Mani in pasta, piedi in pasta: saperi incarnati, paesaggi culturali

La tradizione della pasta in Campania  

di Annalisa di Nuzzo - antropologa culturale (Univ. Suor Orsola Benincasa Napoli) 

Introduzione

Il cibo, in quanto bisogno primario ed essenziale dell’uomo, ha trasceso la sua funzione di semplice fonte di nutrimento, evolvendosi in infinite plasmazioni culturali che ne hanno arricchito e continuano ad arricchire il significato.  Esso si configura come un linguaggio simbolico complesso, un potente mezzo di costruzione identitaria e un luogo privilegiato della memoria collettiva.  Il cibo agisce come un costante crocevia tra la dimensione più primordiale della natura e le stratificazioni elaborate della cultura. In questo scenario vasto e intricato, pochi alimenti sono riusciti a incarnare in modo così profondo e viscerale lo spirito, la storia e l'anima di un territorio come ha fatto la pasta in Campania.

La pasta, lungi dall'essere solo un alimento quotidiano per milioni di persone, rappresenta un vero e proprio racconto.  È un rituale che si ripete, una tecnica tramandata di generazione in generazione, una memoria corporea e collettiva che affonda le radici nel profondo del substrato sociale.  In questo contesto, il corpo umano emerge come il mediatore assoluto e imprescindibile tra la natura e la cultura.  È attraverso il corpo che il bisogno primario del nutrirsi viene tradotto e sublimato in un complesso sistema di simboli, ruoli sociali e tecniche artigianali.  Le mani che impastano, i piedi che lavorano la semola, i corpi che si muovono al ritmo scandito di una tradizione secolare, costituiscono un patrimonio immateriale di saperi.  Questi saperi, non scritti ma incarnati, affondano le loro radici nella storia millenaria e nella geografia peculiare di un territorio.

Nelle pagine che seguono si propone di offrire una riflessione antropologica sulla complessa tradizione della lavorazione della pasta alimentare in Campania.  L'analisi si concentrerà in particolare sui gesti specifici che la caratterizzano, sui ruoli sociali che essa ha definito e definisce, sulle trasformazioni storiche che l'hanno modellata e sulle intricate implicazioni simboliche che hanno accompagnato tale pratica nel corso del tempo.  A tal fine, ci addentreremo nell'esame di quattro attori e concetti chiave: il corpo come attore centrale e imprescindibile di questo processo, il paesaggio come alleato produttivo che offre le risorse essenziali, la cucina come spazio simbolico in cui si manifestano riti e identità, e la pasta stessa come oggetto culturale dotato di un senso profondo e stratificato.

I. Il corpo tra natura e cultura

Il corpo umano, nella sua duplice dimensione di entità biologica e costruzione culturale, è da sempre uno degli elementi centrali e più dibattuti della riflessione antropologica. Non è un mero involucro inerte, ma un'entità dinamica che apprende, che imita, che interiorizza pratiche e saperi, e che attraverso i suoi gesti e posture rappresenta e performa la cultura stessa.  Nella celebre analisi di Marcel Mauss, il corpo è descritto non solo come un'entità biologica, ma soprattutto come il veicolo principale delle “tecniche del sé”. [1] Queste tecniche – un insieme complesso di gesti, abitudini e pratiche incorporate – non si limitano a riflettere passivamente la cultura d’appartenenza di un individuo, ma la costruiscono attivamente e la perpetuano nel tempo, rendendola viva e tangibile attraverso la corporeità.  In questa prospettiva, il corpo è una tela su cui la cultura si inscrive e attraverso cui essa si manifesta e si riproduce.

Mary Douglas ha ampliato questa visione, argomentando che "Il corpo è usato come simbolo per pensare la società […] le idee sul corpo umano sono un modo per pensare al sociale" [2].  Per Douglas, il corpo non è semplicemente una metafora, ma un dispositivo cognitivo primario attraverso cui la società si rappresenta e si organizza. Ogni controllo, regola o ritualizzazione imposta al corpo riflette e rinforza dinamiche culturali più ampie, fungendo da specchio delle gerarchie e dei valori sociali.  Non sorprende, dunque, che le pratiche alimentari – che vanno dalla coltivazione e scelta delle materie prime alla preparazione, dalla distribuzione al consumo – siano profondamente cariche di significati che vanno ben oltre la semplice necessità biologica di nutrirsi.

Il corpo che lavora, nel contesto della tradizione pastaia, si fa strumento e protagonista delle trasformazioni naturali. È attraverso le mani, i piedi e la forza muscolare che l'uomo impasta, dosa, assaggia, e cura il processo di essiccazione della pasta.  Nelle società tradizionali, il corpo dialoga continuamente con la natura, interagendo in modo intimo e profondo con gli elementi primari – l'acqua, il fuoco, il grano – filtrandone le potenzialità in funzione dei bisogni umani e culturali. Ogni singolo gesto corporeo, anche il più apparentemente insignificante, racchiude in sé una storia sedimentata di esperienza e adattamento, e ogni tecnica riflette un sapere tramandato di generazione in generazione, spesso in modo implicito e non verbale.

