici, fitofarmaci, antiparassitari, selezioni genetiche, lo stoccaggio dei prodotti in enormi silos o in grandi balloni di fieno e paglia, gli stalloni per l’allevamento intensivo di mucche e maiali, l’ampliamento delle aree industriali hanno plasmato un nuovo paesaggio a cui corrispondono modi diversi di vedere, intendere, usare, abitare e consumare il territorio.
Anche qui si sono affermati stili di vita centrati sulla città, i campi sono stati abbandonati così come le case rurali. È stato un repentino addio al mondo rurale, un processo nel quale il modello industriale, basato sulla crescita dei consumi e della produzione e il modello sociale centrato sul welfare urbano, hanno preso il sopravvento. Ha vinto il richiamo della città nelle modalità abitative, nei valori sociali e culturali. Quella che da tutti è stata decantata come l’età del boom economico ha portato così alla marginalizzazione progressiva delle campagne, del lavoro contadino, del suo abitare: dal podere all’appartamento, sintetizza efficacemente Corrado Barberis.

Il territorio della provincia di Reggio Emilia compreso tra il fiume Po e la Via Emilia. Il caso.
Si tratta di un territorio di circa 700 kmq nella fascia nord della provincia di Reggio Emilia, dal fiume Po alla Via Emilia, quasi un terzo della superficie provinciale.
Sono 20 comuni su 42. La popolazione residente raggiunge le 180.000 unità.
Superficie e abitanti sono pressoché un terzo della consistenza provinciale. Considerando che la città capoluogo con la sua cintura di comuni a vocazione soprattutto commerciale e industriale occupa un altro terzo  e che l’ultimo terzo è quello della zona montana praticamente disabitata e lasciata a bosco, è in questa parte del territorio che si concentra la ricchezza agricola della provincia di Reggio Emilia: foraggio e allevamento delle vacche da latte per il Parmigiano Reggiano, viti per il Lambrusco e allevamento di maiali per gli insaccati (salami, prosciutti, ciccioli).

Fig. 1 Il territorio della provincia di Reggio Emilia preso in esame 

Fig. 2  La provincia di Reggio Emilia nella sua collocazione geografica 

 

Poiché è stato impossibile recuperare da tutti i 20 comuni i dati relativi al numero complessivo delle unità abitative e tra queste quelle con annotazione di ruralità e, infine, tra queste ultime, quelle in condizioni fatiscenti, è stata fatta una ricognizione sul campo, percorrendo in lungo e in largo il territorio, annotando lo stato attuale. 

Ne risulta un quadro angosciante: nelle zone rurali di margine le case in stato fatiscente, completamente inabitabili, sono nella proporzione di una su tre, tenendo comunque presente che delle due rimanenti in buono stato di conservazione solo una (e non sempre) è abitata da famiglie che lavorano la terra (e si tratta spesso di indiani o pachistani).  Man mano che ci si sposta verso il capoluogo, le case abbandonate e irrecuperabili diminuiscono con una media di una a otto. Tuttavia, anche quando l’ultimo anziano se ne sarà andato, queste case lontane dai servizi, lungo strade dissestate, polverose d’estate e fangose d’inverno, saranno lasciate al loro destino di rovina. 

Molte delle abitazioni rurali sono state sostituite da casette su collinetta, con pini e gnomi nel giardino, taverna sotto (non cantina) e mansarda sopra (non soffitta, luogo degli oggetti che poi potranno servire, deposito di legna e granaglie). 
Questo modello, a partire dagli anni ’70 del Novecento è diventato il simbolo del moderno e l’abitare nel nuovo luogo non è più un ri-conoscersi in esso, non serve conservarne il senso di appartenenza, di radicamento a una terra elettiva, di memoria. Non c’è più contatto con il rustico dell’abitazione rurale dove riposavano animali, attrezzi e fienagione. Si costruiscono stalle come capannoni distanti dall’abitazione. 
Alla fisionomia del nuovo luogo non servono i segni del passato, i modi di abitare, costruire, coltivare. Il modello è sempre più quello dell’appartamento cittadino o della palazzina in paese (e tutti questi paesi si dotano anche di un grattacielo). 
Qui non c’è storia, la casa diventa dormitorio e la vita si svolge altrove, in ufficio, in fabbrica, al mare, in discoteca. 

 

Cosa fare? Come fare? 

Parlare di edilizia rurale significa parlare di beni intrinsecamente legati alla vita e alla storia di una comunità. Significa che la responsabilità individuale e la consapevolezza collettiva si devono fare carico della tutela di quel territorio, dei paesaggi, delle cose, perché tutto questo è il patrimonio che faticosamente i nostri predecessori hanno costruito nel tempo. Vere e proprie realtà antropologiche, non solo naturalistiche o culturali, dense di significati e di storie che si compenetrano. Luoghi di memoria, fortemente identitari. 

Occorre recuperarne la memoria, quel canale di comunicazione fra il passato e il presente per cercare di ricucire il tessuto della comunità rurale lacerato dalla accelerazione sociale prodotta dal boom economico che, come abbiamo visto, per diversi aspetti, anche nelle nostre ricche campagne, ha significato uno sboom economico[1], marginalizzato l’abitare e il lavoro contadino.
Una accelerazione sociale coincidente con uno choc culturale, non solo dovuto alla «crescita produttiva, ma come erosione di ogni ordine temporale consolidato in conseguenza della crescente innovazione culturale e sociale dettata da almeno tre ordini di problemi: accelerazione tecnologica, accelerazione dei mutamenti sociali e del ritmo di vita»[2]

La conoscenza del nostro comune passato “rurale”, delle sue componenti storiche, geografiche, antropiche, sociali, è una necessità oggi imprescindibile per avviare un corretto rapporto tra coltivazioni, insediamenti, infrastrutture, permanenza di architetture rurali quali testimonianze della nostra matrice contadina, delle nostre radici. Segni che fanno parte del paesaggio, non solo memoriale, ma del presente, allo stesso modo di un albero o di una montagna. 

