Un navicello … carico di saperi 

Smacchiatori, mastri d’ascia, calafati, carpentieri…. in Toscana tra ‘700 e ‘900

di Cristiana Torti

Con o senza vele, lungo da 8 a 20 metri, chiglia piatta per navigare in acque basse, stazza anche di 20 tonnellate, dall’epoca moderna fino alla metà del Novecento in Toscana il navicello è stato un diffusissimo mezzo di trasporto commerciale, e ha percorso in lungo e in largo l’Arno, i suoi affluenti, i canali fino al mare. Spartano, assai economico, maneggevole, capiente, resistente, ecologico: una vela latina quando c’era vento; una pertica da premere sul fondale per spingerlo a scivolare. A ritorno, controcorrente, nei punti più difficili lo si trainava con la fune alzaia (addetti al compito i bardotti) o con animali da tiro che procedevano sulla via alzaia lungo l’argine.
Trasportava granaglie per i mulini, farina, alimenti; ma anche sabbia, pietrame, mattoni caricati dalle fornaci lungo il fiume; traghettava persone nei “passi di barca”. Tragitti brevi o medi, fermate agli scali cittadini, soste nei piccoli porti fluviali.

Azzardava viaggi fino al porto di Livorno, attraverso il Canale dei Navicelli. Carico fino al bordo, dall’Arno sgusciava nella chiusa del Sostegno alla Porta a Mare pisana e aspettava che l’acqua salisse per accedere al canale. Quando era troppo carico di sabbia, per favorire il galleggiamento se ne travasava un po’ in un piccolo navicello di supporto, e, passata la chiusa, si ricaricava.
Per la Toscana, i navicelli ebbero più o meno la funzione delle barche che Fernand Braudel chiamava “processionarie per vocazione”; bordeggiando le coste del Mediterraneo e procedendo di scoglio in scoglio “come granchi di mare” “cucivano e ricucivano instancabilmente” contatti tra paesi, tra produzioni e commerci, tra l’interno e il mare. Strutturando regioni commerciali.
 
Alcune aree della Toscana, per esempio il comprensorio del cuoio, ebbero un forte sviluppo ottocentesco grazie alla presenza di navicellai e vetturali e di un sorprendente settore di trasporti commerciali: la concia a Santa Croce nacque per iniziativa di navicellai intraprendenti.
Quanti fossero è difficile dire. Si parla di una flottiglia di oltre 800 navicelli tra Pisa e Livorno ai primi del Seicento; sappiamo che nel 1576 alla Gabella del Callone di Castelfranco transitavano 37 navicelli al giorno, con picchi di 110 (Mugnaini, 2003).
Non c’è dunque da stupirsi se non si trova veduta dei ponti di Pisa, o stampa del Terreni, o acquaforte, o litografia dell’Arno senza navicelli; altrettanto vale per le foto degli Alinari e per i film Luce.  Si dice che abbiano colpito Stendhal nel suo viaggio in Italia, certo di essi si lagnarono Ortensia e Dejanira ne La Locandiera (“Tre giorni da Pisa a Firenze?  Che bestialità venire in navicello!”).

Ma chi costruiva i navicelli? Come venivano prodotti? Ogni barca contiene un cumulo di mestieri, di saperi tramandati o appresi in anni di apprendistato, di sapienti incroci tra nozioni agrarie, ingegneristiche, nautiche. 

Si approntava prima di tutto il disegno. Poi serviva il legno, e, dice il poeta, per fare il legno ci vuole un albero. Querce, lecci, olmi, pini. Giurano i mastri d’ascia che gli alberi vanno tagliati d’inverno “quando sono fermi”, e “a luna calante”. Si ottiene un legno più forte, e un navicello deve durare “da 50 a 100 anni”.

 

La prima operazione era la smacchiatura. L’addetto andava alla macchia munito di scurino, piccola scure dotata di contrassegno, e marchiava gli alberi selezionati.  Successivamente intervenivano gli smacchiatori: tagliavano le piante da sacrificare e caricavano i tronchi uno alla volta sul carromatto, pianale lungo e stretto con ruote che poteva entrare nel bosco. Fuori, i tronchi venivano caricati su normali barrocci trainati da cavalli robusti.

Arrivati al cantiere, per i tronchi cominciava la stagionatura. Acqua sole vento: “Il legno che ce la faceva era quello buono”. Sul piazzale si faceva anche lo schiocco, operazione compiuta dalle donne che consisteva nello scortecciare i tronchi. Le cortecce finivano nel camino, e, soprattutto se erano di pino, “schioccavano”.

Alla fine della stagionatura i tronchi venivano messi su apposite panche, e intervenivano i segantini per tagliare i pezzi a misura giusta, dopo aver segnato il punto del taglio con la cordicella legnaiola intinta in polvere colorata. 

 

Finalmente arriva il momento di costruire lo scafo, operazione affidata ai mastri d’ascia, la professionalità più elevata della carpenteria. Non tragga in errore la dizione ascia, perché in questo caso si tratta di uno strumento stondato, con il quale i mastri, con esperienza e talento, toglievano anche pochi millimetri di legno: “da tanto che erano precisi potevano fare la barba alla gente”.

Si costruiva l’ossatura, scheletro della barca, con la chiglia, lo spigolo e il bordo. Poi si aggiungeva ilfasciame, strisce di legno trasversali curvate. Assemblato il fasciame, si procedeva alla ribollatura, con file di bollette di rame che venivano ribattute.

A questo punto entravano in campo i calafati. Il loro compito era quello di rendere impermeabile lo scafo, inserendo in ogni piccolo commento uno spago o della stoppa con pece o catrame. La preparazione del catrame era affidata agli apprendisti (“avevo 14 anni, le esalazioni mi strinavano il viso”).

 

L’inserimento avveniva battendo le parelle, piccoli scalpelli, con l’apposito mazzuolo (di legno con un anello di metallo), e il lavoro dei calafati produceva un suono profondo e ritmico. Dalla profondità del suono (“come un canto”), i calafati esperti riconoscevano il momento in cui si poteva smettere di calafatare: lo scafo era impermeabile, potevano riporre gli strumenti nella scatola che serviva da sgabello (marmotta). 

 

Altri lavoratori e altri saperi contribuivano alla costruzione di barche: il fabbro per il montaggio dell’albero, i velai, i falegnami, i verniciatori … e ognuno aveva i propri talenti e i propri strumenti, spesso autocostruiti (“non si andava mica all’Ikea!”).

Ma ci fermiamo qui. Il navicello sta per essere varato. 


 

·      Le informazioni tecniche sono tratte da interviste al titolare e ai lavoratori del Cantiere Fontani di Marina di Pisa eseguite negli anni 2004-2005, nell’ambito del Progetto di ricerca “L’Industria della memoria”, da me diretto, e da alcune interviste reperite in rete e curate dalla associazione I Ghibellini, Pisa, s.d.