Ad ottant’anni dalla Liberazione del nostro territorio

di Catia Sonetti (direttrice Istoreco di Livorno)

Tutto il territorio della nostra regione, dal sud fino alla linea gotica che interessò le province di Massa e Carrara e una parte della provincia di Pistoia, soprattutto nella sua parte montuosa, fu liberato nel 1944. Le zone rimaste fuori furono liberate il 25 aprile del 1945. Nell’anno in corso, pertanto, ricorderemo l’80° anno dall’arrivo degli Alleati che insieme alle truppe partigiane sconfissero le ultime resistenze nazifasciste nel centro sud della nostra provincia.
Questo anniversario cade in un contesto storico, sia nazionale che internazionale, assai problematico: dalla guerra in Ucraina invasa dai russi, alla guerra nella striscia di Gaza tra esercito israeliano e Hamas che con l’aggressione terroristica del 7 ottobre e con le sue 1.500 vittime innocenti, ha provocato da parte del governo israeliano una risposta che ha superato tutte le peggiori aspettative con oltre 32.000 morti tra i palestinesi e la tenuta in ostaggio ad oggi, ancora di 130 israeliani. Nel contesto italiano con la presenza al governo del Paese degli eredi della fiamma tricolore che sono incapaci persino di pronunciare la parola: antifascista. Eppure, tale è la nostra Costituzione nata proprio dalla Resistenza e dalla lotta partigiana e le forze politiche, tutte, quando si insediano con i loro governi, giurano su quella Costituzione. Quindi, e non è la prima volta, questo anniversario rischia di essere ricordato sottotono e svilito nei suoi valori e nella sua storia. Tutto questo va tenuto presente perché oltre ai fatti da ricordare c’è anche una narrazione degli stessi che è cambiata nel tempo, spesso positivamente, con delle vere e proprie narrazioni differenziate ma c’è anche, sin da quel lontano 1944, una lettura piegata agli interessi dei gruppi politici dominanti.

Ma per ricordare quegli avvenimenti, desidero partire da una considerazione tanto ovvia quanto poco diffusa. La Resistenza partigiana nei nostri territori cominciò ad organizzarsi dopo l’ottobre del 1943, a ridosso cioè dell’armistizio dell’8 settembre, e qualche volta anche l’operatività delle prime bande scivolò ancora più in avanti nel tempo. In ogni caso fu una Resistenza armata che durò alcuni mesi. Il territorio di Grosseto, quello più a sud, compresa la città, fu liberato tra il 15 giugno (il capoluogo) e il 18 l’interno (il Monte Amiata), oltre un mese dopo venne liberata Livorno e poi Pisa per proseguire e fermarsi sulla linea gotica. Tutto questo non per entrare nel merito di una discussione specialistica sulla risalita delle truppe alleate lungo la penisola e i meriti e i demeriti di quello che è stato definito da Ellwood “l’alleato nemico”[1] ma per fare una considerazione su quella esperienza, che seppure non particolarmente prolungata nel tempo[2] fu straordinaria e dirimente per tutti coloro che vi parteciparono. La caratteristica della Resistenza fu tale che, anche per coloro che si rifugiarono in una “casa in collina”, quei mesi sconvolsero e cambiarono la loro visione delle cose e li costrinsero pur senza volerlo, a schierarsi, senza neppure avere consapevolezza piena dei pericoli che correvano. Pensiamo al sostegno offerto dalle campagne alla sopravvivenza delle bande. Pensiamo a tutte le persone, contadini, abitanti dei paesi, ricchi e poveri e meno poveri, che aiutarono le decine e decine di ebrei in fuga dalle città, quelli che diedero rifugio ai soldati alleati scappati dai tedeschi, quelli che aprirono le loro case agli sfollati che fuggivano dai bombardamenti sui centri cittadini.
Naturalmente non possiamo dimenticarci di tutti coloro, e non furono pochissimi, che si impegnarono in prima persona a consegnare le vittime predestinate alle autorità repubblichine o ai tedeschi (basta pensare alla storia della villa del vescovado di Grosseto[3]) o a quella del maresciallo Pintus e dei deportati dal Gabbro[4]. Come ci furono quelli che, con diversi gradi di responsabilità, aiutarono le autorità a catturare i cosiddetti “banditi”, pensiamo alla storia di Oberdan Chiesa [5]o a quella di Frida Misul[6] denunciata dalla sua maestra di canto e deportata ad Auschwitz.   