Sarebbe anacronistico sottovalutare il grande potere del mercato e della produttività intensiva alla base dell’odierno sistema agroindustriale, ma questo non toglie che l’unitarietà del sistema rurale su cui esso insiste richiede di essere tutelata e valorizzata, attraverso approcci progettuali e non solo con misure di settore. 

Se è vero che molte di queste abitazioni difficilmente potranno essere recuperate, sia per il notevole impegno economico richiesto nella ristrutturazione, sia per la loro incapacità di rispondere alle richieste della moderna agricoltura (giganteschi macchinari che non possono trovare ricovero sotto i portici delle vecchie case rurali, enorme numero di vacche da latte e vitelli che non possono trovare posto in nessuna delle vecchie stalle, condizioni igieniche richieste non possibili nelle vecchie abitazioni), sia per la mancanza di infrastrutture oggi indispensabili all’agricoltore per restare sul mercato, è pur vero che queste abitazioni e il paesaggio agrario ad esse collegato, possono e devono poter vivere un’altra vita. 

 

Il mondo rurale racchiude ancora in sé una serie di valori di grandissimo rilievo anche per il cammino della nostra civiltà e della nostra economia verso modelli di crescita da orientare allo sviluppo sostenibile. Il mondo rurale ci ha lasciato un patrimonio architettonico di grande valore, dimore come presenze che non incombono sul territorio ma lo caratterizzano fortemente. Le case rurali sono elementi assolutamente indispensabili per la comprensione del paesaggio nel suo insieme, rivendicano il loro ruolo, interrompono le distese dei campi all’orizzonte con le loro forme. 

Ora, poiché i mutamenti verificatisi non sono stati innescati dall’interno della campagna e della società contadina, ma sono stati provocati da quella urbana, dalla città, la cui esistenza è possibile solo in quanto la campagna produce alimenti per essa, è dalla città che devono arrivare le risposte e le proposte. 

Queste parti di territorio abbandonate dall’uomo (non dalla produzione, sia beninteso) devono tornare ad essere considerate un’opportunità. Occorre trovare per loro un nuovo valore d’uso, un progetto di futuro che porti alla riscoperta del senso di questi luoghi. 

E’ innegabile che scegliere di vivervi alza la qualità della vita (aria pulita, silenzio, notti stellate, disegno dell’orizzonte dove la  terra tocca il cielo), ma occorre che questi luoghi vengano dotati di tutti i servizi necessari, dalla rete elettrica a quella dell’acqua potabile, dal riscaldamento alla raccolta rifiuti, dalla connessione a internet alle strade percorribili in tutti i periodi dell’anno e mantenute in buone condizioni per raggiungere in tempi congrui la scuola, l’ospedale, la stazione ferroviaria, l’Alta velocità, il lavoro. Solo così questo territorio potrà riacquistare la sua rilevanza simbolico-espressiva e non solo produttiva. 

Quella della valorizzazione della viabilità storica (romana, nello specifico) potrebbe essere un modo per conoscere queste zone e conoscere vuol dire NON dimenticare. Alla cura della viabilità può far seguito quella della segnaletica: archeologica (Terramara Santa Rosa, tracciato centuriale...), storica (case di latitanza, luoghi di scontro durante la lotta partigiana, località teatro di battaglie durante la Guerra di Successione spagnola...), culturale (ogni comune ha un proprio specifico museo, di Peppone e don Camillo, della civiltà contadina, dei Fratelli Cervi, delle tarsie...), religiosa (edicole disseminate agli incroci centuriali), ambientale (lanche e golene del fiume Po, Valli di Novellara, Riserva naturale del Boscone, residui ‘archeologici’ di bosco planiziale autoctono padano, rete dei canali di bonifica...), produttiva (risaie, colture tipiche e ricorrenti, prodotti con vendita diretta…), architettonica (impianti di bonifica, chiaviche, case a corte e a porta morta, grandi porticati, stalle in volto, pilastri e capitelli, spettacolari gelosie dei fienili…). 

 

I luoghi hanno una loro posizione geografica, spaziale ma sono anche una costruzione antropologica. Hanno una loro storia e sono il risultato dei rapporti tra le persone. Hanno una loro vita: nascono, vengono fondati, si modificano, mutano, possono morire, vengono abbandonati, ma possono anche rinascere[3]
Conoscere i luoghi, averli in memoria, non dimenticarli, riabitarli, considerare il passato una risorsa e non un peso, sapere che quelle cose ci sono, le case, le piante, la terra, e che sono qualcosa anche di nostro, che restano anche quando noi non ci siamo, senza nessuna anacronistica nostalgia di ritorno a un passato che non può e non deve essere uguale. 

 

C’è ancora molto da fare: alle istituzioni e alla politica restano ancora tanti spazi di lavoro per ripristinare la vecchia alleanza tra mondo urbano e mondo rurale, quel patto città-campagna che nel nostro caso è il patto paese-campagna. 

 

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[1] Rossano Pazzagli, Gabriella Bonini, Italia contadina. Dall’esodo rurale al ritorno alla campagna, Aracne, Roma, 2018.
[2] Antonella Tarpino, (2019), I territori fragili e la memoria, in «Scienze di Studi del Territorio», Rivista di Studi Territorialisti, Territori fragili. Comunità, patrimonio, progetto, n. 7, 2019, pag. 45.
[3] Vito Teti, Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Donzelli, Roma, 2004.