I beni comuni nella storia 

Gestione delle risorse ed equilibrio ambientale

di Gabriella Corona

Per quanto riguarda l’Italia, quando si parla di beni comuni in una prospettiva storica si intendono le proprietà collettive che facevano riferimento a differenti comunità ed associazioni ai quali era affidato il potere di governarli e gestirli. Lungi dall’essere uniformi lungo il territorio della penisola, proprietà collettive e usi civici hanno conosciuto una casistica molto varia e articolata.

Un criterio esclusivamente familiare regolava l’appartenenza alle Regole, diffuse sulle Dolomiti con particolare riguardo al Cadore. In questo caso i beni in comune facevano riferimento a gruppi di coeredi discendenti da un unico capostipite. Nel caso delle società degli originari, invece, diffuse soprattutto in Lombardia e in Veneto, erano ammessi alla redistribuzione delle rendite provenienti dai beni comuni solo coloro che appartenevano alle famiglie più antiche e potenti. 

Le vicinie diffuse nella parte centro-orientale dell’arco alpino, le comunaglie situate in Liguria e le comunanze diffuse nell’Appennino umbro-marchigiano – all’inizio del ventesimo secolo se ne contavano trecentosessanta - presentavano una struttura comunitaria che si fondava sulla riunione di tutti o di una parte degli abitanti di un comune. Il riparto delle rendite provenienti da un bene comune spettava ai capi famiglia o capi casa che potevano far parte dell’assemblea (assemblea dei terrazzani nel caso delle vicinie) che prendeva decisioni in merito a questi beni. In altri casi era la rete dei vicini che faceva riferimento ad un quartiere o a un luogo sacro o ad una parrocchia a formare la comunità.

L’appartenenza alle partecipanze concentrate soprattutto nella pianura bolognese a sud del fiume Po era regolata da un criterio diverso. In questo caso la possibilità di aver parte alle assegnazioni delle quote di terra era legata nella maggior parte dei casi al requisito della cittadinanza. Possono rientrare in questa categoria anche i beni ademprivi. Così erano chiamati i beni comuni di proprietà del villaggio in Sardegna. Essi, a loro volta, erano divisi tra pardu e aidizzoni e cioè la zona a pascolo e quella a cereali. Gli ademprivi erano proprietà del villaggio e il loro uso era dettagliatamente regolamentato.

All’appartenenza familiare o a comunità di vario tipo (parrocchia e quartiere) e alla cittadinanza, anche un criterio legato alle attività produttive praticate dai commoners poteva regolare l’accesso ai beni comuni. Era il caso delle società della malga formate dai proprietari di bestiame. Questa tipologia di commons era diffusa nella parte centrale delle Alpi.  Allo stesso modo le Università agrarie concentrate nel Lazio erano composte dai proprietari di almeno due buoi aratori. Questo era anche il caso della Generalità de’ locati o Università de’ padroni di animali, costituita da quegli allevatori che migravano lungo i tratturi - gli ampi sentieri che collegavano le aree di montagna con quelle di pianure - svernando nelle locazioni del Tavoliere di Puglia.

In generale nell’Italia meridionale la forma prevalente era il demanio universale o comunale– una delle quattro tipologie presenti insieme a quello regio, feudale ed ecclesiastico - destinato all’uso esclusivo dei comunisti in quanto commoners e facente capo all’universitas(divenuto comune con l’affermazione del sistema amministrativo francese).  I demani comunali erano soggetti ad un vincolo di inalienabilità perché si presupponeva che appartenessero alla popolazione dell’universitas da tempo immemorabile. Essi erano situati prevalentemente lungo le falde dell’Appennino abruzzese, sannita, campano e lucano. Essi erano concentrati soprattutto nella fascia altimetrica collinare e montana e dunque oltre i 500 metri.

I beni comuni garantivano forme di protezione e di equilibrio ambientale tali da preservare il territorio della comunità e quelli circostanti da processi di distruzione e di devastazione. La tutela intesa come difesa delle risorse, come garanzia di riproducibilità, come freno ad un loro depauperamento era prevista e regolamentata in diversi tipi di proprietà collettive. Il bestiame che non apparteneva alla comunità, ad esempio, non poteva entrare nel territorio in inverno, e cioè in tempo di scarsità di pascolo. Vi poteva, invece, pascolare dall’inizio della primavera. Nel caso dei diritti di pesca sulle acque interne, poi, la normativa riguardava in modo particolare l’esclusione di quelle tecniche che potevano essere dannose per le risorse, come ad esempio, l’uso delle reti a strascico. A volte, l’esistenza di vincoli di accesso alle risorse era finalizzata a proteggere l’intera comunità da processi distruttivi. Per il consumo della legna era stabilito che nessuna famiglia potesse raccogliere una quantità maggiore a quella stabilita dall’assemblea.

