Confini, frontiere e guerre tra storia e attualità
di Giorgio Vecchio
Il significato delle parole “confine” e “frontiera” ci sembra chiarissimo, tanto da non aver bisogno di spiegazioni. La storia invece ci mostra come esso abbia assunto connotazioni diverse nel corso del tempo. Nella nostra cultura europea otto-novecentesca, confine e frontiere ci sono stati descritti come insormontabili, netti, da difendere con ogni mezzo. Rigidi, quindi. Ma basta spostarsi nella cultura degli Stati Uniti d’America per capire che, lì, almeno per tutto l’Ottocento, confini e frontiere erano mobili: come aveva mostrato già un secolo fa Frederick J. Turner (The Frontier in American History, 1920), la storia degli USA andava intesa come la storia di una frontiera mobile, che spingeva verso l’Ovest da conquistare e colonizzare. La storia di una sfida, non a caso ripresa nella proposta della “nuova frontiera” di John F. Kennedy.
In Europa, peraltro, confini e frontiere sono stati impermeabili sulla carta.
Mario Rigoni Stern, nella sua Storia di Tönle racconta con efficacia come fosse ancora spontaneo il passaggio dai territori del Regno d’Italia a quelli dell’Austria-Ungheria negli anni precedenti alla Grande Guerra, a conferma di un’abitudine plurisecolare ben radicata su tutto l’arco alpino. Dove valichi e passi non costituivano confini rigidi, bensì vie di passaggio e quindi di contatti tra popoli diversi, di comunicazioni e di commerci. Solo la retorica nazionalista (e poi, da noi, fascista), in nome di una concezione distorta della patria, ha sovrastimato l’importanza dei confini, sacralizzandoli (i “sacri confini”, appunto) e pretendendone l’intangibilità. Con vistose contraddizioni, però: la volontà di unire entro un unico confine tutte le popolazioni appartenenti a un’unica comunità per motivi di lingua, cultura, religione, “sangue”, ecc. si abbinava alla pretesa di assicurarsi confini “sicuri”, allo spartiacque o lungo qualche fiume (le Alpi, il Reno…), senza curarsi di inglobare genti diverse, poi non a caso costrette alla snazionalizzazione.
Si pensi al caso del nostro confine al Brennero e della conseguente questione sudtirolese.
Quanto i confini possano essere artificiosi e gravidi di pericolose conseguenze può essere avvertito anche guardando a quelli degli attuali Stati africani, arbitrariamente fissati dai colonizzatori europei, mescolando etnie e storie differenti, o, viceversa, spezzandole. Paradossalmente, oggi, quei confini, privi di ogni legittimità storica, vanno mantenuti, per non innescare un terribile effetto domino. E, tuttavia, le guerre africane continuano, nel 2023, senza che l’opinione pubblica occidentale ne sia minimamente informata.
Nel caso dell’Europa, queste contraddizioni hanno fatto sì che, dopo il 1918 e anche dopo il 1945, si siano costruiti altri confini irrealistici, incapaci di risolvere i problemi delle convivenze tra etnie differenti, mai aiutate a comprendere i pregi di una convivenza pacifica. Il revanscismo tedesco nazista venne così giustificato dalla necessità di tutelare i diritti e la sicurezza del Volk germanico e una tale politica venne adottata da ungheresi, bulgari, italiani, minando un equilibrio internazionale già malfatto e precario, quello del 1919.
Dopo la lunga parentesi dei regimi comunisti e quindi dopo il 1989, i problemi nazionali sono riemersi con forza, mostrando quanto fosse illusorio credere che essi fossero solamente residuali. La sorte della Jugoslavia degli anni Novanta è ancora davanti ai nostri occhi. Ma non possiamo dimenticare gli sconvolgimenti ancor oggi operanti in altre aree, come nel Caucaso: georgiani, azeri, armeni continuano a combattersi tra loro o con le proprie minoranze, entro il grande gioco in atto tra Russia, Turchia e NATO (quindi USA). Confini da spostare, di qua o di là, sempre confini, legati all’idea di nazione, di patria, persino di sangue, ancora…
Queste “forces profondes” (come avrebbe detto Pierre Renouvin), dunque, sono sopravvissute ai decenni delle frontiere più rigide che mai si siano viste, quelle della “cortina di ferro” tra Est e Ovest. In tal caso, il confine non era solamente amministrativo e politico-militare, ma anche economico e ideologico, a marcare la distinzione tra due mondi integralmente ostili.
Come sappiamo, il Muro di Berlino era non soltanto un insuperabile ostacolo fisico, ma il simbolo (perenne, si credeva) di questa divisione. I suoi perversi effetti, però, continuano a persistere e non sono estranei alla ripresa virulenta delle spinte nazionalistiche e autoritarie in Polonia e in Ungheria (e altrove).
La caduta del Muro ha però reso più vicino il sogno di un definitivo superamento dei concetti di confine e di frontiera.
Quanto già esistente tra i paesi scandinavi e anche tra Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo (il “Benelux”) è stato via via esteso a gran parte del continente, specie con gli accordi di Schengen, rendendo obsoleti sbarre e controlli doganali.
La frontiera, nell’Europa comunitaria, è tornata a essere facilmente permeabile.
Permeabile? Permeabilissima! A dispetto dei “sovranisti” odierni, impossibilitati a ripetere esperienze come quelle del Muro berlinese, confini e frontiere non offrono una completa sicurezza verso i nuovi “eserciti” stranieri disarmati.
Più ancora che gli approdi dei migranti sulle coste mediterranee, infatti, continuano a incidere statisticamente gli arrivi via terra lungo le rotte balcaniche, così come numerosi continuano a essere i disperati che cercano di ripercorrere le vie dei contrabbandieri (o dei partigiani) lungo l’arco alpino, per entrare e soprattutto per uscire dall’Italia.
Viviamo dunque in un’epoca contraddittoria (tanto per cambiare…). Da una parte, confini e frontiere ci sembrano relitti del passato, anche perché, nel contesto della globalizzazione, il dominio delle superpotenze e delle multinazionali è in grado di mettere in un angolo il vecchio Stato nazionale. Ma, dall’altra, la sicurezza dei propri confini, o anzi magari il loro spostamento più in là, appare un argomento affascinante, tale da giustificare il ricorso a nuovi, devastanti conflitti, per quanto anacronistici possano essere.
Che altro è, se non questo, la guerra d’aggressione voluta da Putin contro l’Ucraina? Non è forse (anche) un ritorno all’Ottocento e al sogno zarista, più ancora che a quello sovietico, dove i confini russi siano non solo psicologicamente sicuri, ma inglobino le genti ritenute appartenenti a una stessa “razza”, storia e cultura (inevitabilmente solo russe) e religione?