Testimoniare il Lager
Parole di Dante, memoria condivisa
A volte bisogna trovare le parole giuste per tradurre la memoria più dolorosa in testimonianza condivisa. È il caso del ricordo della Shoha così come emerge dalla voce dei sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, voci che in più occasioni recuperano parole dall’opera di Dante Alighieri, eleggendo termini ed espressioni dell’Inferno a vocabolario della propria testimonianza: il “dovere della parola”, come abbiamo scritto in un libro recente[1].
Quello della testimonianza è stato - ed è per i pochi che ancora vivono -, comunque per tutti che coloro che, salvati, se la sono sentita, un dovere: un dovere che in molti è giaciuto, doloroso e violento, nel fondo dell’anima, per decenni, prima di farsi voce, prima di trasformarsi in memoria riferita, in racconto di fatti subìti, sia in prima persona che da tanti, troppi, altri che dal Lager non erano tornati.
Così è stato, per esempio, per Liliana Segre, che ha taciuto per quarant’anni. Così non è stato, invece, sempre ad esempio, per Primo Levi, che subito dopo essere tornato a casa, ha cominciato a scrivere e a raccontare, novello marinaio coleridgiano: era l’autunno del 1945.
Per tutti, condiviso, c’è stato lo strazio del dolore che si rinnova nel momento in cui il ricordo, la memoria appunto, si attiva, sollecitata da quello che gli altri chiedono di sapere, da quello che la psiche non rimuove, dal rispetto per chi non ce l’ha fatta e che è rimasto là, sommerso, annientato. Il dire il Lager è un virgilianissimo iubes renovare dolore e, nello stesso tempo, un imperativo categorico.
Da anni studio le testimonianze e lavoro a un progetto di ricerca che si chiama “Voci dall’Inferno” e che ha al centro un dato certo, un minimo comun denominatore che stupisce, che incanta, che fa riflettere tutte le memorie di queste donne e di questi uomini salvati. Tutti i testimoni tutti parlano del Lager come dell’Inferno e lo fanno riferendosi non a un inferno qualsiasi, o a un inferno e basta. Loro hanno in mente proprio l’inferno dantesco: cioè la prole con cui Dante ha parlato dell’Inferno, tanto che sembra proprio il poeta a rompere il silenzio, nel senso che interviene sulla mente del sopravvissuto a sciogliere il nodo dell’ineffabilità, a diluire la paralisi della mente e della memoria di fronte all’affiorare del vissuto nefando. A un certo punto la facoltà espressiva rimanda a un subcosciente reattivo e trova in Dante un motore emancipatore che la mobilita e che produce le parole, in un sussulto vitale e vivifico di resistenza.
È straordinario: ciò accade in tutti i sopravvissuti, anche in chi Dante lo ha letto solo a scuola o addirittura lo ha conosciuto solo per capillarizzazione (comunque sempre in contatti brevi e non professionistici).
È il caso di Lina Verona Valabrega, che il 30 novembre 1945, appena tornata da Auschwitz, va a denunciare i Nazisti presso il Commissariato di Torino. Il verbale della sua deposizione è tramato di eco dantesche, alcune anche esplicite: “A Torino… dopo 36 giorni di tradotta militare, uscii a rimirar le stelle, e, come colui che uscito fuor del pelago alla riva si volge dubitoso e guata la perigliosa via, trassi un gran sospiro e… volsi pietosa lo sguardo riconoscente a Colui che muove il sole e l’altre stelle”.
Lina sarebbe morta pochi mesi dopo, per le conseguenze della prigionia in Lager. La sua denuncia, atto di dovere della parola, è la sua unica testimonianza.
Beninteso, testimonianze come queste non sono tramate tutte e non sistematicamente o capillarmente di versi danteschi, ma i versi danteschi a un certo punto scoccano dei protagonisti a siglare, a dare la cifra, a esprimere l’inesprimibile. Infinite volte i sopravvissuti, mentre raccontano il Lager, ricorrono a frasi come ‘è indicibile’, ‘è indescrivibile’, poi, a un tratto, ecco che arriva la parola, e spesso quella parola o quell’espressione sono dantesche.
È il caso di Mirella, deportata ad Auschwitz nella primavera del 1944, la cui voce sottile è riprodotta dal nastro di un vecchio registratore degli anni Settanta. Nel raccontare dell’arrivo del suo convoglio sulla Judenrampe, Mirella dice: “non sapevamo che esistevano i campi di concentramento… Non sapevo cosa vedevo, cercavo di dargli un nome e lo trovai: ero arrivata all’inferno, ero tra la perduta gente”. Mirella è morta nel 2005: ha vissuto sempre a La Spezia, non aveva fatto che la seconda elementare. Lei, Dante, non lo aveva studiato neanche a scuola.
Le parole per dirla, la realtà orrorosa del Lager, sembravano non esistere. È con Dante che si riesce a infrangere il silenzio della morte e dell’offesa insanabile. La ricerca vuole portare alla luce tutte le parole ‘dantesche’ dei testimoni e dare loro risonanza, affinché possa prendere forma e verità quella dichiarazione che fa da titolo a un libro di Pier Vincenzo Mengaldo, cioè che “La vendetta è il racconto”[2], e affinché si possa, anche così, anche attraverso le parole di Dante, capire e conoscere “ciò che Dante non ha visto”, per citare il titolo di un altro libro che in Italia è uscito nel 2016, scritto da Alfred Wetzler, l’uomo che, internato ad Auschwitz nel 1942, riuscì a evaderne[3]. Era il 10 aprile 1944.
Infine, c’è anche il Dante di Liliana Segre. Tante volte la senatrice Segre, parlando del dovere della parola, chiama in causa il verso finale del canto XXVI dell’Inferno, il canto di Ulisse. “Non bisogna smettere di rendere testimonianza”, dice Liliana, “fino a quando «il mar sovra a noi non sia richiuso»”. Quel ‘noi’ si riferisce a tutti i superstiti. E aggiunge: “quando saremo morti proprio tutti, il mare si chiuderà completamente sopra di noi nell’indifferenza e nella dimenticanza. Come si sta adesso facendo con quei corpi che annegano per cercare la libertà, e nessuno più di tanto se ne occupa”[4].
Un monito, il suo, affinché la verità e la storia (di allora come dell’oggi) non siano sommerse.
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[1] M. Riccucci, L. Ricotti, Il dovere della parola. La Shoah nelle testimonianze di Liliana Segre e di Goti Herskovitz Bauer, Pisa, Pacini, 2021.
[2] P.V. Mengaldo, La vendetta è il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoah, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.
[3] A. Wetzler, Ciò che Dante non ha visto. L'inferno, A.CAR, 2016.
[4] https://www.google.com/search?client=safari&rls=en&q=liliana+segre+tv2000+youtube&ie=UTF-8&oe=UTF-8.