Gli agrumi e il Mediterraneo

Un fecondo incontro

di Giuseppe Barbera

Le ragioni del diffondersi degli agrumi, dalle originarie regioni asiatiche fino alle terre più fertili di ogni continente e ai giardini più preziosi, si ritrovano nella prefazione al Traité du Citrus (1811) nella quale Giorgio Gallesio dà conto dei caratteri particolari dei loro frutti ed alberi: “Questi alberi affascinanti riuniscono nello stesso tempo i vantaggi delle piante ornamentali e quelli delle piante utili, niente uguaglia la bellezza del loro fogliame, il soave profumo dei loro fiori, la lucentezza e il gusto dei loro frutti: nessuna altra pianta fornisce così deliziose confetture, piacevoli condimenti, acque profumate, essenze, sciroppi e il prezioso acido che tanto si usa per i coloranti: tutto, insomma, in questi alberi, affascina gli occhi, soddisfa l’odorato, stimola il gusto, nutre il lusso e le arti, e mostra all’uomo stupito l’insieme di tutti i piaceri”.
La loro storia inizia nelle regioni tropicali ai piedi dell’Himalaya. Per milioni di anni vede protagonista una natura in continua evoluzione. Piccoli alberi e minuscoli frutti che attraggono animali curiosi e affamati, molto prima di interessare gli uomini che però ne fecero presto oggetto di scambi, doni preziosi, omaggi alle divinità. Dinastia dopo dinastia, l’entusiasmo delle corti imperiali cinesi è sostenuto dalle lodi dei poeti per una biodiversità strabordante che ancora oggi è protagonista assoluta di arti e lettere. L’origine delle specie coltivate solo da pochi anni è fatta risalire a tre specie dette “vere”: il cedro, il mandarino e il pomelo. Queste facilmente si incrociano tra loro distinguendosi in innumerevoli dimensioni, forme e colori, prova di una esuberanza genetica che l’uomo usa e incrementa promuovendo ibridazioni, accorgendosi di mutazioni, sfruttando l’influenza dei caratteri ambientali. Se gli agrumi più resistenti all’aridità prenderanno la via dell’Australia con frutti digitati che solo da poco anche qui si coltivano con il pretenzioso nome di caviale vegetale, saranno i velieri e le carovane a trasportare piante che avranno uno straordinario successo.
 
Oggi, come gruppo, gli agrumi sono gli alberi da frutto più coltivati al mondo e la loro presenza non è salda solo nella realtà agricola ma affonda profonde radici nell’immaginario, partecipando ai miti più illustri.

Il cedro si è ritenuto che fosse il frutto che Ercole a compimento delle sue fatiche rubò agli dèi nel giardino delle ninfe Esperidi, impresa così celebre che darà ai frutti di tutte le specie agrumicole il nome di esperidi: non semplici bacche come quelle, carnose e polpose, dei loro consimili.  Cedri si è anche ritenuto fossero i frutti “di bell’aspetto” che ristorarono il popolo ebraico dopo avere attraversato il deserto, celebrati adesso nella “festa dei Tabernacoli". 

Ma oltre i miti, la storia dice che furono gli esploratori di Alessandro Magno a segnalare a Teofrasto, allievo di Aristotele, la presenza in Media, l’antica Persia, di alberi profumati e capaci di fiorire più volte. Fu l’occasione per trasportarli prima in Grecia poi a Roma.

Recenti indagini genetiche dimostrano che oltre al cedro, i romani conoscessero anche il limone e ciò toglierebbe il primato della sua introduzione nel Mediterraneo agli arabi, ai quali però non può essere tolto il merito, intorno al X secolo, di aver importato l’arancio amaro.

Sul modello paesaggistico di quelli persiani, i giardini andalusi e siciliani, si meritarono la qualifica di “paradisiaci”. Il successo di frutti e alberi così speciali supera i confini delle coste mediterranee per addentrarsi nelle regioni del nord. Aranciere, limonaie e cedraie accompagnano da allora le ville aristocratiche. Se non basta coltivarli in spalliere protette da muri, coltivati in vaso si chiudono in serra per esporli d’estate nei parterre dei giardini.

Gli esempi più illustri sono quelli fiorentini degli anni del Rinascimento quando il piacere dei sensi si accompagna al desiderio di conoscenza: si raccolgono agrumi ovunque possibile: frutti buoni da mangiare ma anche bizzarri, mostruosi a vedersi: è una gioia collezionarli e ammirali. Tra i nuovi frutti è anche, dalla fine del Quattrocento, l’arancio dolce. Si ritiene che sia merito della sua introduzione sia dei portoghesi che perciò daranno il nome del loro paese ad una antica varietà ma di certo, prima ancora dei loro viaggi in India, già genovesi e siciliani lo conoscevano. Nel 1487 a Palermo un atto notarile dà conto di arangiis dulcibus

Dalle terre mediterranee sarà solo alla fine del Settecento che grandi quantità di agrumi giungeranno sui mercati internazionali e financo in America. Tre ragioni concorrono: la navigazione a vapore, la ferrovia e prima ancora la scoperta di quanto (grazie alla vitamina C) siano indispensabili avversari della terribile malattia dello scorbuto che, ad ogni viaggio, dimezzava gli equipaggi delle navi. 

Nel 1810 arrivano nel Mediterraneo anche i mandarini: il loro successo cresce negli anni e sono oggi idonei ai consumi moderni: porzioni monodose e facili da sbucciare. Con aranci e limoni danno bellezza alle terre mediterranee e sostengono i loro mercati.

Oggi, con tanta storia alle spalle, l’interesse per gli agrumi è diffuso ovunque ma il destino degli agrumi mediterranei è divenuto però incerto. Concorrenze internazionali e cambiamenti climatici aprono spazi all’abbandono delle terre più difficili e a nuove colture esotiche. Il futuro è così affidato non solo agli agrumicoltori ma agli amanti dei giardini e ai consumatori. Non dimentichiamo che nelle terre mediterranee un agrumeto è chiamato giardino e che “mangiare è un atto agricolo” e che anche attraverso le scelte sui mercati si possono salvare i paesaggi utili e belli degli agrumi.
 
Per leggerne di più: Giuseppe Barbera, Agrumi. Una storia del mondo, il Saggiatore 2023