L’indivisibilità delle risorse collettive, e cioè l’impossibilità di dividerle, venderle e privatizzarle trovava, poi, la sua logica nel maggior vantaggio che derivava ai commoners dall’uso comune e coordinato delle risorse rispetto a quello privato e individuale. Il territorio posseduto privatamente sarebbe, infatti, stato insufficiente per il soddisfacimento di bisogni legati all’impiego di diversi tipi di risorse: per rifornirsi di legname destinato alla famiglia o alla manifattura, per il pascolo estivo o per quello invernale, per gli animali da lavoro o per quelli bradi, per il maggese o per la semina, per la coltura degli alberi o per la semplice raccolta dei frutti, per pescare o per abbeverare gli animali, per approvvigionarsi di acqua per irrigazione o per uso domestico, e così via.
 Con la legge 751 del 1924 sul riordinamento degli usi civici nel Regno, successivamente inglobata nella legge del 1927 furono abrogati tutti gli usi civici esistenti per trasformarli in libera proprietà e si cercò di affrancare le terre private che erano gravate ancora da antiche servitù. Nonostante il grande sforzo liquidatorio compiuto durante il fascismo e proseguito nel secondo dopoguerra, ancora oggi molte operazioni di chiusura previste dalla legge del 1927 non erano state ancora effettuate. Nel secondo dopoguerra si calcolava che un decimo della penisola con particolare riguardo alla regione alpina e al Mezzogiorno era ancora gravato dagli usi civici. In alcune regioni come ad esempio il Lazio, ancora nel 1977 erano state operate solo 39 chiusure di operazioni demaniali su 378 comuni. In tempi recenti sia nelle Marche che in Umbria l’estensione territoriale occupata dalle proprietà collettive era piuttosto ampia. Fino al 1994, sempre nel Lazio ancora migliaia di cittadini si trovavano in una posizione irregolare a causa della mancata attuazione della legge del 1927.  Una resistenza dura e tenace, dunque, da parte di una istituzione antica ma ancora vitale, fondata su una concezione “solidale” del mondo, che sembra poter avere un senso e poter svolgere un ruolo anche in una società modernizzata e ad alta tecnologia come quella in cui viviamo.


Bibliografia essenziale
Per quanto riguarda la storiografia sui beni comuni si vedano:
P.Grossi, Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica post-unitaria, Giuffrè, Milano 1977;
M.Caffiero, L’erba dei poveri, comunità rurale e soppressione degli usi collettivi nel Lazio (secoli XVIII-XIX), Roma, 1983;
R.Ago, Conflitti e politica del feudo: le campagne romane del settecento, in “Quaderni storici”, 63, 1986;
E.Grendi, La partica dei confini: Moglia e Sassello, 1715-1745, in “Quaderni storici”, 63, 1986;
B.Farolfi, L’uso e il mercimonio. Comunità e beni comunali nella montagna bolognese del settecento, Bologna 1987;
G.C.De Martin (a cura di), Comunità di villaggio e proprietà collettive in Italia e in Europa, Padova, 1990;
i saggi contenuti nei numeri 14-15 di “Cheiron. Materiali e strumenti di aggiornamento storiografico”:Terre e comunità nell’Italia Padana. Il caso delle Partecipanze agrarie emiliane: da beni comunali a beni collettivi, II semestre, 1990, 4 semestre 1991;
O.Raggio, Forme e politiche di appropriazione delle risorse: casi di usurpazione delle comunaglie in Liguria, in “Quaderni storici”, 79; 1992;
i saggi contenuti nel numero 81 di“Quaderni storici”, Risorse collettive, 1992;
G. Corona, Demani ed individualismo agrario nel Regno di Napoli (1780-1806), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995;
P.Nervi (a cura di), I demani civici e le proprietà collettive. Un diverso modo di possedere. Un diverso modo di gestire, Padova, 1998;
G.Corona, Declino dei “commons” ed equilibri ambientali: il caso italiano tra Otto e Novecento, in “Società e storia”, vol. 104, pp.357-383.