Sul piano degli esempi positivi, di quella che Sèmelin ha definito: la resistenza senz’armi, da diversi anni la storiografia ha approfondito le storie della cosiddetta resistenza civile, non meno importante di quella armata. Pensiamo su questo versante all’impegno profuso delle donne, soprattutto a tutte quelle che si esposero al rischio di stupro ma anche della fucilazione per portare ordini, medicinali, vestiario a coloro che si erano rifugiati alla macchia, partecipazione sottovalutata fino a pochi decenni fa e anche quando ha cominciato ad emergere, grazie alla sensibilità di alcune storiche[7], ha comunque stentato a diventare narrazione diffusa[8].  Ma ci furono ancora altri protagonisti di quella vicenda. Pensiamo al clero di base che si schierò a fianco della Resistenza anche a rischio della vita e dell’arresto. Nella nostra provincia, da sud a nord, possiamo ricordare numerosi parroci e sacerdoti che si impegnarono, da don Angeli deportato a Dachau per il suo impegno[9] e ai più fortunati come don Ivo Martelli a San Vincenzo, don Vellutini a Rosignano, don Angelo Biondi, Ugo Salti e altri ancora. E non possiamo tacere i militari livornesi arrestati e deportati in Germania che talvolta ci hanno lasciato testimonianza scritta della loro odissea.[10] Come ancora va ricordato l’impegno a ridosso dell’8 settembre di un gruppo di poliziotti e militari, da Gian Paolo Gamerra, maggiore dei Granatieri che provò a resistere contro i tedeschi con il suo gruppo e nello scontro trovò la morte con i suoi uomini, poi medaglia d’oro al valor militare,[11] al poliziotto Vittorio Labate  che con altri sette compagni fu fucilato dalle SS nel comune di Collesalvetti[12] mentre provava ad opporre resistenza
Se poi passiamo a ricordare le condizioni di vita nelle quali si svolse dalle nostre parti la Resistenza delle bande, questa fu resa particolarmente difficile anche per la stessa morfologia della zona. Nel territorio livornese e pisano, in quella stretta fascia subito dietro la costa, dove operarono le diverse formazioni armate, si concretizzò una “guerra di macchia”, tra rovi, lecci, castagni dove era difficile nascondersi e non era banale né scontato organizzarsi poiché nessuna banda, seppur inquadrata dentro la 3ª Brigata Garibaldi, fu mai omogenea al suo interno. Del resto da nessun parte lo fu.  Ricordiamo che le bande non furono mondi coesi e perfetti. Vi confluirono molti soldati sbandati che volevano fuggire i bandi di leva, alcuni ex militari scappati dall’esercito dopo l’8 settembre, alcuni politici che erano quelli che avevano le idee più chiare anche sul “dopoguerra” perché arrivavano a questa storia con l’esperienza della clandestinità, e magari anche con quella maturata nella guerra di Spagna e a loro fu spesso affidato il compito della “educazione alla democrazia” all’interno del gruppo. A questi gruppi già compositi, si aggiunsero con il tempo militi tedeschi scappati dal loro esercito[13] o catturati dai partigiani in qualche scontro a fuoco, e negli ultimi tempi molti ex carabinieri che si unirono alla guerra partigiana così come alcuni soldati sovietici sfuggiti al controllo dei tedeschi[14]. Per convinzione? Per opportunismo? Il discorso su questo può restare solo aperto.

Ci fu per tutti loro la possibilità di resistere nel tempo perché collegati tramite staffette, sia maschili penso al “nonnino”, il padre di don Angeli attivo nella Resistenza con il gruppo dei cristiano sociali, che femminili. Ricordo che a quelle donne poi a guerra finita non venne riconosciuto nessun merito. E non erano poche: Osmana Benetti Benifei, Ubaldina Pannocchia sul versante del mondo comunista ma anche la cattolica Erminia Cremoni[15] e ancora molte altre pressoché sconosciute.
Fu una resistenza articolata e composita in cui trovarono spazio sia i socialcomunisti che i cattolici, gli azionisti e i repubblicani, gli anarchici e i cristiano sociali, e molti cani sciolti. Le bande si organizzarono quasi sempre nella nostra provincia dentro le Brigate Garibaldi dove certamente il ruolo dei comunisti fu preponderante[16]ma l’arco politico di riferimento dei diversi componenti era assai complesso e articolato. Come complessa era la loro estrazione sociale. Anche se in maggioranza operai, specialmente nel sud con la presenza dei due grandi complessi industriali: l’Ilva e la Magona. Ma ci furono anche professori di scuola, diplomati, persone di estrazione alto borghese e poveracci delle classi popolari. E sempre dentro le bande agì una prima forma di democrazia diretta a cominciare dalla scelta del comandante, individuato non in base ai titoli ma in base al riconoscimento spontaneo dato dai membri della banda.
Tutti loro combatterono per liberare il Paese dai tedeschi e dai fascisti; lottarono in molti per una trasformazione radicale anche a livello sociale che poi non ci fu, ma sicuramente la loro esperienza che divenne fondativa per la futura vita della Repubblica ci ha portato in dono: l’abolizione della vergogna delle leggi razziali, l’elezione della Assemblea Costituente, il referendum Repubblica/monarchia, il diritto di voto alle donne. Ciascun obiettivo si sviluppò in un percorso accidentato e non lineare ma alla fine quei giovani ragazzi che contribuirono alla liberazione del Paese, che fu sicuramente importante anche se, senza l’appoggio militare delle truppe alleate la conclusione non era scontata, ci hanno consegnato un paese migliore. Resta agli uomini e alle donne di oggi, tutelarlo e possibilmente migliorarlo.
(Livorno, 14 aprile 2024)

