Esattamente un anno fa, in occasione della trentesima Giornata mondiale dell’acqua, il World Water Assessment Programme (WWAP) dell’Unesco dedicava alle acque sotterranee il suo Rapporto mondiale sullo sviluppo delle risorse idriche, intitolandolo Rendere visibile l’invisibile. Significativamente, l’enfasi degli studiosi del WWAP cadeva fin dalla scelta del titolo sulle ricadute che la principale caratteristica delle acque del sottosuolo ha avuto e tuttora mantiene sulle forme del loro consumo, quella cioè di essere acque sottratte alla nostra percezione, invisibili appunto, inattingibili nei loro connotati oggettivi di quantità e qualità se non attraverso il fragilissimo rapporto tra conoscenza scientifica e senso comune.
Il fatto è questo: non è possibile assistere con i propri occhi al drammatico spettacolo di una falda in secca, inquinata o invasa dall’acqua salata, a differenza di quanto solitamente accade per i paesaggi idrici superficiali, fiumi e laghi. Possiamo avere nozione dello stato degli acquiferi sotterranei soltanto in forma indiretta, tramite la mediazione dai saperi esperti o sperimentando l’impatto della loro alterazione sugli usi civili, irrigui e industriali. Non esistono però immagini televisive, documentari e reportage fotografici in grado di testimoniare al grande pubblico la loro condizione in questa o in quella regione del mondo, in India e in Cina, ad esempio, dove lo sfruttamento si è fatto più intenso; o ancora in Europa e negli Stati Uniti, dove il loro inquinamento raggiunge le punte più alte.
Di conseguenza, si possono descrivere le acque sotterranee come delle shadow water, delle “acque ombra”. Cosa ciò significhi è presto detto. Circa il 99% delle acque dolci presenti allo stato liquido sul nostro intero pianeta è depositato e scorre nel sottosuolo; la metà della popolazione globale se ne serve per soddisfare i bisogni civili e per approvvigionare città e insediamenti; un quarto dell’irrigazione mondiale (e dunque le catene globali o locali di approvvigionamento alimentare) è procurato dalle falde del sottosuolo. Nonostante tutto questo, le acque sotterranee costituiscono una risorsa trascurata, mal gestita e sovra-sfruttata.
La chiave di volta è ancora la loro invisibilità. Essa, a ben vedere, costituisce una dimensione specifica, una peculiare declinazione di quel più ampio processo di “dematerializzazione” dei modi e dei luoghi tipico della produzione capitalistica contemporanea, capace di generare culture e pratiche sempre più distaccate dalle condizioni ecologiche che sostengono l’esistenza della vita.
Sottratte ai nostri occhi, le acque sotterranee alimentano comportamenti sociali e aspettative di consumo spesso insostenibili e irrealistici, irresponsabili, che non tengono conto dei limiti ecologici della biosfera. Così, esse sono il più delle volte colpite da lacune di ordine legislativo, relegate ai margini dei sistemi regolativi, abbandonate all’anarchismo degli usi privati. Sono, in sostanza, acque intrappolate nel cono d’ombra delle tradizionalmente più familiari, conosciute e disciplinate risorse idriche superficiali. Shadow water, appunto.
Questa sorta di condizione “minoritaria” delle acque sotterranee è percepibile non soltanto nei comportamenti collettivi e nei sistemi giuridici ma anche in numerosi altri campi del sapere. Gli studi storici, ad esempio, si sono prevalentemente interessati dello scorrimento superficiale delle acque: bonifiche, aree umide e “biografie fluviali” hanno costituito i principali temi d’elezione di autorevoli e longeve tradizioni di ricerca. L’interesse per le acque del sottosuolo si è fermato a pochi ma pregevoli casi, tra cui si contano i lavori di John Opie sull’acquifero dell’Ogallala, nelle Grandi Pianure degli Stati Uniti, e di Tushaar Shah che, pur non essendo uno storico, ha ricostruito la vicenda delle riserve idriche sotterranee in Asia meridionale dalla metà del Novecento ad oggi.
