Una lunga Resistenza: l’Italia dalla Marcia su Roma al 25 aprile 1945

di Francesco Catastini



A partire dai miei primi lavori dedicati al tema affrontato in questo numero di “Nautilus”, ho sempre pensato che, almeno per quanto riguarda il caso italiano, sia molto difficile separare Resistenza e antifascismo. Cercare di definire questa sorta di concetti primitivi è complicato. La prima difficoltà si incontra tentando di definire Resistenza quando cerchiamo di stabilire un’equivalenza tra il termine e il suo significato.

La più classica definizione da dizionario, separando, anche se solo per un istante, la parola dalla sua area semantica, ci spiega che la resistenza è la proprietà di un corpo di non mutare se viene sottoposto a cambiamenti. In effetti, i partigiani italiani per autodefinirsi quasi mai facevano ricorso a questo termine. Come ha scritto Valerio Romitelli «è che per resistere bisogna aver qualcosa di preciso da difendere o cui fare riferimento: un esercito, magari anche sconfitto (come per i francesi fedeli al governo De Gaulle), o anche solo da ricostruire (come per i repubblichini sempre fedeli al Duce)» (L’odio per i partigiani: come e perché contrastarlo, Napoli, Cronopio, 2007). Se in Europa gli Alleati spingevano i popoli sottomessi dalla Germania nazista alla Resistenza, come già osservato dalla parte più attenta della storiografia italiana, in Italia ben pochi avevano il prestigio e la credibilità istituzionale di De Gaulle o di Stalin per incitare a resistere contro gli occupanti.

Anche cercare il significato di antifascismo contrapposto al consenso verso il regime è questione intricata. Un andamento demografico stabile e un comportamento elettorale poco incline a cambiamenti repentini (se mettiamo a confronto l’andamento elettorale tra le ultime elezioni libere del Regno e le prime della Repubblica) induce a pensare, in assenza di movimenti migratori interni rilevanti, che militanti e simpatizzanti dei partiti politici storicamente avversi al fascismo, non solo non abbiano cambiato idea durante il Ventennio, ma che all’interno dei propri nuclei familiari o della rete sociale più fidata (sia essa legata al lavoro, alle relazioni sociali, alla famiglia più allargata) riuscivano in parte a superare quel forte senso di solitudine morale in cui si erano venuti a trovare. D’altra parte, il massiccio ricorso del regime a un capillare intervento di controllo sul territorio tramite le varie forze di polizia e una ricchissima rete di spie, di infiltrati e di delatori non può che essere segnale di un largo dissenso e di mantenimento coatto dello status quo. Le migliaia di fascicoli del Casellario Politico Centrale e gli ancora più numerosi fascicoli personali dei sovversivi raccolti dalle questure locali ne rappresentano un segnale evidente.

Altro indicatore manifesto di presenza del dissenso, è il ricorso alla violenza per intimorire coloro che erano percepiti come elementi pericolosi per lo stato fascista. Le missioni punitive, le purghe, le manganellate, le carcerazioni preventive tornano di frequente tanto da non far ritenere la violenza fenomeno caratteristico dell’assalto al potere da parte di Mussolini e dei suoi seguaci, ma una costante individuabile fino al collasso del regime, compresa l’esperienza della RSI. Il noto doppio omicidio di Carlo e Nello Rosselli a Bagnoles-de-l’Orne, nella bassa Normandia, il 9 giugno del 1937 o lo smantellamento di molte reti legate all’esponente del PCI Osvaldo Negarville il cui obiettivo era trovare volontari per la Guerra Civile di Spagna. L’intercettazione, il pedinamento e poi l’arresto dell’antifascista, porta le forze di Polizia alla scoperta di un vasto gruppo sovversivo tra Toscana e Piemonte che solo nell’empolese significa 400 arresti.