Utile strumento alla nostra analisi, è il concetto di “habitus”[3] che ci offre una fondamentale opportunità per comprendere come il corpo non sia solo un mezzo d’azione, ma anche e soprattutto una sede di sedimentazione profonda di preferenze, disposizioni e visioni del mondo che influenzano il nostro agire senza che ne siamo sempre pienamente consapevoli.  L’atto quotidiano del cucinare o del fare la pasta non è mai neutro: è un'espressione concreta di una cultura incarnata, un sapere pratico che si manifesta nella prassi quotidiana e una memoria condivisa che lega l'individuo alla sua comunità. In tal senso, il corpo è il luogo privilegiato di elaborazione implicita di un sapere non formalizzato, che si manifesta nella prassi quotidiana, un sapere che è "più profondamente messo in forma dalla cultura e dalla storia" [4].

Michel Foucault, nella sua genealogia del potere, legge nel corpo il luogo per eccellenza in cui si esercita la disciplina e il controllo sociale.  In “Sorvegliare e punire” egli afferma che "Il corpo umano entra in un meccanismo di potere che esplora, scompone e ricompone. Una ‘politica del corpo’ è costantemente in gioco nella storia" [5] Questo concetto si applica potentemente alla storia del lavoro e della produzione, dove il corpo è stato disciplinato e organizzato in funzione di processi produttivi sempre più standardizzati, come vedremo nel caso della pasta. In questo intricato rapporto nella sua Storia della sessualità, sottolineava inoltre come la cura di sé – e tra queste la dieta – sia una forma di esercizio della libertà[6]. L’alimentazione, nella tradizione mediterranea, non è solo nutrizione, ma anche costruzione di un’arte di vivere. “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”. La pasta, in questo senso, è una cifra culturale che unisce gusto, sapere, identità. La cultura della pasta in Campania si colloca esattamente in questo crocevia. È il risultato di una sapienza tramandata, di un uso sapiente delle risorse naturali, un’ecologia della cultura che ha trasformato un prodotto agricolo in simbolo universale. Il semplice atto del nutrirsi si trasforma in un rito che lega l'individuo alla sua comunità, in una memoria storica viva che attraversa le generazioni, in un elemento fondante di un'identità condivisa. La pasta non è solo cibo, ma un'esperienza sensoriale e culturale che coinvolge il corpo in ogni sua fase.

II. Cibo, cultura e identità

L’alimentazione, non è un semplice atto biologico, ma un "fatto sociale totale"[7.] Questo significa che il cibo non è solo ciò che nutre il corpo, ma un complesso sistema di pratiche, simboli e relazioni che permea ogni aspetto della vita sociale. Ogni alimento, dal più umile al più elaborato, e ogni gesto che lo accompagna – dalla scelta delle materie prime alla loro preparazione, dalla presentazione sulla tavola alla consumazione finale – racconta una storia profonda e stratificata. Nel caso specifico della pasta in Campania, questa storia è particolarmente densa di significati, intessendo insieme la storia economica, sociale, culturale e persino politica di un intero territorio.
Claude Lévi-Strauss, nella sua celebre distinzione tra “crudo e cotto”[8,] ha individuato nella cucina un vero e proprio sistema simbolico attraverso cui ogni cultura organizza e interpreta la propria visione del mondo. Il passaggio, apparentemente semplice, da grano a pasta – che avviene attraverso l'intervento del corpo umano, l'uso dell'acqua, l'applicazione del calore e l'esaltazione del gusto – incarna in modo esemplare questa trasformazione fondamentale: da natura a cultura. Il "cotto" non è, infatti, solo una trasformazione materiale della materia prima, ma anche una profonda conversione morale, simbolica ed estetica, che eleva l'alimento a un nuovo livello di significato e valore.

Si instaura una sorta di “dialettica diet-etica” [9], che produce e rende palese come le scelte alimentari non siano mai neutrali, ma riflettano intrinsecamente dimensioni etiche, estetiche ed esistenziali. In quest’ottica, la pasta, soprattutto nella sua espressione campana, diventa una vera e propria dichiarazione di identità. La cultura mediterranea – tradizionalmente comunitaria, profondamente legata alla terra e al sapere contadino, e intrisa di un'antica sapienza gastronomica – prende forma e si incarna in un semplice, ma al contempo complesso, piatto di maccheroni. Nella tradizione campana, la pasta ha rappresentato un punto d’incontro cruciale tra il bisogno primario e il simbolo, tra la fame quotidiana e l'esuberanza della festa. La storica dicotomia tra “mangiafoglie” e “mangiamaccheroni” testimonia eloquentemente [10]il passaggio da una condizione di povertà agricola a una dignità acquisita attraverso il gesto tecnico e l'ingegno collettivo, un'evoluzione dall'indigenza all'affermazione di un'arte culinaria e sociale. Una vittoria sull’imputridire dei prodotti della terra (frutta e verdura in particolare) attraverso la conservazione di cui la pasta essiccata è un esempio straordinario.

