Luci e ombre delle famiglie coloniche
di Alessandra Martinelli
Un grande tavolo di ciliegio (aperto poteva ospitare ventiquattro persone) troneggiava nella cucina dei miei nonni quando ero piccola. Era una delle ultime testimonianze di una grande famiglia mezzadrile che ormai non esisteva più da molto tempo. Era anche un po’ un simbolo di quella che, nell’immaginario collettivo, è stata la famiglia contadina in Toscana fino al primo dopoguerra: un insieme di generazioni e nuclei familiari che vivevano sotto lo stesso tetto, nonni, figli, mogli, nipoti, tutti insieme in una “grande, bella e felice famiglia”.
La realtà come sempre è ben diversa. I numerosi studi sul mondo contadino hanno fatto emergere luci e ombre di questi aggregati. Nel corso dell’800, e fino alla prima metà del XX secolo, la stragrande maggioranza degli italiani viveva in diretto contatto con la terra e da essa traeva i mezzi per la propria sussistenza. Al momento dell’Unità d’Italia il 58% della popolazione attiva era addetta all’agricoltura. In realtà tale quota doveva aggirarsi attorno al 70%, poiché molti lavoratori classificati tra gli addetti all’industria lo erano solo in modo stagionale o parziale ed erano di fatto dediti anche al lavoro nei campi. Questo però non comportava la presenza di un unico modello di famiglia contadina. Esisteva una grande pluralità ed eterogeneità nella composizione, negli stili di vita e abitudini di queste famiglie che erano assai diverse a seconda della dislocazione geografica e, soprattutto, a seconda dei contratti agrari vigenti e degli assetti della proprietà terriera.
In Toscana, come in altre regioni soprattutto centro-settentrionali, era assai diffuso il contratto di mezzadria stipulato tra un proprietario e un mezzadro (il capoccia), che impegnava e obbligava tutta la famiglia al lavoro sul podere. I mezzadri attuavano una vera e propria politica demografica per mantenere un rapporto equilibrato tra risorse e bocche da sfamare: se si creava uno squilibrio negativo si ritardavano o impedivano matrimoni dei giovani, o si imponeva l’uscita dei figli sposati. Ne derivava una famiglia estremamente gerarchizzata e controllata: dal padrone prima di tutto, poi dal capofamiglia, affiancato dalla massaia, in genere sua moglie in quanto sposa più anziana presente in famiglia. Ovviamente questi aggregati domestici non erano statici, ma in continuo divenire: morivano persone, nascevano e crescevano figli, i maschi adulti si sposavano e portavano in casa la moglie, le femmine si sposavano e se ne andavano per seguire il marito. I dati censuari poco ci raccontano sulle dinamiche interne alle varie famiglie, sui sentimenti e le vessazioni subite, soprattutto dalle donne, ma molto di più sappiamo dalle fonti orali che ci mostrano uno spaccato di vita assai diverso da quello talvolta raccontato e immaginato.
L’Istituto di Ricerca sul Territorio e l’Ambiente-Leonardo, di cui faccio parte, ha creato un archivio della memoria contadina, raccogliendo numerose interviste agli ultimi testimoni del mondo mezzadrile.[1] Dai racconti è emersa una realtà con molti chiaroscuri: la convivenza di più generazioni e più nuclei familiari era assai complicata, ed ecco che la “bella, grande e felice” famiglia colonica mostrava le sue ombre. La sottomissione, soprattutto femminile, era la base di tutto, e le testimonianze ci raccontano di una convivenza fatta anche di litigi fra i vari nuclei, di prevaricazioni mal sopportate, di un senso di “soffocamento” che attanagliava molti dei membri di queste famiglie dove, almeno fino a tutto il XIX secolo, il controllo padronalesi estendeva, oltre che sul podere, anche su aspetti della vita privata dei contadini. Il proprietario controllava la condotta morale e religiosa, il modo di vestire e l’uso del tempo libero, il numero dei figli, e decideva chi poteva sposarsi e chi no. In famiglia il controllo continuava: il capoccia si occupava della vendita degli animali o dei vari prodotti, ed era lui che teneva i cordoni della borsa. Al contempo in casa era la massaia che dettava le regole, quando fare il bucato o il pane, chi poteva comprarsi qualcosa, cosa cucinare, era lei che andava al mercato e decideva tutto.
Si evidenzia quindi un quadro meno idilliaco di quello talvolta immaginato. Tuttavia, è vero che esistevano anche lati positivi da non sottovalutare: una rete familiare forte, che offriva sostegno nei momenti di difficoltà, i bambini non erano mai soli, c’erano sempre fratelli, sorelle e cugini con cui giocare e una nonna, una zia che controllava. Anche il senso di solidarietà sia all’interno sia fra le famiglie vicine è un ricordo vivido nei racconti dei testimoni del tempo. Ma la mancanza di libertà sembra sempre essere più forte, soprattutto per le donne, e furono loro, infatti, quelle che spinsero i mariti, nel secondo dopoguerra, a cambiare mestiere per uscire dalla grande famiglia e creare il proprio nucleo indipendente. Oggi si lamenta la mancanza di senso familiare, della vicinanza, di aiuto. La disgregazione di punti di riferimento, di modelli, di unitarietà pone nuovi problemi e interrogativi. La bella, grande e felice famiglia contadina non esiste più, ma occorrono nuovi modelli di convivenza che possano in qualche modo ridare un senso di appartenenza e unione senza privare nessuno della propria libertà.
[1] L’IRTA-Leonardo (https://www.leonardo-irta.it/) raccoglie diverse decine di interviste, manoscritte, audio e video registrate, frutto di un lavoro iniziato negli anni ‘90 dalla prof.ssa Giuliana Biagioli,