Una storia contemporanea delle acque sotterranee può essere costruita a partire dalle relazioni storicamente intercorse con le società umane, dall’uso che ne è stato fatto in determinate regioni o porzioni territoriali. Soprattutto, da come queste relazioni sono state di volta in volta condizionate dal carattere invisibile e “immateriale” delle riserve idriche del sottosuolo, che ha finito per generare una complessa interazione tra saperi esperti, tecnicalità, interessi economici e conflitti sociali, oltre ad alimentare pratiche, tradizioni, pregiudizi e credenze. Un’immagine, quella degli acquiferi del sottosuolo, che diversi protagonismi hanno contribuito a produrre nel corso del tempo, spesso in feroce competizione tra loro: gli idrogeologi, gli speleologi, i grandi irrigatori, lo Stato, persino i rabdomanti.
È attorno a questi nessi che è possibile rinvenire i primi tratti di una storia delle acque sotterranee in età contemporanea quando, nel corso degli anni Venti dell’Ottocento, in piena prima rivoluzione industriale e agronomica, la nascente idrogeologia europea ha “riscoperto” il principio dell’artesianismo: determinati corpi idrici del sottosuolo, confinati entro due strati rocciosi impermeabili, sono spesso sottoposti a una pressione tale che, una volta raggiunti da una trivellazione, lasciano zampillare le proprie acque in superficie. È un fenomeno conosciuto fin da tempi antichi in Cina, in India e nel Mediterraneo di dominazione araba, ma che da questo momento sarà sottoposto a una complessa opera di traduzione scientifica, per mezzo della compilazione di studi monografici e di carte descrittive, e a uno sfruttamento sistematico, consentito da cicli di innovazioni successive nell’industria delle trivellazioni.
Sottratte alla loro quasi assoluta integrità ecologica, le acque sotterranee sono così divenute sempre più determinanti nel sostenere i modi di produzione, i processi di accumulazione, la modernizzazione delle campagne e le forme dell’insediamento urbano, contribuendo a consolidare o trasformare le gerarchie sociali.
I processi di incorporazione delle riserve idriche del sottosuolo si sono basati anzitutto sulla precisa volontà di scardinare i vincoli posti dalla siccità e dalla carenza di fonti di più facile e immediato accesso in superficie. Ciò, a ben vedere, ha contribuito in modo decisivo a spostare sul piano dei rapporti sociali e di potere la determinazione e il controllo delle condizioni di “scarsità” delle risorse idriche, alimentando una dinamica in cui i soggetti privati protagonisti nell’“appropriazione” degli acquiferi profondi hanno presto manifestato la tendenza a costituirsi anche e soprattutto come soggetti “espropriatori”, intenti cioè a discriminarne l’accesso stabilendo precise priorità tra bisogni civili, irrigui e industriali e definendo assetti gerarchici tra gruppi diversi all’interno di ogni singola forma di utilizzazione. È esattamente per questa strada che il ricorso alle riserve idriche sotterranee è entrato in una relazione strutturale e per certi versi concorrente con le acque superficiali e con le dinamiche segnate dal progressivo configurarsi di poteri, assetti amministrativi e tecnocrazie idriche legate a fenomeni come le municipalizzazioni primo-novecentesche o ciò che è stato definito come “Stato idraulico”, cioè lo Stato costruttore di grandi acquedotti.
È storicamente esistita una tensione continua tra acque superficiali e sotterranee, tra acquedotti ed emungimenti dalle falde acquifere, tra l’istanza di autonomia che determinati gruppi sociali o territori hanno inteso esprimere attraverso una forma di approvvigionamento idrico puntuale e disseminata sul territorio, quale appunto quella consentita dalla trivellazione dei pozzi, e l’istanza di tutela e trasformazione molte volte implicita nella provvista di acque per mezzo di acquedotti, costruiti su iniziativa delle municipalità o per intervento dei poteri centrali.
Se, come è stato osservato, l’avvento di modelli basati su ampie scale idrografiche, sulle grandi trasformazioni infrastrutturali e sul ruolo delle tecnocrazie ha spesso implicato nello sfruttamento fluviale l’emergere di processi di state e nation-building, si può dire invece che il ricorso alle acque locali e sotterranee abbia prodotto semmai soprattutto identità territorializzate, strettamente correlate con i localismi e le costruzioni narrative dei luoghi.
In questo contributo abbiamo citato: Antonio Bonatesta, Acqua, Stato, nazione. Storia delle acque sotterranee in Italia dall’età liberale al fascismo, Roma, Donzelli, 2023; John Opie et al., Ogallala. Water for a Dry Land, Lincoln, University of Nebraska Press, 2018 (third edition); Tushaar Shah, Taming the Anarchy. Groundwater Governance in South Asia, London, Routledge, 2009.