III. La pasta come costruzione culturale: Origini e trasformazioni

Le origini storiche della pasta in Campania risalgono al Medioevo. Intorno al XII secolo, a seguito di tensioni politiche e sociali nella celebre Repubblica Marinara di Amalfi, numerosi artigiani e mercanti si ritrovarono costretti a rifugiarsi nelle zone collinari circostanti Gragnano e lungo le rive di Torre Annunziata. In queste aree, apparentemente marginali, trovarono condizioni ambientali sorprendentemente ideali e uniche per continuare e perfezionare la produzione di pasta: acqua abbondante e purissima proveniente dalle sorgenti dei Monti Lattari, venti marini asciutti che garantivano un'essiccazione naturale ottimale, e una tradizione molitoria già sviluppata che forniva la materia prima, la semola[11].

Torre Annunziata, in particolare, ma anche la vicina Castellammare di Stabia, vantava un sistema di molini idraulici all’avanguardia per l'epoca, sfruttando la forza del fiume Sarno. Le sue condizioni climatiche peculiari – una combinazione unica di altitudine e salsedine, favorita dalla vicinanza al mare e dalla protezione dei monti – favorivano in modo eccezionale l’essiccazione naturale della pasta, una fase cruciale e delicata del processo produttivo che ne garantiva la qualità e la conservazione. Fu così che Gragnano e Torre Annunziata si trasformarono progressivamente in vere e proprie "città pastaie", i cui nomi sarebbero diventati sinonimo di eccellenza nel mondo della pasta. La pasta veniva stesa ad asciugare lungo le strade e sui terrazzi, creando un paesaggio urbano unico e suggestivo che generava stupore e meraviglia nei viaggiatori che descrivevano con ammirazione questa "scena urbana di maccheroni". “Chi non ha sentito parlare dei maccheroni di Gragnano? Fatevi una giratina per queste straducole, e non vedrete altro che maccheroni e paste, paste e maccheroni di tutte le forme, di tutte le grandezze, e di tutte le qualità, messe lì ad asciugare per terra su grandi coperte, su lunghi pali fuori le balconate, sulle terrazze, dinanzi alle case, dinanzi alle botteghe”[12].

La natura offriva le risorse, ma fu la cultura locale, con la sua ingegnosità e la sua capacità artigianale, a trasformarle in un'eccellenza produttiva. I viaggiatori e la media borghesia osservano tra meraviglia, curiosità e disgusto la singolare lavorazione dell’impasto fatto con i piedi fino a quando la tecnologia ed una autentica operazione di filantropia sociale spingono Cesare Spadaccini[13] a realizzare a Napoli, in strada Campo di Marte, un grande stabilimento che produce pasta utilizzando quello che venne definito “uomo di bronzo”costruito per “togliere l’uso abbominevole d’impastare coi piedi”. Si trattava di una impastatrice con pale meccaniche che con opportuni ingranaggi moltiplica la forza dell’uomo (da qui la definizione di uomo di bronzo) sostituendo la lavorazione della pasta di farina di grano duro per omogeneizzare l’impasto con i piedi, perché non è sufficiente la forza delle mani e delle braccia, anche se aumentata da una semplice leva come quella della gramola che invece può servire quando si usa farina di grano tenero.

Per la prima volta, la macchina sostituiva l’uso del corpo umano nell’impasto. Questo segnò un passaggio epocale dalla "plebe" che impastava con i piedi all'emergere della figura dell'"operaio" moderno. Spadaccini non si limitò a questa innovazione tecnologica, ma fondò una "fabbrica modello" dove venivano riconosciuti e rispettati i diritti, la salute e la dignità degli operai. Il salario era misto (in denaro e beni), era previsto un sistema di sostegno per malattia e persino un sistema di "maritaggio" per le figlie dei lavoratori. Questo modello virtuoso dimostrava come la pasta potesse diventare non solo un prodotto commerciale, ma anche un fattore di profonda trasformazione sociale e di crescente consapevolezza di classe. In sintesi, "Il ciclo produttivo della pasta diventa specchio del ciclo sociale del lavoro: dalle madie ai macchinari, dal gesto manuale alla fabbrica disciplinata". Questo passaggio dalla manualità al meccanizzato non fu solo una questione di efficienza, ma un profondo cambiamento antropologico che ridefinì il rapporto tra corpo, lavoro e produzione alimentare. La pasta non era solo un alimento: era un sapere, un gesto, un paesaggio. Era il frutto dell’intelligenza collettiva di una comunità in fuga, capace di trasformare l’esilio in opportunità, la povertà in eccellenza, il bisogno in bellezza.

