Il “Battaglione Mario”: mosaico di lingue, culture e religioni nella Resistenza italiana
di Matteo Petracci
La caratteristica principale del “Battaglione Mario”, formazione partigiana dislocata nel versante meridionale del massiccio del Monte San Vicino, a cavallo tra la provincia di Macerata e quella di Ancona, è rappresentata dal suo carattere spiccatamente internazionale.
La presenza documentabile di partigiane e partigiani italiani, inglesi, scozzesi, russi, ucraini, montenegrini, sloveni, croati, e poi ebrei italiani, polacchi e cecoslovacchi permette di ricostruire la storia di un vero e proprio melting pot resistente, multietnico, mistilingue e multireligioso, operante in una regione spesso apparentemente periferica rispetto ai “grandi” processi storici, tranne che per alcune parentesi, come la Settimana Rossa del 1914 o la Rivolta dei Bersaglieri del 1920.
La presenza di partigiane e partigiani stranieri è elemento abbastanza comune nella storia della Resistenza italiana e conseguenza della svolta aggressiva in politica estera che ha portato l’Italia fascista ad aggredire l’Etiopia, nel 1935, e poi a seguire la Germania nazista nel sostegno al generale golpista Francisco Franco in Spagna e infine nella Seconda guerra mondiale, come paese aggressore. Proprio a partire dalla fine della guerra coloniale in Etiopia, infatti, in previsione di una nuova, futura e generalizzata guerra da intraprendere, alcune aree montane e pedemontane della penisola vengono selezionate per costruire o allestire campi di prigionia per soldati nemici catturati nei vari fronti e per l’internamento di civili deportati in Italia dai loro paesi d’origine. Sulla base di una direttiva del Ministero della Guerra e del Ministero dell’Interno questi territori dovevano rispondere ad alcuni requisiti: non dovevano esservi presenti infrastrutture militari strategiche; non dovevano essere attraversati da grandi vie di comunicazione; dovevano essere poco popolati e la popolazione che vi abitava doveva essere poco politicizzata.
Le Marche centro-meridionali, se si escludono alcuni centri produttivi a elevata densità operaia (come le Officine Cecchetti di Civitanova Marche o i Cantieri navali di Ancona, per fare solo due esempi), in quel periodo sono abitate per lo più da mezzadri e contadini, non hanno infrastrutture strategiche e non sono attraversate da importanti vie di comunicazione. Rispondono quindi pienamente ai requisiti richiesti. Nella sola provincia di Macerata sono aperti sei campi: a Pollenza, Petriolo e Treia (per donne appartenenti a paesi nemici); all’Abbadia di Fiastra, nel comune di Urbisaglia (per ebrei e jugoslavi); a Camerino (per ebrei); a Sforzacosta di Macerata (per prigionieri di guerra britannici, statunitensi e di altri paesi Alleati). Altri due campi per prigionieri Alleati si trovano a Monte Urano e Servigliano, in provincia di Fermo, mentre la parte montana della provincia di Ancona ospita il campo di Fabriano, per internati croati, e quello di Sassoferrato. Infine, a cavallo tra le Marche e l’Umbria, a Colfiorito, è attivo il grande campo per internati jugoslavi, detto “Le casermette”, dove nel 1943 si trovano circa 1500 montenegrini.
Dopo l’8 settembre del 1943, con il collasso dello Stato e dell’esercito, da tutti questi campi migliaia di donne e uomini imprigionati fuggono e, aiutati dalla popolazione contadina, raggiungono le formazioni partigiane che mano a mano si andavano costituendo. Ciò avviene in ogni regione, in ogni territorio dove questi campi erano presenti: in Piemonte come in Toscana, in Emilia-Romagna come, appunto, nelle Marche.
Tuttavia, a rendere sostanzialmente unico il caso del Battaglione Mario è la presenza di un’ulteriore tessera del mosaico di lingue, nazionalità e culture già presenti nella Resistenza italiana, che trova, anche in questo caso, nella conclusione dell’aggressione in Etiopia la possibilità di realizzarsi. Dopo la conquista di Addis Abeba, infatti, nel fascismo e nella monarchia si fa strada l’idea di celebrare il “rinnovato” Impero coloniale, e a Napoli viene allestita l’ultima delle esposizioni coloniali a essersi tenute sulla penisola: la Mostra triennale delle Terre d’Oltremare.
Inaugurata il 9 maggio del 1940 e chiusa un mese dopo, con l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, alla repentina partenza per il rientro nella loro terra del gruppo di libici fatti venire per esibirsi come attrazioni nei vari villaggi indigeni artatamente costruiti, non può seguire quella della più nutrita comunità di somali, eritrei ed etiopici, giunti a Napoli per gli stessi motivi. Si tratta di circa settanta donne, uomini e bambini e una cinquantina di soldati coloniali. Il gruppo resta confinato in baracche di legno circondate da filo spinato, per tre anni, fino a quando, con l’intensificarsi dei bombardamenti sulla città partenopea, si decide di portarli nelle Marche per ragioni di sicurezza. Sistemati nel campo di internamento civile di Treia, lì li coglie la notizia dell’8 settembre e della fuga del re. Successivamente, anche loro aiutati dai contadini del posto, quattro etiopici fuggono, si uniscono al Battaglione Mario e, insieme, il 28 ottobre del 1943, danno vita a un’azione di guerriglia contro lo stesso campo di internamento, per requisire le armi del presidio militare di sorveglianza e liberare altri prigionieri. In totale sono dodici i somali ed etiopici che si uniscono ai partigiani, tra i quali due donne. Della loro presenza e della loro attività restano numerose tracce: testimonianze, documenti, lapidi per i caduti e fotografie, come quella qui di seguito pubblicata.
Matteo Petracci, Partigiani d’Oltremare. Dal Corno d’Africa alla resistenza italiana (Pacini, 2019)