I mestieri delle donne

Per una storia del lavoro al femminile tra Otto e Novecento

 di Rossano Pazzagli

Alle soglie dell’età contemporanea, in una economia caratterizzata da una ancora debole industrializzazione, la pluriattività e il lavoro femminile assumevano una dimensione rilevante, che riguardava soprattutto le attività relative al tessile, ai  servizi domestici e all’agricoltura: oltre a quella di contadina, intorno alla metà dell’Ottocento nei censimenti dei diversi Stati italiani preunitari, le condizioni professionali più rappresentative per quanto riguarda le donne erano infatti quelle di calzettara, cucitora, filatora, tessitora e altre connesse al settore.

Nel paese di Borgo a Buggiano, ad esempio, che a tale epoca contava poco meno di 2000 abitanti e costituiva il centro più vitale e manifatturiero del comune di Buggiano, in Valdinievole, le donne impegnate in attività non agricole erano la maggioranza (circa il 57%) della popolazione attiva femminile e tra di esse prevalevano largamente – appunto – calzettaie, filatrici, cucitrici e trecciaiole. Mentre le attività di calzettaia e di tessitrice rimandano alla generalità delle lavorazioni tessili, esercitate negli strati popolari per l’autoconsumo o per imprenditori manifatturieri che adottavano il sistema dell’industria e domicilio, la definizione di “filatrice” o “filatora” riguarda essenzialmente la seta, che rappresentava un comparto importante dell’economia, i termini “cucitora” e “trecciaiola” corrispondono  più precisamente alla fabbricazione dei cappelli.


A questi si aggiungevano altri mestieri tipicamente femminili, una pluralità di figure, di competenze e di abilità che rendeva alquanto mosso e variegato l’universo dei lavori delle donne, ben oltre la comune definizione di “casalinga” o di “attende a casa”, come troviamo spesso scritto nel censimento toscano del 1841: sarte, ricamatrici, setaiole, crestaie, modiste, fiascaie, bottegaie. C’erano anche molte donnea servizio”, cioè addette ai lavori domestici per conto di altri.

Complessivamente le donne impiegate a livello locale in attività tessili assumevano una dimensione rilevante, dalla quale scaturivano anche elevati livelli di qualità del prodotto, come dimostra l’elenco degli espositori toscani premiati alla Esposizione universale di Parigi del 1855, tra i quali spicca proprio una borghigiana, Ersilia Parlanti, che si guadagnò una medaglia per lavori di ricamo su tessuto di seta. La filiera della seta – dal baco al bozzolo e al filo – è stata una delle voci più significative dell’economia italiana fino al primo ‘900. In una filanda lavorava, come sappiamo, anche Lucia, la protagonista femminile de I promessi sposi.


In certi contesti un’attività particolare, in cui erano soprattutto impegnate le cosiddette “cucitore”, era proprio la fabbricazione dei cappelli. La manifattura dei cappelli è rimasta a lungo prevalentemente femminile e anch’essa ha contribuito in misura non trascurabile alla crescita economica e sociale, con significativi risvolti su taluni sistemi economici locali e più tardi sull’intera economia nazionale nell’ambito della prima “onda” dell’industrializzazione italiana. La Valdinievole, ad esempio, cioè l’area che si distende tra Lucca e Pistoia e che ha rappresentato uno degli assi portanti dello sviluppo economico regionale della Toscana, è un buon contesto per osservare le modalità e le caratteristiche di tale attività. 

Per tale zona, una lettura più analitica dei dati censuari consente di ricostruire il quadro sociale dell’attività riguardante la fabbricazione di cappelli. La maggior parte delle cucitrici di Borgo a Buggiano erano giovani: 19 avevano infatti un’età inferiore a 20 anni e 21 erano comprese tra 20 e 30; 11 avevano dai 30 ai 40 anni, 8 tra 40 e 50, e solo 3 donne superavano i 50 anni. La maggioranza (49) abitava dentro le mura del Borgo, mentre dal punto di vista della situazione familiare le nubili (39) prevalevano sulle sposate (21) e le vedove (2). La forza lavoro impiegata in questa attività, portata avanti anch’essa nella forma dell’industria domestica, non apparteneva al ceto contadino, quanto piuttosto a famiglie dei borghi rurali collegate all’economia commerciale, artigianale e di servizio che si era consolidata in tutta una serie di centri toscani, specialmente lungo gli assi principali dello sviluppo regionale (il Valdarno, la Valdinievole, il Pratese, ecc.). La prima cucitrice censita nel 1841 era la cugina del parroco Pietro Damiani, la seconda era la moglie del procaccia comunale Francesco Simonatti; seguivano la moglie di un calzolaio, di un mescitore di vino, di un falegname e non mancavano giovani di famiglie piccolo possidenti o commerciali.