IV. Corpo e lavoro nella tradizione pastaia

L’espressione popolare “mani in pasta” e nel nostro caso anche “piedi in pasta,” non è solo un modo di dire, ma una metafora profonda che racchiude in sé il nucleo della tradizione pastaia in Campania e, più in generale, il ruolo centrale del corpo nel lavoro artigianale. Essa evoca l'immagine vivida di intere generazioni di pastai che, per secoli, hanno impastato la semola con la sola forza fisica dei propri arti, trasferendo nel prodotto finale non solo energia meccanica, ma anche un sapere tacito, una memoria incarnata fatta di gesti, ritmi e sensazioni tramandate. Il corpo del pastaio, in questo contesto, non era un mero strumento, ma il depositario di una conoscenza sensoriale e cinestetica che sfuggiva alla formalizzazione scritta, un vero e proprio archivio vivente della tradizione.

I gesti del pastaio erano codificati e ripetuti con meticolosità rituale: mani che dosavano la semola e l'acqua con precisione empirica, guidate dall'esperienza e non da formule prestabilite; piedi che schiacciavano l'impasto con una forza e una resistenza incredibili, spesso fino allo sfinimento, per ottenere la consistenza desiderata. Questi gesti, apparentemente semplici nella loro esecuzione, erano il risultato di un apprendistato lungo e faticoso, di un'osservazione attenta e di una pratica incessante che forgiava il corpo e ne faceva un tutt'uno con la materia prima. Le rappresentazioni cinematografiche e antropologiche, come la celebre scena della pasta in Miseria e nobiltà, hanno catturato e immortalato l'energia e la teatralità di questi processi, trasformandoli in icone culturali. Totò propone una scena iconica in cui l’attore si getta letteralmente nel piatto di spaghetti: un gesto comico, ma profondamente simbolico. Quella scena racconta la fame, il desiderio, la dignità e la disperazione del popolo napoletano. E anche lì, il corpo è tutto: mani che afferrano, bocche che si riempiono, sguardi che brillano. L’atto di mangiare pasta diventa performance di classe e di identità.

Il distretto napoletano, in particolare quello compreso tra Gragnano Torre Annunziata e Castellammare di Stabia, si configurava come un vero e proprio laboratorio di “ecologia della cultura”[14]. Qui, le condizioni naturali ideali (acqua, vento, clima) si sposavano con un sapere artigianale sviluppato nel corso dei secoli, creando un ecosistema produttivo unico nel suo genere un “agire” della comunità in sintonia con la natura e la specificità del territorio.  Tuttavia, dietro l'immagine idilliaca e folcloristica del "mangiamaccheroni" e del pastaio napoletano, spesso alimentata anche da stereotipi razzisti e/o pittoreschi dell'epoca, si celavano le dure e disumane condizioni di vita della plebe pastaia. “Per avere buoni maccheroni era decisivo l’impasto di semolato ed acqua calda che veniva lavorato con la forza delle gambe e dei piedi in una madia di legno o di ferro: un uomo in piedi sull’impasto coperto da un panno, reggendosi ad una fune per mantenere l’equilibrio, pestava con forza e velocità, con cura e competenza; erano «uomini cenciosi nel modo più ributtante, e senza veruna cura e politezza»[15]. Sudiciume e corpo che secondo alcuni rendevano l’impasto un misto di sudore e di residui quasi tossici. Le riflessioni di Spadaccini appena citate segnano un importante passaggio dell’uso del corpo e del rapporto corpo-macchina nelle diverse trasformazioni dell’industria legata alla pasta.

