Vulnerabilità e dipendenza
Vi sono due piste da seguire per ragionare sull’idea di vulnerabilità. La prima è più evidentemente indirizzata verso una accezione critica, problematica del termine, quella più direttamente connessa alla radice etimologica di ferita e estensivamente del danno, della debolezza, della fragilità. In fondo questa percezione l’abbiamo condivisa, come Occidentali, con la morte di Achille, la cui vulnerabilità si palesa drammaticamente e inaspettatamente in un corpo apparentemente inviolabile e vincente, metafora della modernità e della sua attuale evoluzione; e sempre dall’antico pensiero greco ci perviene (ricordata da Serge Latouche) la possibilità della scelta tra la misura (prhónesis), e dunque il senso del limite, e la dismisura (híbris), la prospettiva dell’illimitatezza, dello sfidare i confini con tutta l’instabilità e l’incertezza che ne sono associate ma anche con l’illusione di sfuggirne attraverso la vertigine dell’invulnerabilità, del non pagar mai prezzo.
Chi ammonisce sul pericolo derivante dall’eccessiva fiducia nei propri mezzi è chiamato – ancora una volta l’epica ci viene in soccorso – ‘Cassandra’, dimenticando spesso che la figlia di Ecuba e di Priamo non sbagliava, inascoltata, le sue profezie.
Qui entra in scena la seconda interpretazione di vulnerabilità, ossia l’autopercezione della propria natura umana e non divina, la presa d’atto della nostra precarietà ontologica come propedeutica all’esercizio della sobrietà, della corretta riconsiderazione del rapporto tra i mezzi e i fini, nel misurarsi con le proprie forze stabilendo un ‘quanto basta’: come ricorda Alexander Herzen, citato da Colin Ward, “una meta che si situi infinitamente lontana da noi non è una meta, è una mistificazione”. Dunque una coscienza della vulnerabilità come ‘guida’ per l’esistenza, un ribaltamento dell’ordine patriarcale che non prevede debolezza, sensibilità o cura, per definizione sentimenti femminili. La prima pista ci porta così verso un’idea indesiderabile di vulnerabilità – e dunque verso la sua rimozione, la seconda verso l’opportunità di esserne consapevoli.
La seconda accezione è senz’altro la più feconda, meno ‘moderna’ nel senso dell’occidentalizzazione del mondo e dunque sfidante l’ordine culturale dominante, istintivamente più orientata alla solidarietà, all’equilibrio tra esseri umani e tra questi e la natura che li accoglie. Va tuttavia proposta una cautela: non è detto che la presa d’atto della propria vulnerabilità abbia un effetto taumaturgico, risolutivo ed equilibrato; la vulnerabilità può essere il portato di una condizione imposta di inferiorità, di debolezza procurata (o inconsapevolmente auto-procurata, in certi casi) l’uscita dalla quale non sempre sta nelle immediate possibilità e capacità di chi pure ne prende coscienza – non può liberarsene, in altri termini, se non attraverso il conflitto. Spesso infatti è associata alla condizione di dipendenza, una condizione che quando ha carattere unidirezionale (non è inter-dipendenza) condanna alla minorità chi ne è relegato; una condizione, quella della dipendenza, che sovente è associata alla accurata opera di contrasto del mainstream alle istanze e alle pratiche di emancipazione. Individui, comunità, società dipendenti sono per definizione vulnerabili: una delle risultanze più evidenti della legge sul divorzio (in Italia nel 1970, confermata col referendum del 1974, in un decennio denso di conquiste sociali per il nostro Paese) è stata certamente l’emancipazione delle donne dal vincolo di dipendenza (economica, in particolare) dagli uomini-mariti, fonte di estrema vulnerabilità personale e sociale; sempre in quel decennio, a livello internazionale la breve ma intensa stagione dei Dependentistas nel Sud del mondo metteva a nudo il vincolo di dipendenza dei Paesi dell’allora Terzo Mondo dalle catene politico-economiche del Nord estrattore, catene spesso mascherate da ‘aiuto allo sviluppo’ e da ‘sostegno del mondo libero alla democrazia’, il cui principale obiettivo rimaneva tuttavia lo stato di subordinazione e di vulnerabilità di tanta parte del pianeta – come ben ha sperimentato il Cile del Presidente Allende, tra i tanti. Ancora in quel decennio fecondo Ivan Illich, ragionando sulle ‘due soglie di mutazione’, avvertiva già come lo strumento che sino ad un certo punto ci aveva resi liberi (nella salute, nella mobilità, nell’istruzione, nella vita quotidiana) diventava, oltre una data soglia di complessità, controproducente, rendendoci vulnerabili e dipendenti da ristrette élite professionali ed economiche. Ma non a caso l’idea di vulnerabilità viene oggi associata anche al territorio, quello indebolito da decenni di politiche e pratiche neoliberiste nel quale l’insorgenza pur diffusa di soggetti e pratiche di resistenza si scontra con il dato oggettivo di una soffocante condizione di dipendenza (economica, sociale, politica, culturale etc.) indotta, che rende qualsiasi progettualità sempre molto complessa – in qualsiasi modo le intendiamo, le aree marginali del nostro Paese (di norma le Terre Alte) portano nella loro stessa definizione lo stigma della vulnerabilità. E nuovi orizzonti di vulnerabilità come dipendenza si affacciano in questa seconda modernità, come ad esempio l’accentramento delle informazioni nei grandi hub digitali privati, le dipendenze energetiche, l’instabilità stessa delle reti telematiche (vulnerabili per definizione, come dimostrano le spese stratosferiche pubbliche e private per la cd. cybersecurity) che governano oramai gran parte della nostra vita quotidiana. Se dunque una società invulnerabile è utopica (e forse nemmeno così desiderabile), è tuttavia possibile pensare ad una progressiva strategia di riduzione degli spazi di dipendenza, verso una più auspicabile inter-dipendenza come mutuo appoggio contro una vulnerabilità esito di uno stato di minorità e, parallelamente, un ampliamento dei margini di in-dipendenza, che in termini territorialisti abbiamo sempre tradotto come autosostenibilità, individuale e collettiva.
Abbiamo citato: Serge Latouche, Limite (Bollati Boringhieri, To 2012); Colin Ward, Anarchia come organizzazione (Edizioni Antistato, Mi 1976); Ivan Illich, La convivialità, Boroli, Mi 2005).