[1] David W. Ellwood, L’alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo-americana in Italia 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 1977.[2] Nelle nostre zone, rispetto ai territori a nord della linea gotica (tutta la parte settentrionale dell’Italia con le sue montagne, la sua pianura padana, le valli del Comacchio e tanto altro ancora dove le bande partigiane continuarono a combattere nel lungo inverno del ’44-‘45) nella nostra regione l’intera vicenda va collocata dentro un arco temporale che va da un minimo di sei mesi ad un massimo di nove-dieci.[3] Nel 1943, l’allora vescovo di Grosseto, Paolo Galeazzi affittò la villa di proprietà del vescovado a Roccatederighi alla Repubblica di Salò per utilizzarla come campo di concentramento per ebrei. Sulla vicenda esistono sia testimonianze che video che romanzi che testimoniano una memoria diversificata. Ci sono coloro che difendono il vescovo che a loro parere si prodigò per migliorare le condizioni di vita degli ebrei e chi invece mette l’accento sul contratto di affitto stipulato dalla Curia e la dura realtà della deportazione di moltissimi lì ricoverati. Cfr Luciana Rocchi, Ebrei nella Toscana meridionale: la persecuzione a Siena e a Grosseto, in Enzo Collotti (a cura di), Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI. Persecuzione, depredazione, deportazione (1943-1945), Carocci, Regione Toscana - Giunta Regionale, 2007, vol 1, e il romanzo di Sacha Naspini, Villa del seminario, e/o, Roma, 2023.[4] Enrico Acciai, Una città in fuga: livornesi tra sfollamento, deportazione razziale e guerra civile (1943-1944), Ets, Pisa, 2016.

[5] Giovanni Brunetti, Oberdan Chiesa. Un uomo, una vittima, un mito, Ets, Pisa, 2022.

[6] AA.VV., (a cura di Fabrizio Franceschini), Per Frida Misul. Donne e uomini ad Auschwitz, Salomone Belforte & C.; Livorno, 2019 e Frida Misul, Canzoni tristi. Il diario inedito del Lager (3 aprile 1944-24 luglio 1945), (a cura di F. Franceschini, Salomone Belforte & C.; Livorno, 2029.
[7] Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi: storie di donne 1940-1945, Laterza, Bari, 2000 e Lidia Rolfi Beccaria, A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, Einaudi, Torino, 2020.
[8] Recentemente ha dato un contributo importante il volume di Benedetta Tobagi da cui poi è scaturito anche uno spettacolo teatrale, La Resistenza delle donne, Einaudi, Torino, 2022.
[9] Cfr. Don Roberto Angeli, Vangelo nei Lager, La Nuova Italia, Firenze, 1965.
[10] Cfr. fra i tanti testimoni diretti, Ivo Michelini, Diario della prigionia (1943-1945), a cura di Piero Michelini, stampato in proprio, senza tralasciare il primo e oramai classico Alessandro Natta, L’altra Resistenza. Gli internati militari italiani in Germania, Einaudi, Torino, 1997.
[11] https://anpi.it, ultima consultazione 7 aprile 2024.
[12] https://www.cadutipolizia.it/fonti/1943-1981/1944labate.htm, ultima consultazione 7 aprile 2024.
[13] Cfr.il testo di Neda Parri, La vita amara, Ibiskos editrice, Empoli, 2005.
[14] Catia Giaconi, Buriazia, Ets, Pisa, 2013.
[15] Cfr. Tiziana Noce, Nella città degli uomini. Donne e pratica della politica a Livorno fra guerra e ricostruzione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009.
[16] Rinvio a due testimonianze che riguardano proprio la provincia di Livorno, quella di Mario Lenzi, O miei compagni. Una testimonianza, pubblicato dal Comune di Livorno come Supplemento a Comune notizie, 2013, e il volume, Livorno dall’antifascismo alla Resistenza. Ricordi di Bruno Bernini, Pacini Editori, Pisa, 2001.