La vera rottura tra il corpo del lavoratore e la pasta avvenne con l'introduzione delle macchine industriali che hanno dato vita a progressive trasformazioni. Questo passaggio dall'impasto fisico, manuale e quasi rituale a quello meccanico e automatizzato, ha segnato una trasformazione profonda non solo nel processo produttivo, ma anche nella struttura sociale. I "plebei" che impastavano con i piedi si trasformarono in "operai" di fabbrica, e il loro lavoro, sebbene meno fisicamente estenuante, logora il legame con il territorio e diviene più alienante e spersonalizzato. A voler considerare il Censimento 1874   si registra la nuova grande capacità produttiva. «Torre Annunziata ove vi sono 140 fabbriche e ove si producono paste e pastine per 250.000 quintali... si produce anche farina e semola, credo altri 250.000 quintali sicché il consumo medio di grano di detto comune è di pressoché 130.000 quintali di grano. I maggiori industriali in Torre: i fratelli Palumbo, De Simone, Cuccurullo, Massa, i signori Prisco, De Matteo, Cesaro, La Rocca, Formisano, Russo, Iennaco, Giordano. Questi sono i fabbricanti di maccheroni sebbene taluni anche di pastine. Producono queste ultime i signori Palmieri, Scala, Montella etc.» [16]. Il rapporto corpo, tecnologie, territorio diventa elemento di riflessione costante in Angelo Abenante, storico e sindacalista degli anni Quaranta del secolo scorso, che nel suo saggio Maccaronari, sottolinea come la storia di Torre Annunziata sia indissolubilmente legata a quella della pasta, offrendo una chiave di lettura privilegiata per comprendere le dinamiche sociali, economiche e culturali del territorio. "La storia di Torre Annunziata può essere letta attraverso la storia della pasta: è un sapere di corpo, un sapere di classe, un sapere di luogo"[17] Questa frase cattura l'essenza dell'interconnessione tra la pratica produttiva della pasta e l'identità collettiva, evidenziando come la pasta non fosse solo un prodotto, ma un elemento costitutivo della vita e della coscienza di classe di una comunità. Abenante fa cogliere il quid della civiltà della pasta mettendo insieme in rapida successione, e spesso miscelandoli, i vari ingredienti della civiltà della pasta, la letteratura, la produzione, la tecnologia, la sapienza artigianale, il lavoro, il territorio e, quindi, spiega perché quella civiltà è scomparsa. La rapidità del racconto è essenziale per assorbire il quadro d’insieme. In Maccaronari c’è una domanda ricorrente che si pone l’autore e che riguarda Torre Annunziata, forse meno Gragnano, ma che vale anche per Castellammare, ossia come una mentalità ed un vissuto così pervasivo – tanto per numero di addetti quanto per numero di fabbriche – sembra essere sparito dai vissuti della città. Dal 1945 al 1970 vi è l’estinzione progressiva e completa del distretto. Le imprese sopravvissute alla Seconda guerra mondiale non riescono a competere né con le imprese del Nord, avvantaggiate dalla ricostruzione, né con quelle degli altri Paesi. Oggi a Torre Annunziata sopravvive solo un opificio. Le accelerazioni produttive erano state indissolubilmente legate alla trasformazione tecnica. Nel1933 viene depositato un brevetto che partendo dall’ uomo di bronzo diventa un’unica macchina di bronzo, la pressa continua[18] che dalla farina produce la pasta, mossa non più dalla forza umana e che era il frutto di ulteriore trasformazione già avvenuta intorno al 1880 con l’invenzione della pila o “apparato elettromotore” o “apparato a colonna”. La vera rivoluzione antropologica, spesso silenziosa e sottovalutata, è avvenuta attraverso l’uso delle macchine. In particolare, quest’ultima trasformazione, ha permesso una produzione senza interruzioni, senza la necessità del lavoro manuale. Questo ha portato all'espulsione quasi totale del corpo umano dal ciclo produttivo della pasta, segnando un divario crescente tra l'atto di produrre e l'atto di consumare. Il profumo del grano, il calore della madia, la consistenza dell'impasto – tutte sensazioni legate al corpo del pastaio – sono state sostituite dai rumori delle macchine e dall'efficienza industriale.

V. Genere, spazi e ruoli

Nel contesto della produzione e del consumo alimentare, la divisione dei ruoli di genere nelle culture tradizionali è un tema antropologico ricorrente e assume connotati particolarmente significativi. Mentre nell'immaginario collettivo e nella narrazione storica più diffusa, il grano e la sua lavorazione (specialmente l'impasto pesante e la produzione industriale) erano spesso associati alla sfera maschile, la cucina, intesa come spazio domestico e luogo di trasformazione del cibo per il consumo familiare, rimaneva quasi esclusivamente appannaggio femminile. La pasta, in questo contesto, divenne un oggetto di sottile ma costante negoziazione culturale e un veicolo di un potere invisibile, spesso esercitato dalle donne attraverso il controllo del nutrimento familiare. Nel contesto della produzione pastaia campana, il lavoro del grano – dalla mietitura alla macinazione – è storicamente associato agli uomini. L’attività nei campi, nei molini, nei magazzini è considerata dura, esterna, legata a uno spazio pubblico. Al contrario, le donne occupano il versante domestico della catena alimentare: curano l’orto, preparano la pasta fresca, gestiscono la cucina. Il loro lavoro è altrettanto complesso, ma confinato tra le mura domestiche, in uno spazio “invisibile” e spesso sottovalutato.

Questo dualismo si riflette anche nei materiali simbolici. Il grano e il campo sono maschili; le erbe, le foglie, i cibi preparati, il “sudiciume” e la cucina sono femminili. Le donne sono associate alla trasformazione della materia più che alla sua produzione. Sono le custodi del mistero – della nascita, della morte, del nutrimento – ma spesso escluse dalla sfera del riconoscimento pubblico.

L’antropologia ha messo in luce come questi ruoli si riflettano anche in ambiti immaginari e rituali. Le donne, proprio per la loro vicinanza alla materia organica e alla cura, sono state spesso sospettate di pratiche stregonesche, di avvelenamento, di eccessiva familiarità con il “mondo sporco”. Allo stesso tempo, sono investite di un forte ruolo morale e sociale: garantire il benessere familiare attraverso il cibo, la salute, la pulizia.

Una testimonianza significativa di questi ruoli si trova nei racconti orali legati al brigantaggio meridionale post-unitario[19]. Le donne delle comunità rurali erano spesso costrette a cucinare per i briganti che si rifugiavano nei villaggi. La paura della violenza le spingeva a offrire piatti succulenti come i “cavatelli grossi grossi”, nella speranza di rabbonire gli uomini armati e scongiurare saccheggi. Il gesto di cucinare, in quel contesto, diventava un atto di sopravvivenza, ma anche di negoziazione e di potere simbolico.

