La memoria delle piante
(Recensione al libro di Velio Abati, La memoria delle piante, Manni,
S. Cesario di Lecce 2023)
di Francesco Serino
“Dunque sono tornato”.
Inizia con una congiunzione questo piccolo e denso libro di Velio Abati, da poco pubblicato per Manni. È una felicissima idea quella di usare la letteratura come fosse una sorta di approdo del racconto orale, una materializzazione, quell’alchimia in cui sentimenti, ricordi, visioni, ma anche illusioni, speranze, si fondono e si lasciano scivolare nella lingua scritta.
Questo “dunque”, perciò, è simbolo di umiltà e saggezza, ma soprattutto di meraviglia, perché la memoria, in fondo, è sempre foriera di bellezza.
Velio Abati scrive su una corda tesa. È raro incontrare una prosa tanto vibrante, tanto elaborata, dove anche la punteggiatura acquisisce significato, dove perfino la spaziatura tra i paragrafi segue intelligenti scelte di respiro. È una Natura, quella narrata ne La memoria delle piante, che si nutre della complessità, la stessa complessità che risiede ontologicamente nelle viscere del mondo e dell’essere umano. Ed è l’essere umano in quanto tale la fonte alla quale Abati rivolge la sua attenzione come uno studioso all’interno del Grande Archivio che si apre davanti agli occhi dal protagonista, fatto di retaggi ancestrali e di un futuro rappacificante.
Abati ne analizza dettagli raccontando memorie tramandate (sono storie eterne?), pulsando di gioia mentre riannoda i fili del passato, ponendosi domande degne di risposta. Eppure, in qualche modo il libro ha un narrare per echi, per lampi quasi inafferrabili, e vive per questo di un’energia propria, la cui armonia si percepisce solo dopo averlo lasciato decantare in silenzio.
Abati compie un esercizio stilistico che è una vera e propria poetica. Ed anche qui, è insolito che un autore si confronti con la lingua madre con tanta energia. Si tratta di un libro, questo, difficilmente classificabile. È un libro tecnicamente ostico, ed è fuorviante parlarne come fosse un romanzo, sebbene lo sia, perché alla lunga guadagna il fascino (anche estetico) del poema epico, a volte dell’inno, e lo fa utilizzando la lingua in modo pregnante. La lingua e il “parlato”, che diviene nello scritto testimonianza di una specie di “antropologia della semantica”. C’è questo aspetto, più di ogni altro, che dona al testo un motivo di riflessione: l’utilizzo di termini dialettali come strumento di universalizzazione della lingua piuttosto che di circoscrizione. Il valore essenziale di certe parole, come di certi gesti, di certe esperienze accumulate dalle generazioni tra i fuochi ardenti della Storia, nei sudori del pianto e nel suono delle risa dei bambini che si rincorrono tra i solstizi e gli equinozi.
Eccolo, il mondo di Abati, un mondo rurale definito con la finezza della miniatura. E alla fine, in un compimento che ha il germe del nuovo inizio, il narratore accoglie ciò che lo scritto ha seminato nel dispiegarsi delle pagine e che, in fondo, non è altro che Tempo, insopprimibile compagno di vita.
“Dunque siamo tornati.
Le cataste della legna, dall’inverno smacchiata alla proda, vengono portate via. Al vento fresco di marzo, il grano cresce silenzioso. Nei campi il verde è intenso.”
Sarebbe bello insegnare ai nostri figli a costruire immagini così evocative e complesse, perché in questo folle mondo c’è bisogno di deflagrazioni, di rivoluzioni cognitive.