In merito a questo aspetto è emerso, come ha osservato tra l’altro Paul Corner con la sua consueta brillantezza, quanto il controllo sociale del regime fascista fosse così capillare da non lasciare alle persone alcuna possibilità di scelta. Il controllo, come si sa, nel regime fascista, come in altri regimi totalitari e autoritari, non era affidato esclusivamente alle forze di polizia: il “partito”, i suoi sindacati, le organizzazioni previdenziali e assistenziali si configuravano come efficaci strumenti per la gestione della società e dei rapporti personali. Per chi non riusciva o non voleva espatriare, l’adesione alle istituzioni dello stato fascista era la singola opzione in grado di rendere possibile la sopravvivenza. Ma mancanza di scelta non significa adesione.
È difficile elencare in maniera esaustiva tutte le istanze che condussero molti italiani verso la lotta partigiana, anche se in realtà molte delle forme di adesione che avvennero tramite una rottura netta con la sfera sociale di appartenenza, o a motivazioni di stampo patriottico possono essere ricondotte all’impatto della guerra.

È però con la crisi dello stato fascista (25 luglio 1943), l’armistizio (8 settembre 1943)  e l’occupazione dell’Italia da parte dell’esercito tedesco e il relativo scontro con gli Alleati che si configura la prima opportunità per la popolazione italiana di avere una scelta più o meno consapevole e convertirla  in azione ovvero trasformare l’insofferenza verso il regime maturata nel corso di 20 anni per i più anziani, e trasformare la percezione della reale debolezza del regime elaborata dai più giovani nel corso delle sue guerre fasciste, in atti concreti. Concretezza necessariamente non significa essere partigiano combattente, ovvero compiere almeno tre o sei azioni militari: l’azione è l’agire per un obiettivo, e il raggiungimento degli obiettivi non passa solo attraverso l’azione militare.
La storiografia si è impegnata nello sforzo di cogliere aspetti e peculiarità dell’antifascismo, ha tentato di definire lo stesso nello specifico (antifascismo politico, esistenziale, di risalita, militante, non militante). Sicuramente questo esercizio non è stato affatto inutile anche se, alla fine ha favorito, una eccessiva parcellizzazione del fenomeno: oggi agli occhi di molti il movimento antifascista equivale ad un micro-universo o, nella migliore delle ipotesi, alla sommatoria di molteplici micro-universi. Tutto questo, in parte, ha fatto perdere di vista ciò che ne costituì la caratteristica fondamentale, ovvero il significato letterale della parola: contro il fascismo. Questo è l’elemento chiave che unifica il movimento nel suo insieme. Non posso fingere di ignorare le questioni relative all’antifascismo italiano all’estero, caratterizzate dall’atteggiamento non esattamente lineare della III Internazionale nei confronti del regime italiano prima e di quello tedesco in seguito e dal carattere assai timido dell’antifascismo riconducibile ad altre correnti politiche. Nondimeno è evidente quanto gli antifascisti che vivevano in Italia non comprendessero affatto le meccaniche che conducevano a divisioni e riavvicinamenti fra i vari gruppi fuggiti in esilio, incomprensioni tra l’altro riscontrabili all’interno dei ceti dirigenti dei Partiti in esilio, e dello stesso Komintern.

Anche il termine Resistenza descritto accuratamente da Pierre Laborie ( Les Français des années troubles. De la guerre d’Espagne à la Libération, Paris, Seuil, 2003) negli anni ha accolto ulteriori significati, tanto che oggi, le giovani, e meno giovani, generazioni di storici e di cultori della materia, tendono a parlare di Resistenze nel tentativo di comprendere all’interno del fenomeno anche altri tipi di comportamento non strettamente militari.
Si devono pensare antifascismo e Resistenza italiana non come due fenomeni distinti (anche se connessi) di reti che si sono sovrapposte grazie all’identificazione profonda degli ideali e degli obiettivi del movimento resistenziale con un network antifascista preesistente, bensì come una singola entità, un solo movimento nonostante il lungo intervallo temporale in cui si sviluppa e l’eterogeneità stessa dei suoi membri. Il rapporto informale consistente fra le diverse reti clandestine, ad esempio, si declina con mezzi di contatto molto diversi e soprattutto in situazioni in cui il ruolo e l’invadenza repressiva dello Stato sono difformi. 

Gli antifascisti, dunque, sono i primi resistenti. Anzi il termine di Resistenti e di Resistenze, per il caso italiano, assume un senso assai più logico considerando il movimento come unico. L’antifascismo degli iscritti al CPC rappresenta solo una sorta di inizio dello stesso. Senso, che come già ricordato in precedenza, Romitelli aveva giustamente posto sotto osservazione: se si resiste per difendere qualcosa, cosa potevano difendere mai i partigiani?