Lo “spazio vitale” della donna era così definito rigidamente: domestico, riproduttivo, accudente. Solo la povertà estrema poteva giustificare un’uscita da questo perimetro. E quando ciò accadeva, il contatto con lo spazio esterno produceva spaesamento, disorientamento, rischio morale. Il pane, ad esempio, era uno degli emblemi più forti della domesticità femminile. Fare il pane, infornarlo, condividerlo era gesto quotidiano, ma anche rituale, sociale, di buon auspicio[20].

Numerosi etnografi e scrittori dell’Ottocento hanno raccontato la centralità della donna nella gestione del cibo nelle società contadine italiane. Le donne “hanno pensiero del macinato”, diceva uno di loro: “stacciano la farina, fanno il pane, lo infornano e cuociono l’un dì per l’altro”[21].  In Calabria come in Campania, lo zappare o il mietere erano attività riservate agli uomini, ma la trasformazione e l’accudimento del cibo rimaneva dominio femminile. Le donne hanno le mani in pasta e lavorano la pasta fresca la manipolano e preparano il pane gli uomini producono in strada, all’aperto e usano i piedi la forza per un prodotto che diventa di largo consumo.

Anche nella lavorazione della pasta, quindi, si riflettono dinamiche profonde di genere. Le mani femminili sono quelle che curano, plasmano, modellano, puliscono dal sudiciume e dalle frattaglie animali. Ma spesso restano invisibili, silenziose, sommerse sotto lo sguardo dominante di una narrazione produttiva maschile.
Gli uomini erano responsabili della mietitura e dell'impasto delle grandi quantità di pasta destinate alla vendita o al consumo collettivo. Le donne, d'altra parte, si occupavano della cura dell'orto, della raccolta delle erbe, della preparazione della pasta fresca per la famiglia e della gestione quotidiana della dispensa[22]. Il cibo, preparato dalle mani femminili, poteva diventare persino una forma di mediazione politica o un simbolo di resistenza, come nel caso delle donne che cucinavano per i briganti o che, attraverso il cibo, tessevano reti di solidarietà e sopravvivenza.

Nonostante il ruolo fondamentale delle donne nella manipolazione del cibo e nella sua trasformazione, la narrazione dominante spesso le ha rese invisibili o le ha relegate a un ruolo ancillare. Le figure maschili venivano celebrate come i "produttori" o gli "innovatori", mentre il lavoro femminile, sebbene essenziale e spesso più complesso nella sua quotidianità, rimaneva nell'ombra.  Molti etnografi e osservatori dell'epoca non potevano[23] fare a meno di ammirare la straordinaria capacità e l'ingegno delle donne contadine e popolane, che con risorse minime riuscivano a creare piatti nutrienti e saporiti, trasformando la povertà in arte culinaria. Tuttavia, la storia ufficiale, quella delle grandi fabbriche e delle innovazioni tecnologiche, ha tradizionalmente affidato agli uomini il volto "produttivo" e visibile della pasta.

  Ma anche nella cucina, spazio femminile per eccellenza, si manifesta la profondità del sapere incorporato. "È difficile distinguere nella cucina contadina ciò che è gesto pratico da ciò che è rito. Le donne sanno di agire, ma anche di tramandare" [24]. Questa frase cattura la doppia natura del lavoro femminile: efficienza e praticità da un lato, ma anche trasmissione di un patrimonio culturale immateriale, di valori e identità attraverso la ritualità del cibo. Parafrasando Nietzsche, i gesti arcaici dell'atto del nutrirsi, ripetuti nel tempo, sono un "eterno ritorno" che danno forma e continuità all'identità collettiva, fornendo un senso di stabilità e continuità, che nell’alimentazione si manifesta nei cicli stagionali, nei gesti ripetuti, nei riti quotidiani. Mangiare è, ogni volta, un rito che ripete e rinnova un’appartenenza. La pasta, in Campania, parla la lingua di una cultura resiliente, della sua capacità di resistenza di fronte alle avversità, e del suo profondo radicamento nel territorio e nella storia di un popolo che ha saputo fare del cibo un baluardo di identità e un simbolo di sopravvivenza e rinascita.
Questa ambivalenza si esprime in una serie di dicotomie che attraversano la cultura alimentare e, più in generale, la condizione umana: crudo/cotto, fame/sazietà, povertà/ricchezza, ordine/caos.

La relazione con la pasta coinvolge il corpo, non solo quello che la produce, ma anche quello che la consuma. Mani che mangiano, bocche che gustano, pance che si saziano. L’atto del nutrirsi è sempre anche estetico, etico, erotico. È una forma di relazione: con il proprio corpo, con gli altri, con la comunità. Ed è anche un atto di memoria, perché ogni sapore evoca storie, persone, luoghi. Ogni piatto di pasta è una narrazione stratificata, un gesto che racchiude secoli di esperienza, di dolore e di bellezza.

