Tra coltivazione e manifattura

Il lavoro femminile connesso al tabacco

di Rossella Del Prete

La storia del lavoro femminile connesso in varie forme al tabacco è una storia che racconta insieme dell’agricoltura e dell’industria, della città e della campagna, di uomini e di donne, ma anche di adolescenti. Si tratta di una storia larga e plurale, a più dimensioni e a più voci, che a volte si incrociano e si intersecano, a volte solo si affiancano e sovrappongono.

Tra Ottocento e Novecento, le donne impiegate nel duplice ciclo lavorativo del tabacco (agricolo e industriale) costituirono una categoria di lavoratrici italiane molto particolare: quelle impiegate nelle aziende a concessione speciale vissero a lungo una dimensione “rurale” della loro emancipazione, restando, di fatto, nel mondo contadino, pur se addette alla fase di prima trasformazione manifatturiera; al contrario, le tabacchine e le sigaraie delle grandi manifatture urbane (Torino, Milano, Venezia, Firenze) conquistarono un’autonomia economica che presto impararono a difendere con determinazione. Proprio la condizione di dipendenza dall’Amministrazione dei Monopoli di Statoconferì a tabacchine e sigaraie vantaggi e diritti inesistenti per altre categorie di lavoratrici: nella Manifattura, grande fabbrica di Stato, il salario, per quanto basso, era garantito e regolarmente elargito, inoltre, la presenza di organizzazioni sindacali, con un elevato numero di aderenti, permetteva importanti iniziative rivendicative. Diversa fu la situazione delle tabacchine stagionali, soprattutto di quelle che, nel Mezzogiorno italiano, subirono abusi di ogni tipo: erano per lo più soggette alla richiesta nominativa anziché a quella numerica, osservavano orari di lavoro imposti dal concessionario e vivevano in contesti culturali molto poveri dove, pur di guadagnare qualche soldo, si era disposti a qualunque sacrificio, nella piena incoscienza dei propri diritti e privi di qualunque strumento di emancipazione e di rivendicazione.

La lavorazione del tabacco impiegava un’altissima percentuale di manodopera nelle tre fasi della sua lavorazione. La prima, prettamente agricola, andava dalla preparazione dei terreni al trapianto, alla raccolta, all’infilzamento e all’essiccazione della foglia verde. Nelle concessioni speciali l’essiccazione veniva effettuata nei magazzini generali. Qui veniva realizzata la seconda fase che comprendeva le operazioni manuali per la lavorazione della foglia del tabacco secco allo stato sciolto e l’essiccazione della foglia verde. A questa prima manifattura furono addette le maestranze comunemente chiamate tabacchine. Le prime due fasi avevano carattere stagionale, una per i tempi biologici della coltura, l’altra perché alternata ai tempi agricoli. La terza fase era quella affidata alle Manifatture dello Stato, in cui personale salariato, permanente, in servizio tutto l’anno, confezionava sigarette, sigari, trinciato o tabacco da fiuto, destinato al mercato nazionale ed estero.

Non è possibile quantificare le addette ai lavori nei campi, che sappiamo essere state tante e sicuramente tutte coloro imparentate con i tabacchicoltori, mentre, nonostante l’intermittenza e la precarietà del lavoro industriale, ci risulta più facile quantificare la percentuale delle addette alla fase di prima manifattura della foglia di tabacco. Le migliaia impiegate nelle Manifatture statali erano schedate dai registri di assunzione e dalle statistiche e rappresentavano oltre il 90% del totale degli organici. Enorme era anche la percentuale di operaie stagionali, spesso assunte col sistema del caporalato, ma è impossibile ricostruirne la reale presenza numerica a causa di un’enorme dispersione delle fonti o delle diverse inadempienze amministrative con cui venivano assunte, pur in presenza di liste di collocamento e del contratto nazionale delle tabacchine del 1950.

Tabacchine e sigaraie costituirono una categoria di lavoratrici compatta e combattiva, consapevole delle proprie abilità manuali e dunque del proprio valore produttivo, sempre molto orgogliose di appartenere a una categoria qualificata e per tanti aspetti anche privilegiata rispetto a tante altre lavoratrici. Si trattò di una manodopera insostituibile, difficile da meccanizzare, soprattutto nelle fasi più importanti della lavorazione, quali la scostolatura e la confezione del sigaro. Le sigaraie fiorentine, divenute abilissime e velocissime, incentivate dal cottimo, riuscivano da sole a confezionare una media di tre sigari al minuto e circa un migliaio di sigari al giorno. Questa componente artigianale della lavorazione del tabacco restò inalterata fino al secondo dopoguerra, nonostante il graduale inserimento delle macchine. Negli anni Cinquanta, alla confezione del sigaro si sostituì in gran parte quella delle sigarette che definì una nuova classe operaia del settore: la crisi dell’agricoltura e il conseguente inurbamento crearono un’eccedenza di manodopera non qualificata e quindi disposta ad accettare qualsiasi lavoro anche a salari bassissimi. La componente femminile fu particolarmente coinvolta e molte si riversarono in città in cerca di occasioni di lavoro. Fu questo il momento in cui accanto alle sigaraie cominciarono a essere reclutate in fabbrica anche le tabacchine, cioè le addette alla fase agricola della lavorazione o a quella di prima manifattura.