Esposizioni regionali e arti applicate: un rapporto interrotto tra museo e tradizioni locali 

 
Marta Vitullo
 
La data del 1860 segna un momento fondamentale per la storia italiana, allorquando una costellazione di territori articolati in stati preunitari - che vedevano nelle fede religiosa l’unica sfera comunitaria - si riuniva in una Nazione da costituire. Uno dei primi mezzi di costruzione della nazione fu l’educazione, cui si pensava sia per la formazione laica dei cittadini, sia in chiave di identità e appartenenza. Se da un lato i canoni dell’estetica idealista guidarono le scelte di conservazione e musealizzazione, d’altro canto la necessità di tramandare e conservare le tradizioni locali richiedeva altri modelli per gli spazi della memoria. Contribuirono a tali ragioni l’erezione di monumenti, l’istituzione di festività nazionali, e videro la luce nuove forme di musealizzazione. Tra quest’ultime si annoverano, quali diretti discendenti dell’allora recente passato, i Musei del Risorgimento, con allestimenti di messa in scena del senso della Patria, incardinati intorno alla sacralizzazione di spade, armi da fuoco, foto, lettere e cimeli, esposti in vetrina a rendere “monumento-documento” il valore patriottico di coloro che parteciparono alla lotta per l’indipendenza. Alla costituzione di un museo nazionale, unico tempio, le municipalità risposero con l’esaltazione della gloria locale, allestendo spazi dedicati a quanti, dai territori, contribuirono all’unificazione. Lo stesso fenomeno delle esposizioni regionali susseguitesi in Italia tra fine ‘800 e inizi ‘900 ha trovato origine dall’esigenza di mostrare le conquiste sociali, economiche e culturali dell’Italia giolittiana. Secondo il modello delle grandi esposizioni universali, che furono scenari per i progressi ottenuti con l’industrializzazione, e di quelle nazionali, che si distinsero particolarmente per l’eccellenza dell’artigianato, le rassegne regionali costituirono sovente l’occasione per tentare una ricognizione della storia artistica e della tradizione culturale di un territorio, la cui conoscenza si promuoveva anche attraverso proposte di itinerari che invitavano i visitatori a muoversi dalla mostra al patrimonio situato nella regione per comprenderlo e contestualizzarlo. A riguardo si possono ricordare le esposizioni di Ravenna e di Siena nel 1904, di Macerata e di Chieti nel 1905 e di Perugia nel 1907. In queste occasioni, i più rilevanti capolavori appartenenti alle correnti artistiche che avevano contraddistinto una determinata area si accompagnavano a manufatti che intendevano rinsaldare una tradizione artigianale strettamente locale, ereditata e da preservare. Intervennero spesso in tal senso le scuole di arte e mestieri e quelle professionali con i lavori prodotti dagli allievi, che venivano presentati nelle mostre con l’intenzione di mantenere una pratica artigianale da coniugare all’avanzamento industriale. Affianco alle rassegne e alle scuole pratiche, avrebbero dovuto svolgere il loro ruolo espositivo, civico e didattico i musei di arte industriale, che tuttavia in Italia, nonostante importanti tentativi (si vedano ad esempio le motivazioni alla base dell’istituzione del Museo del Bargello di Firenze) non perdurarono per la difficoltà della critica idealista a far coesistere negli stessi spazi opere di provenienze così diverse tra loro. Il compito riuscì, in alcuni casi, ai musei civici, allorquando essi si interpretarono come musei della città, riconoscendo i progressi delle esposizioni regionali in termini di aggiornamento degli studi sul patrimonio locale. È significativa al riguardo una considerazione, sulle pagine della rivista «Illustrazione Abruzzese», fatta da Adolfo Venturi in occasione della Mostra d’arte antica abruzzese, mostra che più di altre si caratterizzò per aver riunito per la prima volta numerose opere d’oreficeria, di ceramica, tessuti e merletti eseguiti in diversi periodi storici fino alla contemporaneità. Egli si augurava che quella fosse l’occasione per costituire «il museo paesano, non rigurgitante delle ciarpe della vanità umana, ma coi fiori più odorosi dell’Abruzzo, a fissare i risultati, purtroppo passeggeri, dell’esposizione», per fare sì che accanto al museo si aprisse «la scuola e l’officina!»[1], rapporto, purtroppo disatteso, che avrebbe potuto combinare conservazione, eredità culturale e formazione alla pratica e alla conoscenza.

Bibliografia:

Agosti, Giacomo, Testimonianze venturiane sulle mostre d’arte antica, in: Nino Barbantini a Venezia. Atti del convegno organizzato dalla fondazione Bevilacqua La Masa (Venezia, Palazzo Ducale 27-28 novembre 1992), Canova, Treviso, 1995, pp. 73-88
Dragoni, Patrizia, I musei marchigiani del Risorgimento: origini e prospettive, in: Francesco, Rocchetti (a cura di), Con gli occhi di Gramsci. Letture del Risorgimento, Carocci editore, Roma, 2011, pp. 113-128
Prete, Cecilia; Penserini, Elisa (a cura di), L’Italia delle mostre, 1861-1945, Accademia Raffaello, Urbino, 2020
Venturi, Adolfo, Le esposizioni d’arte retrospettiva. A proposito dell’esposizione di Chieti, in: Illustrazione Abruzzese, 4, 1905, pp. 77-79

[1] Adolfo Venturi, Le esposizioni d’arte retrospettiva. A proposito dell’esposizione di Chieti, «Illustrazione Abruzzese», n.4 (1905), pp. 77-79.