Storia delle istituzioni manicomiali e della psichiatria

di Paolo Giovannini

Come recitano i dolenti versi di una poesia di Alda Merini, echeggiante la sua lunga esperienza di internata, «il manicomio è una grande cassa di risonanza/e il delirio diventa eco/l’anonimità misura, /il manicomio è il monte Sinai, /maledetto, su cui tu ricevi/le tavole di una legge/agli uomini sconosciuta».
In effetti l’istituzione manicomiale, sin dalle sue origini, fra la fine del ‘700 e i primi decenni dell’800, viene a svolgere funzioni ambivalenti, se non contraddittorie, proponendosi da un lato come strumento terapeutico, come luogo deputato al risanamento delle menti malate o “disturbate” (anzi essa stessa terapia per eccellenza, attraverso la segregazione) e alla costruzione del sapere psichiatrica, dall’altro come dispositivo disciplinare e correttivo, nonché come “contenitore” nel quale rinchiudere (più o meno a lungo) le scorie della società, delle trasformazioni sociali ed economiche di volta in volta in atto, dove isolare gli improduttivi, gli “inutili”, dove internare coloro che non riescono oppure rifiutano di adattarsi alle morali dominanti e al mutare dei contesti storici.

In questo senso la storia delle istituzioni psichiatriche e delle procedure d’internamento, nel loro percorso bisecolare, travalicando le mura asilari, viene a  rappresentare un campo di ricerca e di studio assai importante, che contribuisce a far conoscere aspetti non secondari caratterizzanti le politiche statali di controllo sociale e degli atteggiamenti delle società nei confronti di significativi aspetti della marginalità e della devianza, facendo luce sulle articolate modalità con le quali le politiche pubbliche e le mentalità dei diversi settori sociali si misurano e “utilizzano” l’istituzione, per una molteplicità di scopi.

Il rinnovamento degli studi in questo settore ha preso avvio soprattutto negli anni seguenti all’approvazione della legge n. 180/1978, meglio nota come “legge Basaglia”, nel contesto dell’emergere della storia sociale, di ricerche che guardavano con sempre maggiore interesse alla storia dei ceti subalterni. Successivamente, pur restando nell’ambito di circoli piuttosto ristretti, si è assistito a un significativo incremento di ricerche su questi argomenti, attraverso spogli archivistici che hanno utilizzato dapprima la documentazione amministrativa e poi, sempre di più, quella sanitaria, con un particolare riferimento alle cartelle cliniche.
Ad oggi sono diversi i volumi pubblicati che ricostruiscono, all’interno del più vasto contesto della storia delle istituzioni manicomiali e della psichiatria, nonché della storia italiana e regionale otto-novecentesca, il profilo di istituti presenti in importanti città o “di provincia”, nelle loro diverse articolazioni: medici ed esercizio della scienza psichiatrica, amministratori provinciali (da cui dipendevano tali istituzioni) e problemi burocratici, condizioni materiali degli edifici e sviluppi della popolazione internata, senza tralasciare – per quanto si è potuto – i percorsi esistenziali dei folli.
Nel solco dell’apertura delle ricerche storiche a nuove tematiche, a nuovi approcci interpretativi e all’utilizzazione di una nuova documentazione, come appunto quella presente negli archivi manicomiali o come la letteratura psichiatrica, studi intrapresi a partire dagli anni ’70-’80 del secolo scorso, successivi alla guerra del Vietnam, hanno potuto indagare aspetti inediti della “guerra moderna”, prima in riferimento al primo conflitto mondiale e poi al secondo, laddove, nell’incandescente fucina bellica, si viene sviluppando la nuova specialità della “psichiatria di guerra”, destinata a recitare un ruolo senz’altro di primo piano sino alle guerre contemporanee.

In un libro di alcuni anni fa, per fare un altro esempio fra i vari possibili, uno studioso ha potuto far luce, attraverso l’analisi della documentazione presente in alcuni archivi manicomiali su un aspetto praticamente fino ad allora sconosciuto delle politiche repressive del fascismo italiano, ossia sulla “psichiatrizzazione” del dissenso da parte del regime, che ha condotto non pochi antifascisti ad essere rinchiusi nelle istituzioni psichiatriche.
Più in generale, la recente storiografia sociale sui manicomi e sulla psichiatria appare sempre di più orientata a restituire un proprio specifico posto nella storia agli internati, troppo a lungo assenti dalla storia della medicina, nel quadro di ricostruzioni che, pur consapevoli dei fattori istituzionali, delle dinamiche di potere, siano in grado di dar voce ai soggetti, di ridare una sorta di centralità ad esperienze umane misconosciute o cancellate, permettendo di scoprire delle realtà che oltrepassano la semplice constatazione clinica e patologica. Infatti, la documentazione conservata negli archivi storici delle istituzioni psichiatriche può efficacemente contribuire non soltanto ad approfondire la conoscenza dei codici culturali del passato, ma può altresì far arrivare sino a noi emozioni, speranze, timori e fallimenti, elementi costitutivi di tante esistenze.

Bibliografia essenziale
-       Paolo Giovannini, Un manicomio di provincia. Il San Benedetto di Pesaro (1829-1918), Affinità elettive, Ancona 2017;
-       Annacarla Valeriano, Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931), Donzelli, Roma 2014;
-       Matteo Petracci, I matti del duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista, Donzelli, Roma 2014.