VI. Modernità, crisi e riplasmazione della tradizione

Gli ultimi decenni hanno visto profondi cambiamenti nella produzione e nel consumo della pasta, influenzati da processi di industrializzazione su larga scala, globalizzazione dei mercati e l'emergere di un marketing sempre più identitario. Il passaggio da un'economia artigianale e locale a una industriale e globale ha trasformato radicalmente il rapporto dell'uomo con il cibo e, in particolare, con la pasta. Il gesto corporeo e la manualità, che per secoli avevano definito la produzione pastaia, sono stati progressivamente sostituiti dalla meccanizzazione e dalla logica del consumo veloce.

La "civiltà della pasta", così profondamente radicata nel territorio, ha iniziato a subire i colpi della modernità.
Eppure, in questo scenario di trasformazione, si è assistito anche a una sorprendente riscoperta della tradizione, soprattutto a Gragnano. Molti pastifici artigianali, pur utilizzando macchinari moderni, hanno scelto di valorizzare le tecniche antiche: la trafilatura in bronzo, che dona alla pasta una superficie ruvida e porosa ideale per assorbire i sughi; l'essiccazione lenta e a bassa temperatura, che preserva le proprietà organolettiche della semola; e l'utilizzo di semole selezionate, spesso provenienti da filiere controllate. La pasta non è più solo un prodotto, ma un oggetto di storytelling, di narrazione delle sue origini, delle sue tecniche e dei suoi valori, supportata da certificazioni come l'IGP (Indicazione Geografica Protetta) che ne tutelano l'autenticità.

VII. Il futuro del corpo e le relazioni con le nuove dinamiche culturali. Per una conclusione

In un mondo sempre più dominato dalla tecnologia e dalla produzione di massa, quale sarà lo spazio futuro del corpo nella produzione alimentare e, in particolare, nella lavorazione della pasta? Il rischio tangibile è che il corpo, con le sue imperfezioni, la sua lentezza e le sue esigenze, possa essere sempre più percepito come un ingombro nella catena produttiva, un residuo anacronistico in un'epoca di efficienza e automatizzazione.

Eppure, come ci insegnano gli studi di Tim Ingold, "non esiste vera conoscenza senza esperienza incarnata"[25]. Questa affermazione è particolarmente risonante quando si parla della pasta campana. Non si può comprendere appieno il senso profondo di questo alimento se non si è mai ascoltato il rumore inconfondibile di una gramola che impasta la semola, se non si è mai sentito il profumo intenso dell’essiccazione lenta che si diffonde nell'aria, o se non si è mai percepita la resistenza ruvida e porosa di una pasta trafilata in bronzo, capace di catturare il sugo in modo inimitabile. Queste sono esperienze sensoriali che solo il corpo può registrare e trasformare in conoscenza autentica.