I cappelli potevano essere di feltro o di paglia. Già nella seconda metà del ‘700 la fabbricazione di cappelli di feltro era presente in forma organizzata in Valdinievole, nel Valdarno inferiore e in altre zone della Toscana. Secondo l’inchiesta leopoldina del 1766 a Pescia, che della Valdinievole costituiva il centro più importante, la città, erano attive a quest’epoca cinque “botteghe” che complessivamente producevano circa 2.200 dozzine di cappelli all’anno. Alla stessa data si producevano circa 1000 dozzine di “cappelli di feltro di lana” anche nella zona di Pontedera, lungo la parallela Valdarno; così a Empoli, dove la qualità migliore era quella di “di pelo di groppa di lepre” (circa 120 dozzine l’anno), ma anche di pelo di cammello, “pancia di lepre e lana fine della Maremma”. 

In Toscana, oltre alla presenza della fabbricazione dei cappelli di feltro, si sviluppò sul finire dell’età moderna in misura significativa l’”industria” del cappello di paglia. Una crescita che si colloca anch’essa nel XVIII secolo fin da quando il bolognese Domenico Michelacci introdusse a Signa l’innovazione di mietere il grano giovane, facendolo poi seccare al sole al fine di ottenere una paglia che dava cappelli gialli, fatti con trecce solide e pieghevoli. Questo tipo di lavorazione si diffuse in una vasta zona della Toscana, che conservò in Signa il suo epicentro, tanto che nel secondo decennio del XIX secolo lavoravano la paglia (spesso a domicilio) almeno 60.000 donne solo nel comprensorio fiorentino: “La manifattura de’ cappelli di paglia – si legge in una testimonianza del 1831 – è stata la salvezza dei frequenti paesetti che si trovano da Firenze a Montelupo, e che ne formano quasi un continuo sobborgo”. I cappelli raggiungevano i mercati esteri, soprattutto europei, ma anche americani e orientali. Il periodo d'oro dei cappelli di paglia fu il secolo XIX quando questa divenne la principale manifattura toscana grazie al successo ottenuto sul mercato degli Stati Uniti.


Le donne lavoravano per mercanti-imprenditori che acquistavano la materia prima, distribuivano il lavoro e ritiravano il prodotto finito; in certi casi le operazioni tendevano a concentrarsi in appositi opifici. A Borgo a Buggiano, ad esempio, nel 1841 erano un centinaio le ragazze che prestavano la loro opera per Pietro Donnini, uno dei maggiori imprenditori borghigiani che aveva fondato nel 1825 una "manifattura di cappelli di paglia” i cui prodotti erano venduti a Firenze. Dieci anni dopo il Donnini aprì anche una "trattura" di seta impiegandovi sei donne e producendo diverse migliaia di libbre di filo destinate ancora al mercato fiorentino. Un altro produttore di cappelli di paglia, Baldassarre Romani, aveva avviato la sua impresa nel 1833, e nel 1841 dava lavoro a 40 donne.

La lavorazione della paglia era un vero e proprio sistema produttivo, che implicava una larga e persistente presenza del lavoro a domicilio, nel quale il ruolo della donna era fondamentale, fino a prefigurare – come ha scritto Alessandra Pescarolo – “una centralità dei redditi femminili nelle economie familiari”, tale da avere riflessi anche sui comportamenti personali e demografici.

Non c’era soltanto la paglia. Come abbiamo detto, esisteva nel Borgo anche la fabbricazione di “berretti di lana grezza a maglia”. E se negli altri casi le donne erano delle semplici lavoranti, qui era donna anche l’imprenditrice: Barbera Livi, definita “direttrice”, guadagnava circa 800 lire all’anno e impiegava 80 donne (“anche bambine purché sappiano lavorare a maglia”), che permettevano una produzione di almeno 18.000 capi. L’attività era stata avviata nel 1835 e la lana veniva da Lucca, dove si rimandavano anche i berretti.