Nel passaggio epocale dal corpo alla macchina, dal gesto manuale al processo automatizzato, dalla lentezza meditativa all'efficienza frenetica, non perdiamo solo un'abilità artigianale o una quota di produzione. Perdiamo, in un senso molto più profondo, un rapporto sensibile e tattile con il mondo, una forma di appartenenza che si manifestava attraverso il lavoro manuale. Si dissolve il legame intimo tra chi produce e chi consuma, tra il sapere pratico che si accumula nelle mani e il sapore che si percepisce sul palato, tra l'uomo e il paesaggio da cui la materia prima proviene.
Si tratta di riconoscere il valore intrinseco di ciò che il corpo sapeva fare, prima che le sue funzioni venissero interamente delegate alla macchina. Rimettere "le mani in pasta" non è, quindi, un atto di nostalgico ritorno al passato: è, al contrario, una cura del presente, una riconnessione consapevole con il ritmo della terra e con la materia prima, un atto di opposizione alla crescente smaterializzazione del quotidiano.
Il futuro della pasta, e più in generale del cibo, non può che passare per una nuova alleanza tra tecnica e sensibilità, tra l'efficienza della produzione moderna e l'etica del rispetto per la tradizione e per il lavoro, tra la logica del mercato globale e le esigenze della comunità locale. La pasta non dovrebbe essere ridotta a un semplice prodotto confezionato: dovrebbe rimanere un racconto che si dispiega in ogni suo boccone; un paesaggio che si riflette nella sua forma e nella sua consistenza; non solo un alimento da consumare, ma una vera e propria espressione di cultura.
In un mondo che corre freneticamente, l'atto di impastare, di plasmare il cibo con le proprie mani e il proprio corpo, è ancora un gesto radicale e, per certi versi, rivoluzionario. È un richiamo alla lentezza, alla cura, alla consapevolezza, valori che sono essenziali per il nostro benessere non solo fisico, ma anche culturale e spirituale. La pasta, in questo senso, è e rimarrà un simbolo della capacità umana di trasformare la natura in cultura, nutrendo non solo il corpo, ma anche l'anima. Attraverso la produzione della pasta, il corpo umano si è fatto ponte tra natura e cultura, trasformando un bisogno in rito, una tecnica in arte, un alimento in identità.
Abbiamo visto come la pasta sia frutto di un sapere profondo, tramandato per via corporea, rituale, silenziosa. Abbiamo analizzato la distinzione tra ruoli maschili e femminili nella produzione alimentare, i confini tra pubblico e privato, tra riconosciuto e invisibile. Abbiamo esplorato le radici storiche della pasta campana, l’interazione virtuosa tra ambiente e tecnica, l’ecologia culturale che ha reso Gragnano, Torre annunziata Castellammare di Stabia, un caso esemplare di eccellenza artigianale.
Ma soprattutto, abbiamo compreso come il cibo – e la pasta in particolare – non sia mai solo materia. È memoria, è politica, è gesto, è rito. È un sapere del corpo che resiste alle trasformazioni, che sfida l’omologazione, che celebra la vita nella sua dimensione più profonda e condivisa. In un’epoca in cui il tempo della cucina si riduce, in cui le mani non impastano più e i piedi non calcano più il grano, ricordare la lezione del passato diventa un atto di consapevolezza. Il futuro della tradizione passa anche dalla sua riscrittura, dalla sua valorizzazione, dalla sua trasmissione attiva. E allora, rimettere “le mani in pasta” è, in definitiva, un modo per vivere meglio.
[1] Marcel Mauss, Einaudi, Torino, 2002,[2]  M.Douglass Purezza e Pericolo , Il Mulino , Bologna,2003.[3] P. Bourdieu, Sociologia generale. Vol. 2: Sistema, habitus, campo, Mimesis, Milano, 2021[4]  P.Bourdieu, Il senso pratico, Armando ed, Roma, 2003[5] M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita nella prigione. Einaudi, Torino, 1976.   [6] M.Foucault Storia della sessualità, L'uso dei piaceri,vol.II, Feltrinelli, Milano 1948;[7] M. Mauss, Le tecniche del corpo, ETS, Roma ,2018.[8] C. Lévi-Strauss, Il cotto e il crudo, Saggiatore, Milano,2008.[9] M. Onfray, Il ventre dei filosofi. Critica della ragione dietetica, Rizzoli, Milano, 1991.[10] E. Sereni, I napoletani. Da mangiafoglia a mangiamaccheroni. Note di storia dell'alimentazione nel Mezzogiorno, Argo edizioni, Roma 1958[11] Fonti antropologiche  nel distretto campano di Castellammare di Stabia, Gragnano e Torre Annunziata,98-122 in Fonti e risorse documentarie per una storia dell’industria delle paste alimentari in Italia (CISPAI), a cura di Stefano D’Atri, Gechi edizioni, Milano 2017.[12] Maria Cesira Angelica Filomena Pozzolini, nipote di Vincenzo Malenchini, l’uomo che resse il Governo Provvisorio della Toscana dal 1859 alla nascita del Regno d’Italia, pubblica Napoli e dintorni, impressioni e ricordi di un suo soggiorno napoletano del 1880.  C. Pozzolini Siciliani, Napoli e dintorni. Impressioni e ricordi, Napoli 1880, pp.125-126[13] Cfr. C. Spadaccini, Novello e grande stabilimento di paste con l’uomo di bronzo per togliere l’uso abominevole di impastare coi piedi, costruito da Cesare Spadaccini nella sua proprietà, Strada Campo di Marte in Napoli, Napoli 1833, Dante & Descartes, Napoli, 1998.[14] T. Ingold, Ecologia della cultura, Meltemi, Milano,  2016[15] C. Spadaccini, Novello e grande stabilimento di paste con l’uomo di bronzo per togliere l’uso abominevole di impastare coi piedi, costruito da Cesare Spadaccini nella sua proprietà, Strada Campo di Marte in Napoli, Napoli 1833, Dante & Descartes, Napoli, 1998, p. 24.[16]  A. Betocchi, Le forze produttve della provincia di Napoli, Stabilimento tipografico del Cav. G. De Angelis, Napoli, 1874, p.163.[17] A. Abenante, Maccaronari, Libreria Dante & Decartes, Napoli 2013.,p.12[18] Il brevetto fu depositato a Parma dagli ingegneri Mario (1896-1970) e Giuseppe Braibanti (1897-1966 )[19] A. Di Nuzzo, Il Brigante e le donne in alcuni racconti orali della Lucania in Quaderni del Dipartimento di Scienze dell’Educazione, 2009/2010, Univ. Di Salerno, Pensa, Lecce pp. 95-112.[20] Cfr, Vincenzo Padula, Calabria prima e dopo l’unità, a cura di Attilio Marinari, Ed. Laterza Bari, 1977, p.69.[21] Antonio Bresciani, 1872, vol. II, p. 16,17. In Maria Gabriella Da Re, La casa e i campi, Cuec editrice Cagliari 1990.   [22] Cfr.  G. Angioni, Il sapere della mano, Sellerio, Palermo, 1986.[23]L.  Passerini., Storia orale: vita quotidiana e cultura materiale delle classi subalterne, Bollati-Boringhieri, Torino, 2005[24] A. Di Nuzzo, Il Lavoro delle donne negli scritti paduliani, in Quaderni del dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Salerno, Pensa ed., Lecce, 2008.p.41-62   [25] Cfr. T. Ingold, Ecologia della cultura, Meltemi, Milano, 2016.