E oltre a quelli di lana, c’erano i cappelli di feltro, un’attività che venne assumendo nel corso dell’800 una dimensione non trascurabile anche a livello nazionale. Dopo l’Unità una statistica del 1878 registrava un totale di 521 “stabilimenti”, con 5317 addetti e, tra questi, un ampio ricorso al lavoro femminile ed anche minorile (561 fanciulli). Dopo il Piemonte (110), la Toscana era la regione con il maggior numero di opifici (78), distribuiti nelle diverse province: Siena 29, Lucca 14, Arezzo 10, Massa Carrara 9, Firenze 8, Livorno 5, Grosseto 2, Pisa 1.   Allo scoccare del nuovo secolo, il 17 marzo 1900, il giornale di Pescia “La Valdinievole”, apriva la terza pagina con il titolo “L'industria dei cappelli”. Vi si annunciava che "...una vecchia industria pesciatina, quasi scomparsa, rinasce a nuova vita… Per iniziativa del nostro sindaco e del Direttore della Cassa di Risparmio, si è formata, da capitalisti locali, una società in accomandita semplice per la fabbricazione dei cappelli...". Banche e enti locali cooperavano per promuovere uno sviluppo locale basato in notevole misura sul lavoro delle donne, le quali hanno giocato un ruolo significativo nelle traiettorie di sviluppo delle diverse regioni, seguendo i variegati percorsi della industrializzazione italiana. In essi la presenza del lavoro femminile era fondamentale, tanto che nel 1879 si avvertì l’esigenza di una legge “sul lavoro delle donne e dei fanciulli”; proprio in occasione della stesura di questo progetto di legge, che porta i nomi di Minghetti e Luzzatti, una statistica faceva rilevare la netta prevalenza delle donne sugli uomini per i settori della seta e del cotone. Le donne mantenevano la maggioranza nelle industrie di lino e canapa, mentre in quella della lana prevalevano gli uomini, così come per i cappelli di feltro, anche se il lavoro femminile restava quantitativamente significativo in questo comparto.

Anche a Borgo a Buggiano, il nostro luogo campione, l’industria dei cappelli conobbe una ripresa negli anni che precedono la prima guerra mondiale, quando Attila Conti avviò la lavorazione industriale dei berretti dietro le antiche mura del paese. Una nuova fabbrica di berretti fu aperta da un fratello del Conti nel 1920-21 e poco dopo lo stesso Attila costruì un nuovo berrettificio nei pressi del torrente Cessana che attraversa l’abitato. In questo opificio lavoravano circa 80 operaie, mentre un altro ne occupava più di 100. 

Anche la produzione di cappelli di paglia raggiunse il suo culmine negli anni ’30 del ’900, con una significativa incidenza sul valore delle esportazioni toscane. Poi questo settore come quello della seta entrarono in crisi, colpiti da vari fattori, tra cui i dazi, l’adozione di materia prima derivata dalla cellulosa, l’avvento delle fibre sintetiche. Comunque, la lavorazione del cappello di paglia dava ancora lavoro a decine di migliaia di donne in Toscana, soprattutto lungo l’asse Firenze-Empoli e in Valdinievole. Possiamo dire che tutte queste donne impegnate nella lavorazione dei cappelli (che fossero di feltro, di paglia o berretti) finirono per dare un contributo di rilievo, non solo ai redditi delle rispettive famiglie, ma anche allo sviluppo di quel settore tessile e della moda che costituirà uno dei tratti del successo italiano e toscano nel mondo.


Fonti

 

-        Archivio di Stato di Firenze, Stato civile, 12088, Censimento, 1841.

-        Archivio Comunale di Buggiano (PT), Cancelleria comunitativa di Buggiano, 1116, "Stato degli stabilimenti manifatturieri ed opifici, 5 aprile 1841".

-        Archivio di Stato di Firenze, Segreteria di gabinetto, 334, “Statistica industriale”, 1850.

-        Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, Notizie statistiche sopra alcune industrie, Roma, Botta, 1878.

-        Le “corse agrarie”. Lo sguardo del Giornale Agrario Toscano sulla società rurale dell’Ottocento, a cura di G. Biagioli, R. Pazzagli, R. Tolaini, Pisa, Pacini, 2000.

-        Il lavoro delle donne. Attività femminili in Valdinievole tra Ottocento e Novecento, Istituto Storico Lucchese, 2004.

-        Pescarolo, Il lavoro a domicilio femminile: economie di sussistenza in età contemporanea, in Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento, a cura di S. Musso, Milano, Fondazione Feltrinelli, 1999.